Amaturo: «Sostenere i più deboli di fronte alla crisi per garantire la pace sociale. Ma all'Italia manca una guida»

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Dopo un agosto da ultima spiaggia, trascorso un po' da struzzi, con la testa - appunto - sotto la sabbia, come se niente fosse successo o come se tutto potesse ancora accadere, è il momento di fare i conti con la realtà.

Adesso che la ricreazione è finita, dismessi ciabatte e costume, abbiamo trovato ad attenderci un futuro che bussa alla porta con la faccia minacciosa ed è già pronto a presentarci il conto. Non è un modo di dire: perché a fare da locomotiva al treno delle angosce c'è soprattutto il tema economico, con lo spauracchio di una crisi energetica che minaccia le aziende, le famiglie, il lavoro, la dignità, la qualità della vita e la tenuta sociale degli europei e degli italiani.

Sotto sotto, dopo un'estate rovente, speriamo ancora tutti in un autunno caldo, o quanto meno tiepido. Ma sappiamo che questa prospettiva si allontana ogni giorno di più. «In un momento del genere, dobbiamo sostenere prima di tutti i più deboli», avverte Enrica Amaturo, ordinario di Sociologia generale alla Federico II, già presidente dell'Associazione Italiana di Sociologia e assessore al Personale al Comune di Napoli tra il 2009 e il 2010, nella seconda giunta Iervolino.

Professoressa, è passato più di un anno da quando abbiamo parlato delle disfunzioni connesse alla pandemia. Si aspettava a settembre del 2022 ci saremmo ritrovati a discutere di guerra e crisi del gas?

«No, anche se da quello che si legge oggi, la Russia stava preparando da tempo quest'azione militare. La guerra ci ha colti di sorpresa perché eravamo poco attenti a quanto accadeva nell'Est Europa».

Nel 2020 è stata componente della task force della Presidenza del Consiglio per l'emergenza Covid-19 istituita dal governo Conte e presieduta da Vittorio Colao. A proposito del Covid, aveva detto a Nagorà che sarebbe rimasto anche qualcosa di buono: è andata effettivamente così?

«Sì, abbiamo guadagnato soprattutto un utilizzo più esteso e intelligente degli strumenti digitali: lo smart working comporta un alleggerimento sulla viabilità e sul sistema dei trasporti urbani, con un risparmio sugli spostamenti che è importante anche sul piano ambientale e del risparmio energetico. La seconda cosa che la pandemia ha messo in evidenza è stata lo smantellamento della medicina territoriale. Non so quanto si abbia intenzione di riparare a questi danni, ma l'avvertimento l'abbiamo avuto molto forte. Così come forte è stata la sveglia sui rischi legati alla globalizzazione. La delocalizzazione ha prodotto disastri che sono sotto gli occhi di tutti, tanto che in alcuni momenti è stato difficile reperire perfino le mascherine. Tutte cose che ci hanno fatto capire che non possiamo accettare acriticamente processi che hanno costi sociali ed economici altissimi».

Si annunciano aumenti vertiginosi per il costo del riscaldamento domestico, ma la crisi energetica colpisce anche le aziende. Dovremo rivedere al ribasso i nostri stili di vita?

«Il cambiamento climatico è un problema enorme del quale stiamo cominciando a renderci conto sulla nostra pelle. L'impatto economico è enorme: colture danneggiate, fenomeni metereologici estremi con temporali che provocano danni importanti. In questo senso, la "Generazione Z" (quella dei nati tra il 1997 e il 2012, ndr), sembra essere la più consapevole. Si parla spesso di disinteresse dei giovani, ma loro sono molto interessati a questi temi, che oggi sono forse quelli salienti. Un mio collega sociologo parlava di "decrescita felice". Magari non sarà felice, ma un rallentamento bisogna che ci sia. Questi campanelli di allarme ci dicono che dobbiamo frenare, che dobbiamo rallentare. Come dicono i ragazzi, non abbiamo un "pianeta B"».

Intanto, stretti tra due emergenze, cerchiamo riparo nella soffice dimensione dell'effimero: le vacanze, gli aperitivi, i social network. Che società sta prendendo forma?

«Questo mi ha molto stupito. Quella che sta finendo è stata forse l'estate più lunga dal punto di vista degli spostamenti e delle vacanze, una cosa che non si vedeva da anni. Da una parte la fine del Covid, almeno negli auspici e nell'immaginario collettivo, dall'altra la guerra hanno creato un clima da "Ultimi giorni di Pompei". Le persone si sono dette: visto che non sappiamo che cosa ci aspetta, godiamoci il momento. Abbiamo visto località esplodere sotto il peso dell'afflusso turistico. Invece di fare scelte di responsabilità, si va nella direzione opposta. Ma a guidarci dovrebbero essere le istituzioni: le pulsioni individuali non sono censurabili ed è difficile che una scelta di responsabilità venga dal singolo, in assenza di una presa di coscienza collettiva che vada verso l'equilibrio e la morigeratezza. Però così rischiamo di peggiorare le cose, facendoci risucchiare da un circolo vizioso».

«Volete la pace o il condizionatore?», ha domandato il premier uscente agli italiani. Adesso il quesito si ripropone, ancora più stringente, sul riscaldamento. La forbice tra chi vive meglio e chi vive peggio si allargherà ancora?

«Senza dubbio: si allarga ogni volta che c'è una crisi, un momento difficile. Quando si impongono sacrifici generalizzati, ricadono sempre su chi ha meno possibilità. Purtroppo il divario e le disuguaglianze sociali stanno aumentando in modo incredibile al livello mondiale. Un riequilibrio della società sarebbe utile a tutti».

L'inflazione, il costo dell'energia, lo spettro di una guerra che è lontana, ma non troppo. Quali effetti produrrà sul piano sociale questo carico di incertezza?

«Un aumento della conflittualità sociale, di quella che una volta si definiva "rabbia sociale", e un impatto sugli individui con un aumento dell'aggressività individuale che non trova risposte nell'intermediazione politica. Così diventano più frequenti risse, sparatorie e episodi di violenza anche nell'ambito della movida e del tempo libero».

La crisi dell'intermediazione politica di cui parla è evidente. Dopo Grillo, i bookmakers puntano su Giorgia Meloni. Siamo diventati un Paese che ha sostituito la proposta con la protesta?

«Sicuramente. Inoltre, oggi c'è una ricerca ossessiva del nuovo. Gli elettori non trovano risposte al loro scontento e cercano altre soluzioni, purché siano nuove. Con la conseguenza che i tempi si sono accorciati enormemente: oggi in politica un anno corrisponde a dieci anni di qualche decennio fa. Anche questo, però, è un fenomeno mondiale. La caduta delle ideologie ha destabilizzato il quadro internazionale. Ma quello che colpisce in questa campagna elettorale è una personalizzazione molto spinta, che è un problema, in quanto non c'è più una proposta che riesca a dare risposte al corpo sociale. Se si continua a inseguire il successo elettorale immediato senza un progetto, non si va lontano».

Questi interrogativi hanno aperto il dibattito sul reddito di cittadinanza: lei che ne pensa?

«Negli anni 2000, quando ero nella commissione di indagine Esclusione sociale presso la Presidenza del Consiglio con il ministro Livia Turco, sperimentammo la prima forma di reddito. Allora si parlava di reddito minimo di inserimento, sono misure di sostegno diffusissime, che esistono in quasi tutti i Paesi. Bisognerebbe smettere di farne una questione ideologica, il punto è che in Italia questo provvedimento è stato confuso con una misura di inserimento nel mondo del lavoro. Chiara Saraceno, che presiede il comitato di esperti che ha fatto la valutazione sul reddito, ha suggerito dei correttivi che permettano di de-ideologizzare il dibattito su questo tema e di farne una vera misura di sostegno al reddito, ma non ha senso dire che queste persone prendono il reddito e non vanno a lavorare. Tutta questa mitologia sugli sdraiati sul divano che vivono sulle spalle non corrisponde alla realtà. Bisogna piuttosto pensare a correttivi necessari per evitare che si rifiuti il lavoro. Far lavorare i percettori del reddito? In Campania abbiamo avuto l'esperienza degli Lsu, che non è stata delle migliori. La formula ideale sarebbe il salario minimo. Proviamo a offrire un salario adeguato e vediamo».

Che cosa dobbiamo aspettarci da queste prossime elezioni? Avremo una diserzione epocale?

«Mi aspetto un assenteismo da parte dei giovanissimi, in particolare quelli che non studiano e non lavorano, che non si sentono garantiti né rappresentati da una politica che non offre risposte, in quanto tutti i temi veramente importanti vengono sacrificati sull'altare del consenso facile. Se penso che chi va al governo non incide sulla mia vita, che non prova a cambiarla in meglio, perché mai devo partecipare? Se la proposta politica è questa, non interessa».

Cose che prima davamo per scontate adesso sono rischiano di diventare un lusso: riscaldarsi, combattere il caldo, viaggiare, spostarsi in generale: come cambiano e come stanno già cambiando le abitudini degli italiani? E qual è il nostro atteggiamento rispetto alle difficoltà?

«Vedo nelle reazioni molte differenze legate alla condizione occupazionale e economica delle persone. La capacità di leggere e tollerare psicologicamente questa situazione di incertezza dipende dal capitale sociale e culturale che si ha. In questo senso, servirebbe una guida: penso a quando il governo Prodi disse che dovevamo fare dei sacrifici per entrare in Ue, che non potevamo restare fuori. Oggi non c'è nessuno che abbia quella stessa autorevolezza per proporre un traguardo e creare un comune sentire».

Nelle condizioni di difficoltà e sofferenza ci siamo stretti di più, a dispetto del distanziamento predicato per due anni e mezzo, o ci siamo allontanati, diventando più individualisti?

«Difficile dirlo. Ci si compatta quando si riesce ad individuare un obiettivo comune, altrimenti le difficoltà ci portano a dire "ognuno per sé". Il gradimento per il governo Draghi era fondato su questo: sentivamo di avere una guida. Nel momento in cui questa guida non c'è più, scatta il "liberi tutti"».