Arminio: «Riequilibrio tra costa e aree interne e visione regionale: così salviamo le città e i paesi d'Italia»

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Riorganizzare lo spazio, lavorando ad un nuovo equilibrio tra pieni e vuoti, pianure e alture, mare e campagna. Ha lo sguardo rivolto in questa direzione il destino che Franco Arminio immagina per le città d'Italia e per quel corollario di centri più o meno piccoli che le cinge. Una visione che il poeta, fondatore di una nuova e singolarissima disciplina che ha battezzato ormai molti anni fa col nome di «paesologia» (il termine si è perfino ritagliato un posto nella Treccani), stringe in una ricetta tanto semplice quanto efficace: «Bisogna stare più attenti alla geografia, ragionando in termini di costa e di montagna. Bisogna tornare a guardare i luoghi per come sono nati». Nato 62 anni fa a Bisaccia, nell'Irpinia più profonda, quella che lambisce la Lucania, punteggiata dal «rosario dei piccoli centri devastati dal terremoto dell'80», Arminio professa sulle colonne di diversi quotidiani e sul web il verbo del ripopolamento dei piccoli paesi, è il referente tecnico del Progetto Pilota della Montagna Materana e ha dato vita alla Casa della paesologia e al festival "La luna e i calanchi" rispettivamente a Trevico, in provincia di Avellino, e ad Aliano (Matera). Due borghi abbarbicati sulla roccia che contano entrambi meno di 900 abitanti.

Arminio, visti dal suo personale osservatorio di retrovia, quali sono i problemi che zavorrano lo sviluppo dell'area metropolitana di Napoli?

«A me l'area metropolitana di Napoli sembra un unico tessuto urbano che finisce dove cominciano le montagne. Ma questo vale per tutte le province, in tutte le regioni italiane. Laddove c'è una pianura, c'è edilizia, che sia un palazzo un capannone. Insomma, non c'è soluzione di continuità, a parte qualche eccezione, come la Pianura Padana, dove però non trovi la campagna ma l'industria agricola. Quella che io chiamo la Campania dell'orlo, quella che si sviluppa a ridosso dei confini con le altre regioni, è un'altra cosa. C'è l'orlo casertano e quello sannita, e poi c'è quella che definisco "l'Irpinia d'Oriente". Ancora, c'è quello lucano, che confina con la provincia di Salerno. Sono i luoghi che frequento e che vivo da sempre».

Quanto è lontana questa Campania remota, ritirata nell'entroterra, dalla grande città capoluogo?

«Rispetto alla città, una particolarità della Campania è che permane una certa distanza culturale e antropologica che per ragioni storiche è superiore rispetto a quella geografica. E non vedo politiche tese a redistribuire questa popolazione in maniera più razionale. È come se ci fosse una malattia anginosa per effetto della quale dalle nostre parti, nelle aree interne, arriva poco sangue, mentre nelle zone costiere e pianeggianti si è prodotta una tumefazione, con un dissanguamento. È interesse di entrambi i territori colmare questo divario. Certo, è un lavoro lungo, non si fa in pochi anni, ma bisogna pur cominciare, se vogliamo avere tra cinquant'anni una Campania viva in tutte le sue parti».

In quest'opera di riequilibrio i trasporti e le infrastrutture giocano un ruolo fondamentale.

«Sì, i collegamenti possono cambiare il volto di un territorio. Penso ad una specie di metropolitana regionale che renda più omogenea la Campania, per cui il Cilento e l'Irpinia diventino un prolungamento di Napoli e viceversa, dando vita ad un unicum fatto di città e di piccoli paesi, di costa e di entroterra».

Un bel sogno, che però sembra molto lontano.

«È un ragionamento che richiede il coinvolgimento di tutte le parti in causa. In effetti mi pare che questa visione non sia nell'agenda di nessun partito. Quello che non si capisce è che togliere funzioni a Napoli non significa punirla, ma sgravarla, renderla più agile. Un discorso che si potrebbe allargare agli stranieri in difficoltà, che nelle grandi città dormono per strada. Indirizzarli verso paesi spopolati o addirittura disabitati, dove le case costano pochissimo, mi sembra un'idea di buonsenso che potrebbe giovare a tutti, rivitalizzando i piccoli centri che rischiano di morire. Insomma, risolveremmo due problemi insieme. Proprio oggi ho comprato nel mio paese, a Bisaccia, una casa che voglio mettere a disposizione dei miei amici che operano in ambito culturale. Due piani più gli scantinati mi sono costati 37mila euro. Ed è una casa nuova, ristrutturata e arredata».

Si parla da anni di spopolamento dei piccoli centri e di congestione delle città, eppure il riequilibrio demografico che lei auspica e le soluzioni che propone non si sono affermati. Secondo lei, perché?

«C'è un problema grande di redistribuzione, ma c'è anche un problema culturale. I campani delle pianure non capiscono che cosa hanno intorno. Arrivano nelle terre della scampagnata a Pasquetta e a Ferragosto: il loro rapporto con queste aree quasi sempre finisce lì. Non capiscono che questi luoghi meritano di essere vissuti con maggiore profondità. Se compri una casa in un paese, stai cinque giorni nel caos e due giorni sulle montagne e ti ricarichi. Se certi borghi fossero nei dintorni di Berlino o di Londra sarebbero molto più affollati, invece in Italia l'urbano è un po' provinciale. La casa che ho appena acquistata era di un napoletano, che avrà avuto i suoi motivi per vendere, ma per me resta incomprensibile il fatto che queste case, anche quelle che costano 5 o 10mila euro, non abbiano un mercato, e che in tanti paesi ci sia un patrimonio di case sfitte incredibile».

È forse la mancanza di lavoro a tenere lontane le persone dai piccoli centri?

«Si potrebbero creare occasioni di lavoro anche nelle aree interne: l'agricoltura di qualità, con prodotti genuini, di provenienza sicura e di qualità indubitabile, diventa una sorta di farmacia naturale. E rispetto a cinquant'anni fa le cose sono cambiate: ormai con internet si raggiungono anche gli angoli più sperduti, e la fibra c'è a Napoli come a Bisacce. Cent'anni fa i galantuomini si trasferivano nella città perché i servizi erano lì. Adesso chi vive in paese non è più tagliato fuori dal mondo. In più, può godere di una qualità della vita che viene sottovalutata. Il paesaggio dell'Irpinia d'Oriente è uno dei paesaggi più belli d'Europa. Sconta una disattenzione anche per la percezione poco attenta che ne hanno gli stessi abitanti. Essendo terre povere, queste erano terre da lasciare. Invece in realtà sono terre bellissime. Il paesaggio toscano è molto celebrato, ma quello irpino è un paesaggio notevolissimo».

L'hinterland, come i piccoli paesi, sconta una sorta di vassallaggio nei confronti della grande città.

«Ma certo. Bisogna riqualificare le periferie, che hanno una loro bellezza nonostante il caos. Sono posti ben collegati, vicini ai centri urbani: con un po' di intelligenza, si possono recuperare. Non sono l'inferno che spesso si descrive. C'è un atteggiamento rinunciatario, come se quelle aree fossero considerate perse. I discorsi all'ingrosso non funzionano: si deve intervenire valutando e decidendo caso per caso, pezzo per pezzo. In alcune zone si può togliere un po' di cemento e ricostruire un po' di paesaggio. Mi pare che negli ultimi anni non ci siano stati ragionamenti di prospettiva, di sistema. Si è proceduto alla giornata, invece si dovrebbe ragionare in termini di prospettiva e con una visione regionale, distribuendo i servizi sull'intero territorio regionale».

Dunque, è necessario ritarare la bilancia demografica?

«Sì, Napoli deve ragionare in modo meno autistico. Intendiamoci: è una città straordinaria, una delle poche al mondo che ha ancora una sua identità, un suo sapore. Napoli è un miracolo, e proprio per salvarlo va pensato un suo svuotamento. La morsa del traffico è insopportabile, entrare in città è un problema. E lo stesso vale se in certe ore vuoi andare verso la periferia. Ci si abitua a tutto, ma è logorante. Così come è stancante fare diversi giri dell'isolato per parcheggiare l'auto e tornare a casa».

Il telelavoro può dare impulso a questo processo di redistribuzione della popolazione?

«Spero di sì. Intanto, considerando che in molti casi i paesi sono stati solo sfiorati dalla pandemia, si può immaginare che ci sarà una maggiore attenzione per i piccoli borghi almeno nelle scelte turistiche».

Intanto, la Città metropolitana di Napoli è di fatto un'incompiuta. È fallita l'applicazione politico-amministrativa o bisogna ripensare il concetto?

«Quella delle Città metropolitane non è stata una bne politico-amministrativa o bisogna ripensare il concuona idea. Ho notato, ad esempio, che anche in Calabria funziona male: ci sono paesini così lontani che Reggio Calabria manco li vede. A occhio, mi pare non abbia senso. Se vuoi allargare il discorso, fai una città-regione, o chiamala come vuoi. Ma stabilisci una sorta di gestione comune. Pensiamoci: dov'è il taglio tra Napoli e Caserta? È difficile delineare un confine, è difficile perimetrare le province. Per questo bisogna cambiare l'approccio e ragionare in termini di costa e di montagna. Bisogna stare più attenti alla geografia, tornando a guardare i luoghi per come sono nati. Bisogna un po' ripensare il rapporto tra gli spazi: più che di Città metropolitana, ragionerei in termini di Città "metromontana", fatta di pianure e di montagne, orizzontale e verticale, con punti densi come piazza del Plebiscito e spazi vuoti. I piani regolatori dovrebbero prevedere spazi nei quali non ci deve andare niente, neanche le pale eoliche. Spazi destinati soltanto alle piante, agli animali, alle formiche e alle lucertole. E poi si deve sottrarre più che aggiungere: è la cosa più intelligente, al punto in cui siamo. I piani regolatori ancora ragionano di edilizia, chi lo permette, sbaglia. Dovremmo dire a gran voce "stop" al consumo di suolo e adeguare quello che già esiste alle nuove esigenze. Questo dovrebbe essere vangelo, abbiamo un numero di costruzioni insostenibile. È una questione di armonia, di equilibrio, come quando scrivi: il primo verso non può essere slegato dall'ultimo».