Cucinella: «La politica rimetta al centro le persone e l'ambiente. Il lavoro a distanza grande occasione per rendere più vivibili città e borghi»

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Progettare le città del futuro, e prima ancora quelle del presente, intorno ai bisogni delle persone. Con una sana, necessaria iniezione di coraggio e lungimiranza. È il cambio di passo che Mario Cucinella, architetto, designer e accademico italiano di chiara fama, si aspetta dalla politica. Un auspicio che coniuga la duplice sfida dell'innovazione e della sostenibilità su alcune direttrici principali. Da una parte un utilizzo più maturo e consapevole delle opportunità offerte dagli strumenti tecnologici che conservi e valorizzi i benefici del lavoro a distanza, utile per liberare le città dalla morsa del traffico e rendere al tempo stesso meno periferici i mille borghi d'Italia. Dall'altra, una nuova etica dell'urbanistica nelle scelte che riguardano gli spazi dell'incontro e quelli dovuti, e a lungo negati, ad una Natura che con la pandemia ha reclamato la propria centralità. 

Una rivoluzione delle abitudini quotidiane che secondo Cucinella può avere un impatto positivo sulla vita dei singoli e su quella delle comunità, non solo nelle aree più densamente popolate, ma anche nei centri di media e piccola grandezza, protagonisti della sua accurata indagine dal titolo "Arcipelago Italia" presentata nel 2018 alla Biennale dell'Architettura. 

L'esperienza della pandemia ha riscritto le regole della convivenza sociale e della prossemica. Avremo un mondo nuovo anche sul piano della progettazione e della fruizione degli spazi? 

«È una domanda impegnativa. Forse il Covid ha fatto emergere dei bisogni precedenti, legati alla qualità dello spazio pubblico e dell'incontro. Ci eravamo dimenticati del fatto che viviamo anche di relazioni sociali, di amicizia, di passioni, di piazze, di viali alberati e di luoghi dove stare insieme. La pandemia ha amplificato queste esigenze e ci ha dato il tempo per riflettere sulle cose di cui abbiamo veramente bisogno. Tra queste, il rapporto con la natura, che avevamo quasi completamente messo da parte e che invece è fondamentale. È stato stupefacente vedere come nel periodo del lockdown la gente fotografasse gli uccellini, il cielo, il mare che era tornato pulito, recuperando un'attenzione su un tema emerso con grande forza anche a Londra, una città molto faticosa dove però stanno chiudendo le strade per fare dei giardini. Spero che anche da noi la politica capisca che invece di fare proclami altisonanti deve dedicarsi ad una pianificazione urbana adeguata, lavorando tra le pieghe delle città e prendendosi cura del territorio urbano». 

Si può considerare superato il modello del distanziamento, che ha caratterizzato le proposte di alcuni suoi colleghi? 

«Sono sorpreso del fatto che gli architetti pensino al distanziamento. Tutto sommato, anche se il Covid non è scomparso del tutto, c'è una grande voglia di socialità. È un fattore umano contro il quale, pur volendo, non si può andare. Piuttosto, lo ripeto, bisognerebbe pensare a migliorare la qualità dell'aria delle città, aumentando gli spazi verdi». 

Spesso si rinuncia al verde perché la sua manutenzione è onerosa per le pubbliche amministrazioni. 

«Lo capisco, ma non possiamo costruire delle città di pietra. Se all'estero le aree verdi si riescono a mantenere bene, non vedo il motivo per cui questo non si possa fare anche da noi. Certo, gli spazi vanno curati. Ma perché, se hai un'auto non ci metti la benzina? Non controlli l'olio, non le fai il tagliando, non cambi i pneumatici? Allo stesso modo si devono curare gli spazi dell'incontro. Se non si fa, non ci si può lamentare della disgregazione sociale». 

A proposito delle città di pietra, ha seguito il dibattito sulla nuova veste di piazza Municipio, a Napoli? 

«Sì, ho letto che ci sono state un po' di polemiche e ho visto alcune foto, ma non ho ben presenti alcuni aspetti. Prima di tutto, bisognerebbe capire che cosa prevedeva il progetto iniziale. In ogni caso, al di là del tema del verde pubblico, che come ho detto è una priorità, dobbiamo dire che ci sono, anche in Italia, piazze meravigliose che non hanno un albero, ma magari hanno i porticati, come piazza Maggiore a Bologna e piazza Plebiscito a Napoli. Chiaro, se in prossimità della piazza non c'è un luogo dove ripararsi, si fa fatica: in estate, non resta che stare seduti al sole. Torniamo sempre alla solita considerazione: le piazze si fanno per i cittadini, non per gli architetti. E devono essere pensate per essere vissute, abitate, frequentate. Questo non si dovrebbe mai dimenticare». 

Ritiene che in un'ottica di migliore fruizione degli spazi urbani sia valido e applicabile il modello della «città dei 15 minuti», elaborato dall'urbanista franco-colombiano Carlos Moreno? 

«Questa è una cosa che va un po' capita. Il discorso dei 15 minuti ha un senso in città grandi come Milano, Roma, Napoli. In pratica, stiamo riparlando dell'economia di quartiere, con i servizi principali distribuiti in tutte le zone della città. Noi questi quartieri ce li abbiamo già. In una grande città 15 minuti sono veramente pochi. Creare città di vicinato serve sicuramente a ridurre l'impatto del traffico, che è una delle cause del disastro urbano. Ma qui a Bologna, e anche in altre città, questo già esiste. Piuttosto, bisognerebbe affiancare a questo modello l'idea dello smart working». 

Per l'appunto, con la pandemia si è diffuso il lavoro a distanza. Ritiene che questa nuova modalità resisterà anche nell'era post-Covid? 

«Io credo di sì, anche se ci siamo arrivati forzando la gestione del Covid. Il settore pubblico ha fatto più fatica ad adeguarsi perché è una macchina più pesante e più lenta, ma il mondo privato si è organizzato. Molti non torneranno a fare il lavoro di prima perché si sono accorti che in questo modo si vive e si lavora meglio. Io so che posso lavorare in vista di un certo risultato in un determinato arco di tempo e che posso farlo anche a casa: è un grande passo in avanti. Il processo per cui si esce di casa, si prende l'auto, si va in ufficio e si resta lì fino al pomeriggio, poi ci si rimette tutti insieme in auto e si torna a casa affrontando il traffico appartiene al secolo scorso. Oggi abbiamo una consapevolezza del lavoro diversa. È chiaro che non si può fare o bianco o nero, questa cosa va fatta nella misura giusta e per alcuni lavori non è applicabile, ma per tanti altri va bene». 

Dunque, lo smart working è un'opportunità da sviluppare? 

«Quella dello smart working è un'idea che va assolutamente perseguita per evitare che le persone si muovano solo per andare a lavorare e tornare a casa. In ufficio si può andare due volte alla settimana, riducendo così notevolmente il traffico. In quest'ottica, l'organizzazione di spazi di co-working nei quartieri sarebbe molto utile. È la direzione in cui deve guardare la pianificazione urbana: c'è bisogno che la politica queste cose le capisca, altrimenti non progettiamo le città del futuro ma quelle del passato. Serve una nouvelle vague della visione urbanistica che sia legata ai bisogni dei cittadini, altrimenti siamo entrati nell'era del digitale e sembra che il digitale non ci abbia portato alcun vantaggio. La tecnologia, invece, potrebbe aiutarci a costruire una vita sociale più intensa, a vivere di più il quartiere, a trascorrere più tempo con la famiglia e, perché no, in una pausa dal lavoro anche a curare il giardino. Negli Stati Uniti molto lavoro commerciale viene fatto da casa, e ci sono persone che rifiutano il lavoro se non ha queste caratteristiche, perché lavorando da remoto possono gestire la famiglia e le loro cose». 

Che cosa risponde a quanti vedono nel lavoro a distanza una porta aperta sul lassismo? 

«Che è una stupidaggine. È come dire che chi sta otto ore in ufficio produce molto, il che in alcuni casi non è affatto vero. Il lavoro è legato ai risultati, e in questo senso credo che il telelavoro sia una forma di maturità. Ci sono mille modi per gestire il lavoro e per aiutare un dipendente a conseguire un obiettivo. Tra l'altro, la riduzione degli spazi negli uffici abbatte i costi di gestione. Dare dei premi di produttività è molto più utile che pagare affitti stratosferici. Bisogna essere più concreti e aprirsi alla modernità». 

Non crede che la diffusione degli strumenti digitali e delle relazioni a distanza abbia alimentato incomunicabilità e individualismo? 

«Sì, ma è come la storia dei telefonini: la gente va al ristorante e invece di parlare guarda il telefonino. Probabilmente siamo ancora in un'era preistorica del digitale, è come se avessimo scoperto la ruota. Tra i teenagers, però, questa cosa è cambiata molto. Mio figlio ha 17 anni e vedo che lui e i suoi amici non sono più ossessionati dalla tecnologia. Si incontrano, stanno insieme. Quella digitale è solo una piccola parte della loro vita. Forse con la seconda e la terza generazione dei nativi digitali guadagneremo un rapporto più equilibrato con gli strumenti digitali». 

Con "Arcipelago Italia", l'indagine che ha presentato alla Biennale del 2018, lei ha concentrato l'attenzione sulle aree interne. Il telelavoro, la diffusione delle connessioni internet a banda larga e la ricerca di spazi favorirà una redistribuzione delle persone e delle attività economiche tra aree interne e aree costiere?  

«Credo di sì, ma anche questo è un discorso collegato a diffusione dello smart working. In Italia tra una città e l'altra non abbiamo deserti, ma tanti piccoli centri. E ci sono agricoltura, foreste, parchi: dopo tanti anni passati a guardare i modelli degli altri, sarebbe ora di rivalutare e valorizzare il nostro. Ma non dobbiamo sottovalutare gli investimenti pubblici. Il rilancio delle aree interne non passa solo attraverso la creazione di lavoro, ma anche per i servizi e le infrastrutture digitali, utili anche per la medicina. Ormai il digitale permette di fare anche tanta diagnosi a distanza. Solo così, invece di andare a Roma o a Napoli, una persona potrà decidere di abitare in un piccolo centro, dove si possono trovare ritmi di vita e economie più sostenibili. D'altro canto, però, è chiaro che se l'ospedale e il cinema sono a 50 chilometri, una scelta del genere diventa difficile. Bisogna progettare una rete infrastrutturale più capillare per garantire alle persone i servizi essenziali. Solo creando una rete di servizi sul territorio si sposta un po' il baricentro». 

Il Pnrr promette di cambiare volto alle nostre città e di imprimere un'accelerazione sul piano delle infrastrutture, sia analogiche che digitali: ha l'impressione che questa promessa sarà mantenuta? 

«Me lo auguro con tutto il cuore, perché almeno negli anni a venire non avremo altre opportunità simili. Ho l'impressione che le risorse ci siano, e che siano anche tante. Il tema è se la macchina pubblica è pronta a gestirle, anche perché o è pronta ora o sarà troppo tardi. L'altra preoccupazione riguarda  la burocrazia, che a volte vanifica anche la buona volontà. Bisogna capire se si riescono a sbloccare quei meccanismi per cui abbiamo già perso tanti treni: concessioni edilizie rilasciate in tempi lunghissimi, ricorsi, gare sempre in contenzioso. Per il Pnrr i tempi sono stringenti, per cui o la macchina si adegua, o si fallisce. E allora sarà difficile per la politica motivare alla gente la perdita di quei quattrini».