De Angelis: «La crisi delle sale? Non sono preoccupato, c'è voglia di normalità». Sui contenuti in streaming: «Dopo la bulimia da lockdown, arrivi il tempo del silenzio»

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Il lavoro è frenetico, senza respiro. Come in una corsa contro il tempo: il tempo andato, il tempo perduto (o forse no?) in questi due anni segnati da un'allucinazione collettiva chiamata pandemia. Così, mentre porta a termine le riprese della serie Netflix "La vita bugiarda degli adulti", tratta dal romanzo di Elena Ferrante e prodotta da Fandango (sei puntate con Valeria Golino, Alessandro Preziosi, Pina Turco e l'esordiente Giordana Marengo, disponibile a fine anno) Edoardo De Angelis, regista napoletano per il grande schermo ("Mozzarella stories", "Perez", "Indivisibili", "Il vizio della speranza") e il piccolo (sue le riletture per la Rai di "Natale in casa Cupiello", "Sabato, domenica e lunedì" e "Non ti pago") si è tuffato nella vicenda di Salvatore Todaro, eroe italiano della seconda guerra mondiale, che sarà raccontata al grande pubblico in "Comandante", il film di guerra scritto a quattro mani con Sandro Veronesi e ambientato nell'Oceano Atlantico. «Le riprese inizieranno in autunno, ora sono in corso le lavorazioni preparatorie», spiega in una delle poche pause.

A quanto pare, siamo sopravvissuti al Covid. Ma come ne siamo usciti?

«È difficile descrivere un fenomeno mentre si sta ancora verificando. Solo quando ne saremo veramente usciti sapremo se saremo veramente sopravvissuti. Certo, il Covid ci ha cambiati: non esistono fenomeni che non generino modificazioni, e un fenomeno di questa portata non poteva non generare cambiamenti profondi. Quelli che vediamo nella vita quotidiana li possiamo descrivere, ma quelli che scendono più a fondo e toccano una dimensione più inconsapevole mi sembrano abbastanza insondabili. Ed è proprio questa insondabilità che genera in noi spaesamento».

Una cosa che sicuramente è cambiata è la fruizione dei prodotti culturali e di intrattenimento. Dopo anni di crisi del cinema e varie iniezioni ricostituenti, le sale erano tornate a riempirsi. Adesso soffiano di nuovo venti di crisi, con una flessione del 48 per cento degli incassi. È preoccupato?

«Credo che il sentimento della preoccupazione non sia mai fruttuoso, e che in questo caso non sia neanche giustificato. L'essere umano avrà sempre il desiderio di assistere ad eventi collettivi e alla rappresentazione ordinata di quello che nella propria esistenza percepisce come caotico. La coercizione può limitare momentaneamente l'esercizio di questo desiderio, ma non può spegnerlo. D'altra parte, chi si trova in una condizione di cattività desidera sempre di tornare alla libertà».

Quanto pesa sul calo delle presenze nei cinema l'obbligo delle mascherine FFp2, prorogato fino al prossimo 15 giugno e contestato da molti addetti ai lavori? 

«Non saprei. Personalmente, con le mascherine mi sono sempre sentito più sicuro, i colpi di tosse in sala mi hanno sempre dato un certo fastidio, anche prima del Covid. Del resto, in teatro questo condizionamento non si è avvertito, eppure la modalità di fruizione è praticamente la stessa».

A fronte di quanto si è perso, ritiene che il mondo dell'audiovisivo abbia guadagnato qualcosa in questi due anni?

«Il mondo della rappresentazione in generale guadagna sempre qualcosa dalle esperienze dolorose. Prima di tutto, ne ricava un afflato più convinto che può spingere gli individui a mettere in scena l'avventura dolorosa per superarla».

Sul piano economico, l'aumento della domanda dal divano, a tutto vantaggio delle piattaforme a pagamento che offrono contenuti in streaming, ha compensato le perdite dei canali tradizionali?

«Le tasche non sono le medesime, quindi no. Gli esercenti hanno sofferto più di tutti, questo è evidente. Quello è un anello che si è materialmente indebolito. Le sale sono avamposti di relazione, presidi politici che vanno protetti anche per il loro valore simbolico. Ma sono simboli concreti, che possono essere vissuti. Sono i contenitori delle nostre relazioni».

Che cosa pensa del cinema rispetto alla pandemia? "Don't look up" ci ha invitati alla riflessione con una riuscita allegoria, ma non c'è stato molto altro.

«"Don't look up" è l'esempio della capacità di estrapolare un sentimento e collocarlo in una dimensione universale, ma sono storie difficili da raccontare nella loro concretezza. Giustamente, come ha detto, poco cinema lo ha fatto: la pandemia ci ha suggerito immagini deprimenti, e il cinema vuole la disperazione o la gioia, non la depressione».

Questa drammatica esperienza su scala planetaria determinerà un nuovo ordine anche per l'intrattenimento?

«La geografia dell'industria dell'audiovisivo è già cambiata. L'industria muta continuamente, così come il sentimento degli autori, che resteranno sempre al centro di questo fenomeno. Il cinema che tenta di sottrarre centralità agli autori rinuncia all'empatia. Quanto alla crescita delle piattaforme digitali, il Covid ha solo accelerato un fenomeno che era già in corso. Il vero cambio epocale è stata la diffusione della tecnologia. Legittimamente, le persone hanno avuto un desiderio di sperimentare un modo diverso di vedere contenuti, quando non era possibile andare in sala. E anche di godere di un'offerta più significativa sul piano quantitativo».

Mentre la quantità diventava imponente, però, la qualità è calata.

«Questo è inevitabile, è un fenomeno fisico. Dopo un momento di bulimia, il rischio di perdere un poco di gusto è fisiologico. Ma è una dinamica che deve farci riflettere. Per noi autori è tempo di renderci conto che è fondamentale il tempo del silenzio e del pensiero».

Intanto Napoli è stata protagonista ai David di Donatello e avrà nella ex Base Nato Napoli la sua accademia con la "Scuola pubblica delle Arti e dei Mestieri del Cinema". Si avvicina finalmente quel salto di qualità invocato da tempo per mettere a sistema le energie e i talenti che Napoli e la Campania esprimono in una dimensione industriale?

«Ho accolto favorevolmente la nascita di questa realtà, anche se per il momento non ho visto niente di concreto, solo annunci. Napoli ha tutte le carte in regole per trattenere rami dell'industria cinematografica e televisiva. Gli ostacoli che bisogna rimuovere sono di natura politica. Gli addetti ai lavori sono nel pieno della loro muscolarità e hanno tutte le forze per puntare a questo obiettivo, ma gli organi preposti alla facilitazione e alla promozione delle realtà industriali devono trovare un codice di riferimento diverso, adeguato alle nuove sfide. Questo vale anche per la Film Commission, un modello che poteva andare bene dieci anni fa, ma che adesso deve essere rifondato secondo nuovi canoni».