Adinolfi: «Cittadini tagliati fuori, un aborto che danneggia la democrazia»

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Alla vigilia delle elezioni di secondo livello che tra pochi giorni rinnoveranno il Consiglio metropolitano, la disinformazione dei cittadini, figlia di una noncuranza la cui responsabilità è tutta in capo alle istituzioni, è la testimonianza capitale di un fallimento che è politico e amministrativo, giuridico e economico, sociale e identitario.

Domenica 13 marzo sindaci e consiglieri dei 92 Comuni che compongono la Città metropolitana di Napoli eleggeranno, ultimi in Italia e dopo ben tre rinvii, i loro rappresentanti per un esito che non garantirà la rappresentatività dei centri più piccoli e che sarà ignorato dall'opinione pubblica.

Non a caso, i 23 consiglieri che occupano gli scranni del suggestivo Complesso Monumentale di Santa Maria La Nova sono per la stragrande maggioranza dei napoletani (cittadini e metropolitani) degli illustri sconosciuti. Fa eccezione il sindaco metropolitano, che è lo stesso del capoluogo, eletto da un quarto dei napoletani e al quale la legge affida il compito di governare 3 milioni e mezzo di cittadini. E sì che nel 2014, quando le Province passavano il testimone alle nuove entità amministrative, la legge Delrio prometteva un nuovo destino per le aree urbane. Oggi, come sostiene Massimo Adinolfi, professore ordinario di Filosofia Teoretica alla Federico II di Napoli e editorialista per diversi quotidiani, quella speranza è appassita fino a diventare un'occasione sprecata.

Professor Adinolfi, abbiamo bisogno di una nuova visione per uscire dalla palude nella quale ristagna ormai da tempo l'area metropolitana di Napoli?

«In astratto, si potrebbe rispondere di sì. La verità è che spesso le norme inseguono la realtà, e la riforma che ha dato vita a queste nuove figure giuridiche è nata per esigenze molto diverse da un ridisegno del profilo amministrativo, per questo non è stata pensata fino in fondo. Tutto è nato da banali esigenze di risparmio, bisognava eliminare alcuni enti. Tuttavia questa per Napoli dovrebbe essere un'opportunità: dovremmo aspirare a realtà urbane che abbiano una dimensione metropolitana più complessa e più ampia».

Un'opportunità che per ora non è stata colta. È fallita l'applicazione politico-amministrativa o bisogna ripensare il concetto di Città metropolitana?

«Entrambe le cose, secondo me. Diciamo sempre che non riusciamo a fare una riforma della Costituzione, ma in realtà alcune cose come il titolo V sono state modificate. E ci sono stati altri interventi che, come la legge Delrio, hanno modificato profondamente l'articolazione dello Stato. C'è un difetto nel manico, poiché si è proceduto alla riforma senza un disegno organico, ma esiste anche un problema di esecuzione, di messa a terra della riforma, che è rimasto sulla carta».

Non stupisce il fatto che i cittadini siano distanti anni-luce dalla vita di un ente non pervenuto, come conferma il disinteresse per le prossime elezioni del Consiglio metropolitano.

«È un meccanismo che non li chiama in causa, di conseguenza le elezioni sembrano essere uno di quei momenti della vita pubblica che si svolgono in poche e ristrette stanze nelle quali si fanno accordi, liste e cartelli. In più, manca il collante dei partiti, che dal canto loro non fanno lo sforzo di tradurre tutto questo in un progetto politico. Manca la capacità di coinvolgere i corpi intermedi e meno ancora i cittadini, mentre le Città metropolitane dovrebbero diventare il centro di un progetto politico. Eppure oggi è fondamentale il concetto di accountability, che punta a collegare decisione e responsabilità nelle politiche pubbliche».

Questo scollamento tra il Palazzo e i cittadini lede anche il concetto di rappresentanza.

«Il concetto di rappresentanza è sotto botta in generale. Tutti hanno un deficit di legittimazione, ed è la fortuna delle forze populiste. Basti pensare che qualche sera fa in tv la filosofa Donatella Di Cesare, che pure è persona di indubbia qualità, lamentava il fatto che il tecnocrate Draghi non fosse stato votato dal popolo, ma sappiamo che il premier in Italia non è eletto. Questo ci dà il senso di quanta poca centralità abbiano gli istituti della democrazia. Tornando alla Città metropolitana, nessun cittadino si sente rappresentato dai consiglieri metropolitani o dall'ente stesso, e quando questo succede il rischio per la democrazia è notevole. Anche nelle recenti elezioni per il sindaco di Napoli, il discorso metropolitano entrava in gioco solo in funzione degli accordi politici funzionali alle elezioni».

La Città metropolitana di Napoli, insomma, resta un'incompiuta. Quali sono i danni che derivano da questo stallo?

«Già definirla un'incompiuta è un giudizio generoso. Significherebbe che qualcosa è stato avviato. Secondo me è più corretto dire che è un aborto. Si attende una nuova nascita, ma oggi la vedo un'ipotesi remota.  E se ci sono attività, progetti e servizi che hanno bisogno di un respiro più ampio di quello strettamente comunale lo stallo è un grave danno allo sviluppo della città. Un processo di riforma può anche utilizzare come volano un cambiamento amministrativo, e in questo senso l'istituzione delle Città metropolitane ha offerto l'occasione per costituire nuovi centri di iniziativa pubblica. Un'occasione sprecata».

La nostra area metropolitana sconta anche una visione «Napoli-centrica» che relega l'hinterland in una dimensione di vassallaggio?

«Soffriamo di Napolicentrismo, non c'è dubbio. In parte è inevitabile, considerato il peso culturale, sociale ed economico del capoluogo. Napoli vive e respira attraverso gli abitanti della città e della provincia. Da salernitano, però, sono più prudente. Il tema della testa grande che fagocita il resto non riguarda solo l'area metropolitana, ma l'intera regione, ed è stato speso politicamente. La metà dei campani o quasi abita a Napoli e dintorni, e nel mondo esiste Napoli, non Caserta o Salerno. Correggere questa stortura è difficile, e si deve provare a farlo proprio a livello di Città metropolitana».

In quest'opera di riequilibrio, i trasporti e le infrastrutture giocano un ruolo fondamentale.

«Capitoli come trasporti e rifiuti hanno per me una naturale dimensione metropolitana, e lo stesso vale per il turismo: se devo pensare un pacchetto turistico che impegni Pompei, Pozzuoli e Napoli vado in una direzione che supera i confini cittadini. Il trasporto pubblico locale, come qualunque rete infrastrutturale, ha bisogno di due cose: efficienza e certezza. Due condizioni essenziali per l'organizzazione razionale di una società. Se mancano quelle, mancano i fondamentali. I trasporti, insieme con la manutenzione degli spazi pubblici e delle aree verdi, sono una delle cose che richiedono un profondo ripensamento nella gestione. La mia impressione è che a questa dimensione si rinunci per scetticismo e fatalismo. Perché ci si è provato già e non si è riusciti. Come se Napoli e la sua area urbana non avessero diritto ad una modernità vagamente somigliante a quelle di altre città europee. Eppure, con l'eccezione di Barcellona e Marsiglia, questa è una delle poche città europee che si affacciano sul Mediterraneo. È una vocazione che Napoli dovrebbe saper coltivare, invece si perde e affoga in una specie di Giorno della marmotta che si ripete di volta in volta. La speranza è che l'attuale amministrazione rompa l'incantesimo. Ma intanto il livello di frammentazione delle forze politiche, uno dei mali endemici del Paese, a Napoli raggiunge forme quasi parossistiche, e quando il materiale politico è così polverizzato è difficile costruire. Questo è un handicap serissimo anche per l'amministrazione in carica, che deve rispondere e dare conto a tanti interlocutori».

Quanto è lontana la Campania dell'entroterra dalla grande città capoluogo?

«Le aree interne patiscono un problema di spopolamento e hanno bisogno di inventarsi una vocazione che non sia esclusivamente conservatrice di stili di vita che spesso si tende a mitizzare. Il compito di una buona amministrazione regionale è quello di accorciare le distanze. Se non si vuole idealizzare la condizione agreste, rurale, bisogna "rammendare" questi territori tra loro: è la parola che ha impiegato Renzo Piano parlando di periferie e città. E quel rammendo deve valere anche per le città e le aree interne. Non esiste unità amministrativa che possa non tener conto delle differenze geografiche. Il problema demografico è stato evidenziato anche dal Formez, occorre rianimare quei luoghi inventandosi nuove forme di turismo e utilizzando la transizione digitale. Più che per spazi, penserei per flussi. Come dice il sociologo Aldo Bonomi, abbiamo bisogno di collegare questi con i luoghi».