Cercasi assessore alla Scaramanzia

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Un tempo i monumenti erano fatti per durare. Celebravano vittorie in guerra, esaltavano gli eroi, rincorrevano la retorica. Nell’era della contemporaneità, i “monumenti” sono diventati temporary structure, installazioni temporanee che in particolare nei luoghi che custodiscono l’eredità di una storia millenaria e conservano un’identità culturale dovrebbero avere il fondamentale compito di saldare le radici del passato con il desiderio di uno sguardo verso il futuro. E, sempre se si vuole sfuggire alla trappola di Narciso e alla brama di specchiarsi nel culto di sé, svolgono la funzione di rappresentare quei luoghi nella relazione con il mondo. In altre parole, dovrebbero “significare”.

Riposizionano una città dall’immagine sbiadita nella mente di potenziali visitatori, rinsaldano un legame di fiducia con la comunità che la abita, tracciano il sentiero evolutivo per riprendere un cammino interrotto. Soprattutto, il policy maker attraverso tali forme di architetture – effimere solo in apparenza, ma durature per gli effetti che esercitano – dovrebbe parlare a una pluralità di “pubblici”: non solo chi visita quel luogo, ma anche chi lo vive, giorno per giorno. In tale prospettiva, favoriscono la creazione di capitale sociale, rafforzano il senso di appartenenza, trasmettono un’idea condivisa di città.

In molti casi, proprio questi monumenti “per una stagione sola” sono stati i landmark, il segnale del cambiamento in atto, l’incipit di radicali processi di rigenerazione urbana. A volte in modo perfino inconsapevole, come è accaduto a Torino quando, nel 1997, dietro le sollecitazioni degli operatori commerciali della città, immalinconiti dal “già visto”, un assessore “illuminato” ha inventato Luci d’artista, affidando al grande scenografo Lele Luzzati il compito di reinterpretare le luminarie di Natale. Negli anni, all’artista genovese si sarebbero affiancati Daniel Buren, Rebecca Horns, Jenny Holzer, Joseph Kosuth, così come Metz, Paladino, Pistoletto, Paolini, mentre l’evento si apriva alla collaborazione con gli artisti e le gallerie d’arte della città, allungandosi a tutta la stagione invernale.

Un’installazione-evento che ha anticipato la metamorfosi di Torino verso la dimensione di città creativa. A distanza di vent’anni, ora diventata forse la più fascinosa “farfalla” del paesaggio urbano in Italia. Oppure, si voli a Londra, ai Kensington Gardens, dove dal 2000 folle di visitatori accorrono al richiamo dei Serpentine Pavilion, con cui la capitale britannica inaugura la stagione balneare per il suo “mare” urbano. Niente a che vedere con la meraviglia naturale del lungomare napoletano, eppure grandi architetti sono invitati a pensare opere che si integrano alla perfezione con la natura e la storia che li avvolgono, sperimentando con il pubblico modi innovativi di avvicinarsi all’arte e all’architettura. Struttura e forme, ombre e luci, trasparenze e colori, sospensione e sorpresa. Londra celebra così il bene effimero della bellezza, diffondendo messaggi destinati a resistere al tempo (date un’occhiata al bellissimo progetto di architettura responsabile di Diébédo Francis Kéré appena presentato e dedicato alla sostenibilità ambientale, dove rivive attorno a un albero la comunità del villaggio dove è nato l’architetto africano prima di trasferirsi a Berlino) ed esaltando il progresso tecnologico, la fantasia creativa, le sperimentazioni nel design e nei materiali.

Il tratto comune di questi interventi, a Londra come a Melbourne o a Shangai, altri luoghi dove l’arte pubblica dei Pavilions raggiunge le sue vette, è una forma di bellezza intelligente . Attraverso l’opera, si lancia un urlo, un progetto politico, un grido di allarme, si invita a viaggiare dentro se stessi, si declama una poesia. C’è sempre un’idea. È il senso vero dell’arte contemporanea. E, come ci hanno insegnato per esempio Buren o Kounellis, il modo di esporre è di per sé un messaggio, soprattutto quando l’opera si relaziona con un territorio, con particolari condizioni architettoniche, con uno scenario ambientale che ne custodisce l’identità.

Che succede invece quando, come è accaduto a Napoli con N’Albero e accadrà con il Grande Corno, si preferisce la scorciatoia dell’oleografia, l’apoteosi del luogo comune? Come ha osservato Elena Ferrante, riflettendo sui rischi di “traduzione” dei suoi libri ora che saranno “convertiti” in episodi di una serie televisiva, “la via più agevole per la rappresentazione è sempre lo stereotipo, e non è semplice sottrarsi”. Chi ha osato criticare l’imbarazzante stonatura di N’Albero – una galleria commerciale verticale, nulla di più – nella meravigliosa armonia di bellezza che è la passeggiata sul mare di via Caracciolo, è stato tacciato di essere snob, elitario, benpensante. Di essere contro la rivoluzione popolare.

Eppure Napoli ha una lunga tradizione anche per le installazioni temporanee. Nel Settecento grandi architetti come Sanfelice gareggiavano nella realizzazione delle macchine per la festa da esporre a Largo di Palazzo , proprio quel luogo rigenerato duecento anni dopo, quando ad una montagna di sale (Mimmo Paladino, 1995), ad una distesa di teschi (Rebecca Horn, 2002) o ad una spirale di metallo (David Sierra, 2003), è stato assegnato il compito di indicare una strada differente per proiettare Napoli verso il futuro, fuori dalle sabbie mobili della nostalgia, una Napoli contemporanea e però orgogliosa della sua storia.

Scrisse una volta Albert Camus nel suo Homme révolté che “la bellezza non fa rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza”. Forse andrebbe ricordato quando, passeggiando sotto il Corno, ci interrogheremo sul futuro prossimo della nostra città, invocando un assessore alla Scaramanzia che ci liberi dalla condanna ai luoghi comuni.