Conoscere il passato per costruire il futuro

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In questa delicata fase di riavvio del Paese, dopo la devastante epidemia che ha fatto registrare la drammatica caduta del PIL nazionale oltre il 13% in un semestre, appare in tutta la sua evidenza la necessità di tenersi alla larga dall'ingenua idea che, spentosi l'ultimo "focolaio" del virus, tutto tornerà come prima. Piuttosto bisogna prendere coscienza che saremo a lungo impegnati in una guerra "di posizione" sia nel campo sanitario (con il probabile ritorno dell'epidemia in autunno) sia in campo economico e sociale (visto i preoccupanti dati riguardanti la non riapertura di circa un terzo degli esercizi commerciali e delle aziende industriali).

Molto dovrebbe insegnare il confronto con le strategie e la classe politica che gestì la ricostruzione dopo l''ultimo conflitto mondiale, che aveva provocato un taglio dei redditi di circa il 44%, al quale fece seguito una spettacolare ripresa del PIL nazionale, che nel periodo 1945-52 (gli anni del Piano Marshall) raggiunse un incredibile +118%, dovuto in buona parte al dispiegamento di abbondanti risorse provenienti dall'estero e destinate essenzialmente alla costruzione di grandi opere infrastrutturali.

Le differenze con la realtà attuale sono numerose e di grande significato ma riconducibili in maniera prioritaria a due categorie, rispettivamente di carattere economico ed etico-culturale. Nella prima rientra l'enorme gap a favore degli anni post-bellici nell'ammontare del debito pubblico (nell'ordine di circa un decimo dell'attuale); nella seconda va invece inscritta l'immediata mobilitazione di tutta intera la classe politica dell'epoca che pose al centro della propria attività, senza distinzione di colore partitico, lo sviluppo come "bene comune" e la necessità di mettere in stand by la ricerca del consenso ad ogni costo che attualmente appare, invece, l'obiettivo strategico di buona parte dei maggiori rappresentanti dei partiti di governo e di opposizione.

La lezione dei primi 7 anni post-bellici meriterebbe di essere riletta e metabolizzata dall'attuale classe politica a tutti i livelli nella prospettiva dei due eventi prossimi che, pur afferendo a campi apparentemente molto distanti, concorreranno a scrivere la storia del dopo Covid-19 sul piano economico e sociale, con conseguenze che rimetteranno in discussione l'ormai obsoleto modello di sviluppo del nostro Paese e delle nostre realtà regionali. Si tratta, da un lato, del Next Generation della Comunità Europea (Piano da 750 miliardi di Euro, di cui 172 destinati al nostro Paese), al quale vanno aggiunte le risorse appostate per il rilancio dal Governo nazionale; dall'altro, del prossimo appuntamento elettorale che rinnoverà la classe politica di numerose regioni con conseguenze evidenti sul piano nazionale. Si tratterrà di riprogettare gli spazi dalla scala cittadina fino a quella domestica e di gestire le irreversibili innovazioni che si consolideranno nei rapporti relazionali delle nostre comunità locali. I primi sussulti della prossima campagna elettorale non appaiono per nulla confortanti. Assistiamo ormai ad una caotica rincorsa degli annunci a cui fa sempre più spesso da contorno il tentativo dei maggiori leader politici di prendersi il merito di un'idea o di un dato statistico. Il tutto in un quadro dove mancano una visione generale che coniughi sviluppo economico, inclusione sociale ed organizzazione del territorio, ovvero le tre componenti della complessità contemporanea, e la necessaria ed approfondita conoscenza dei principali processi in atto a scala globale e locale.

Un esempio emblematico dei ritardi e dell'incompetenza "al potere" lo ritroviamo nell'avvio della Città Metropolitana di Napoli, che appare ormai insabbiata da oltre 6 anni nelle difficoltà di disegnare le "aree omogenee" ed i "comuni" all'intero del capoluogo regionale. Difficoltà che si scontrano con il "peccato originale" che ha modellato la Città Metropolitana sui confini fisici della provincia di Napoli e non sulla diffusione territoriale delle funzioni caratterizzanti i singoli spazi urbani. Peccato che si ripropone aggregando in maniera geografica comuni limitrofi a prescindere dalle specializzazioni in campo economico e dalle storie sociali delle comunità locali. E lo stesso errore riguarderà anche la suddivisione in "comuni" dello spazio cittadino di Napoli. Ancora una volta gli interessi di parte, unitamente ad una scarsa qualità e lungimiranza della classe politica locale, rischiano di alimentare la crisi economica e sociale dei nostri territori ed in particolare di Napoli, città già ufficialmente inserita dalla Comunità Europea tra le aree urbane "in declino". 

Certo la speranza, si dice, è l'ultima a morire. E qui vorrei alimentarla con quanto scriveva già nel primo Secolo d.C. il giovane Plutarco: "… fare politica è una necessità interiore per chi ha il senso della società, nutre sentimenti umani, ama la propria patria. Non occorre ammantarsi con la clamide a significare le onorificenze ottenute o le cariche ricoperte, perché la politica si esplica nel...prendere decisioni ... esclusivamente per il bene comune".