Beraldo: «Autonomia, così si spacca l'Italia»

L'economista: «Il ddl Calderoli è una picconata alla Carta costituzionale e ai valori di coesione e solidarietà nazionale. I Lep? Una foglia di fico per nascondere la verità»

di

Un tunnel lungo e buio che porta dritto in un precipizio. Così, visto da Sud, appare il percorso che dovrebbe condurre al compimento del disegno autonomista. Un progetto con il quale il governo Meloni rischia di vendere l'anima del Paese (e la propria) al demonio leghista, assetato di danaro e disposto a tutto pur di mettere a segno un colpo che potrebbe minacciare le fondamenta della Repubblica.

Al di là dei giudizi di parte, l'autonomia differenziata - sollecitata soprattutto da Veneto e Lombardia (non a caso qualcuno l'ha definita «la secessione dei ricchi») - prevede una profonda revisione degli equilibri tra le Regioni che, se realizzata, spingerà ancora più in là il traguardo indipendentista già tagliato nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione.

Il cammino, certo, è lungo e punteggiato di ostacoli, ma il primo passo verso la devoluzione di competenze e risorse è segnato, e sotto i colpi del furore indipendentista vacillano sì le istanze e le speranze del Mezzogiorno ma pure quell'identità nazionale tanto cara al partito che oggi detiene le chiavi di Palazzo Chigi.

Sergio Beraldo, economista e docente di Economia politica alla Federico II di Napoli, non ha dubbi: «Se l'autonomia differenziata vedrà la luce, spaccherà il Paese». Ma azzarda un pronostico: «Alla fine, non accadrà».

Professore, il ddl Calderoli sull'autonomia differenziata è stato approvato all'unanimità in Consiglio dei ministri con tanto di applauso a suggellare il momento. Il Sud deve avere paura?

«Secondo me deve avere paura il Sud, ma anche il Nord. Io credo che questo sia un provvedimento potenzialmente in grado di spaccare il Paese. Il Nord produttivo vuol mettere da parte le proprie masserizie e tenersi il gettito fiscale, il punto è questo. Si tratta di una banale questione di risorse, anche se per sostenere la posizione autonomista varie narrazioni sono state proposte. Il problema è che una cosa del genere rompe il patto repubblicano. Passa la tesi per cui i diritti sono uguali per tutti, ma per alcuni sono più uguali. Non prendiamoci in giro: come funzionerà con l'accesso alla sanità, all'istruzione? Non sappiamo dove questo processo può portare; né è molto chiaro, dal punto di vista giuridico, il meccanismo con cui esso si avvia o il sentiero che dovrà essere seguito per tornare eventualmente indietro. È in ogni caso folle sostenere che se il provvedimento passa, indietro non si può tornare».

Alla fine secondo lei l'autonomia differenziata in Italia vedrà la luce?

«No, non credo che questo provvedimento riuscirà a passare. Almeno, non in questa forma, perché come ho detto spacca il Paese. Mi fa specie la posizione del Pd: Bonaccini è uno che ha sostenuto, in Emilia Romagna, il referendum per l'autonomia differenziata. Adesso si candida con successo alla guida del partito che però si oppone alla riforma sostenuta dal governo. Molti esponenti del Pd, come Fassino, hanno avallato l'autonomia, ma secondo me non l'hanno proprio capita. Anche perché essa sarebbe un tradimento delle forze progressiste, con il Sud lasciato al proprio destino. Insomma, sono veramente molto critico. Qualche anno fa ho scritto un articolo in cui cercavo di contrastare alcune tesi di colleghi molto orientati sul versante autonomista. Il mio articolo era basato sulle riflessioni di Costantino Mortati, uno dei nostri padri costituenti. Mortati chiarisce l'importanza del patto politico alla base di ogni costituzione formale; un patto che puoi anche allentare, ma se lo stiracchi troppo si spezza, o produce comunque una diversa costituzione materiale. Questa volontà di disgregare la solidarietà tra aree, ovvero tra cittadini residenti in aree diverse, mette in crisi il patto fondamentale su cui si basa la Repubblica».

Basteranno i Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, a garantire uniformità e coesione, a fare dell'Italia insomma un paese veramente unito?

«Chi difende l'autonomia, ma anche chi la avversa, parla sempre dei Lep. Ma questi sono dei marron glacés con degli aghi all'interno: sono la proverbiale foglia di fico, li puoi manipolare come vuoi. Tutto dipende da quanto si vogliono aprire i cordoni della borsa, ovvero da quanto si vuole redistribuire. I Lep non sono un qualcosa di dato in natura, come vorrebbero farci intendere; la loro determinazione scaturisce da una contrattazione politica. Non voglio neanche immaginare che cosa succederà nelle aree più depresse del Mezzogiorno. Facciamo un esempio: se esiste una cura molto costosa per il cancro e questa è garantita dal Servizio Sanitario Regionale in Veneto, lo sarà anche in Calabria o in Campania? Rientrerebbe, questa cura così costosa, tra i livelli essenziali delle prestazioni? Parlare dei Lep senza rispondere a queste domande, non ha alcun senso. Però, che cosa deve entrare e cosa no in quel paniere lo si decide a monte. È chiaro che la determinazione dei Lep dipende da quanti soldi vuoi redistribuire. Se vuoi finanziare la cura costosa ai calabresi oppure no. E al Nord di soldi non ne vogliono redistribuire tanti. Il punto è questo».

Come lei sottolineava, il disegno di legge promosso dalla Lega scardina quel patto di solidarietà che è elemento fondativo e costitutivo di un Paese e della sua comunità, minando alle fondamenta la coesione sociale tra le sue parti.

«La Carta costituzionale è un patto di solidarietà che ci accomuna tutti; tant'è che Giorgio La Pira diceva che la Costituzione repubblicana è la "casa comune" nella quale siamo legati in solido allo stesso destino. Se passa questo progetto, probabilmente non si potrà parlare più neanche di nazione. Abbiamo impiegato 160 anni per cercare di costruire un'identità nazionale che vogliamo gettare via. Zaia è uno dei più convinti sostenitori di questa autonomia che in fondo è una chiusura; ma dovrebbe ricordarsi di quando il Veneto era povero e si emigrava in Brianza, dove non è che i veneti fossero accolti con il lancio di petali di rose. In ogni caso è molto probabile che l'autonomia differenziata alla fine non passerà perché le resistenze saranno molte. Il patto scellerato che si intendeva proporre faceva perno sull'idea che con l'autonomia anche le satrapie meridionali ci avrebbero guadagnato. Ma è una prospettiva troppo pericolosa anche per i satrapi locali, che hanno bisogno di alimentare il consenso ».

L'autonomia è un pegno che Fratelli d'Italia paga alla Lega e a Forza Italia?

«Io non credo che la Meloni sia nelle condizioni di avallare una cosa del genere: non dovrebbe rientrare nella cultura del suo partito, tendenzialmente centralista e nazionalista. Anche perché, non è noto dove il processo innescato dalla riforma può condurre. Se i veneti decideranno che nelle loro scuole non possono lavorare insegnanti non residenti, proposta sulla quale qualche tempo fa si scatenò una bagarre, che cosa succederà? Mi risulta difficile pensare che Fratelli d'Italia sia indifferente a uno scenario di questo tipo».

Ancora prima dei Lep, il Mezzogiorno non è stato già penalizzato dal criterio della spesa storica?

«Se si guardano le statistiche sui divari tra Nord e Sud, si nota che negli anni 2000 il divario si è molto ampliato. Questo ampliamento è coinciso con uno spostamento dell'asse del potere verso il Nord. Le classi dirigenti meridionali non hanno più alcuna forza, alcuna possibilità di essere egemoniche».

Insomma, negli ultimi vent'anni la forza contrattuale del Sud si è molto ridotta anche al livello delle classi dirigenti?

«Esatto. L'asse dell'economia e l'asse del potere sono spostati verso il Nord. Questo ha comportato un allargamento dei divari. Il Nord ha avuto la forza di condizionare a proprio vantaggio i criteri distributivi. Il finanziamento della spesa sanitaria, ad esempio, viene effettuato tenendo conto del criterio dell'età media della popolazione, che sfavorisce il Sud e favorisce il Nord, che ha una popolazione mediamente più anziana. Il criterio della spesa storica in generale sfavorisce il Mezzogiorno. Nel complesso, è un fatto acclarato che la spesa pubblica, e gli investimenti delle grandi aziende di Stato, in questi anni hanno privilegiato il Settentrione».

Un altro nodo decisivo è quello che riguarda la ripartizione su base regionale dell'Irpef.

«Chiaramente, le Regioni del Nord vogliono trattenere quante più risorse. Per consentirlo, i promotori dell'autonomia fanno leva sul concetto di residuo fiscale; ma è una leva intellettualmente truffaldina, che parte da un'idea elaborata negli anni '50 dalla Scienza delle finanze e che non c'entra assolutamente niente con l'uso strumentale che ne ha fatto la Lega. Si dice: noi produciamo reddito in quest'area, dunque produciamo gettito fiscale e questo deve restare qui sotto forma di spesa. Se produciamo un gettito che eccede la spesa di cui beneficiamo, c'è un residuo fiscale di cui altri si appropriano. È una prospettiva stupida. Anche se prendi due condomini, uno al Vomero e uno a Scampia, si osservano differenze nei residui fiscali così intesi. La redistribuzione avviene sulla base di una previsione normativa generale e astratta; vengono redistribuite risorse da chi si trova in una certa condizione a chi si trova in una diversa, a prescindere dal luogo in cui si trova. A meno che tu non voglia rompere questo patto di solidarietà e minare la costituzione repubblicana, non v'è nulla di strano».

Eppure il premier Giorgia Meloni qualche giorno fa ha detto che non devono esserci differenze tra Nord e Sud.

«Alcuni sostengono che quello della Lega non è altro che un tentativo di sventolare una bandiera per richiamare il suo popolo alle urne in vista delle imminenti elezioni in Lombardia, dopodiché la cosa rientrerà, sarà annacquata. Anche perché la Meloni dovrà probabilmente affrontare, su questa riforma, un'opposizione interna al proprio partito. Difficile credere che i gruppi che al Sud sono agganciati all'orbita di Fratelli d'Italia avalleranno una cosa simile. Io credo che ci sarà un'opposizione molto forte. Forse la gente scenderà in piazza. Staremo a vedere».

Perché a oltre 160 anni dall'unità d'Italia il Sud è ancora così indietro?

«La risposta è molto difficile, però dico una cosa: c'è stata una retorica sul Sud alimentata, a livello nazionale, da chi aveva interesse a soffiare sul fuoco di quella retorica. Anche la Banca d'Italia ha avallato l'idea per cui noi siamo in qualche modo immorali, non abbiamo la capacità di cooperare tra noi e l'arretratezza è ciò che meritiamo. Ma è un modo di ragionare che dimentica la storia e le modalità dell'unificazione italiana. Il Nord ha un vantaggio competitivo per la vicinanza al cuore dell'Europa, per questo lì lo sviluppo è partito prima. Ma pur essendo in ritardo, il Sud ha fatto progressi enormi. Certo, anche grazie all'intervento straordinario finanziato con la Cassa del Mezzogiorno. C'è stato anche interesse a tenere il Sud in una certa condizione; non si è mai stati lungimiranti. Non sono state lungimiranti, a larghi tratti, nemmeno le classi dirigenti del Sud».

In questa dinamica che lo ha svantaggiato, il Sud ha delle colpe?

«È chiaro che il Sud deve cercare le ragioni del proprio riscatto. Ho scritto un articolo, richiamato da molti media nazionali, nel quale facevo presente che a San Giovanni a Teduccio il 40 per cento della popolazione vive in famiglie che percepiscono il reddito di cittadinanza. Questa è una follia; è insostenibile. Se hai una situazione di questo genere devi intervenire con una politica diversa. Invece, probabilmente, c'è un interesse a tenere sotto ricatto le persone, sussidiandole. Non opportunità, ma il tentativo riuscito di ammansire le persone per tenerle a bada, narcotizzandole coi sussidi. Sia ben chiaro: i sussidi contro la povertà sono una misura utilissima perché è giusto intervenire temporaneamente in quelle situazioni in cui la persona è debole e non ha un lavoro. Ma il 40 per cento della popolazione rappresenta qualcosa di patologico. Questo vale per altri ammortizzatori di questo tipo, come le pensioni di invalidità. Era più facile ottenere il consenso in questo modo piuttosto che risolvendo in profondità i problemi. Si può comprendere la rivolta di chi, trovandosi in una posizione di vantaggio, vuole ridurre il proprio carico fiscale. Il problema è che l'aggressività è mal riposta: si dovrebbe combattere per uno Stato più snello, per una riduzione degli sprechi, per un miglioramento dell'efficienza di interi settori della pubblica amministrazione. Un conto è dire che lo Stato italiano drena troppe risorse e questo frena molto l'iniziativa privata, poiché appena guadagni 100 euro lo Stato se ne prende 50. Altra cosa è l'idea di rompere il patto costituzionale sul quale si fonda la nazione. Questo è un progetto disastroso. Un suicidio a danno di tutto il Paese».