De Giovanni: «Civilizzare le periferie per ritrovare la coesione»

Il filosofo: «Il centro borghese torni ad essere punto di riferimento. L’assenza del dibattito pubblico ha messo in crisi le grandi città»

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Mentre la grande ubriacatura evapora poco a poco, e in attesa dell'ultimo, definitivo party azzurro che il 4 giugno la elettrizzerà ancora, Napoli s'interroga su quel che resterà di una vittoria.

E con la bocca guastata da una separazione inattesa, quella con l'allenatore che l'ha spinta sulla vetta della Repubblica pallonara, si prepara a dismettere i toni epici, a riporre in un cassetto il trionfalismo, magari perfino a sfrondare gli eccessi retorici che accompagnano un successo atteso da più di trent'anni, per rituffarsi nelle mille battaglie di ogni giorno. Una pratica che sotto il Vesuvio è spesso lotta per la sopravvivenza. Una sopravvivenza materiale, morale, civile.

Biagio De Giovanni, 92 anni molti dei quali spesi a studiare la filosofia e l'Europa, lo dice chiaramente: «Non penso che la vittoria del campionato farà rinascere la città: queste sono fantasie». E, chiamato ad analizzare una composizione sociale che in molti casi è degenerata in scomposizione, si augura che questa città teatrale, iperbolica, sopra le righe che tanto piace ai forestieri sappia riscoprire intorno alla sua squadra vincente, e conformandosi al suo esempio virtuoso, la voglia di farsi essa stessa «squadra». A cominciare da chi governa. «Le istituzioni sono tutte collegate, a maggior ragione quelle locali – osserva De Giovanni, che è stato filosofo, accademico e parlamentare europeo -. E dovrebbero muoversi all'unisono a vantaggio dei cittadini».

Professore, il corpo sociale disgregato di questa città si compatta soltanto intorno ad un pallone?

«Prima di parlare di Napoli vorrei fare una premessa: con qualche eccezione, le grandi città sono in grande difficoltà, poiché in forme diverse subiscono tutte la crisi di un dibattito pubblico, o meglio di uno spazio pubblico del dibattito, che non esiste più, e la fine dei partiti. Questi due elementi fanno sì da una parte che il ceto politico si moltiplichi come se la politica non fosse una professione alla stregua di quella del medico o dell’avvocato, come diceva il grande Max Weber, e dall’altra che la società si atomizzi. Napoli non è dunque l’eccezione delle eccezioni, ma è inserita in un quadro di crisi profonda, in particolare in Italia, di tutte le grandi città, forse con l’eccezione di Milano. Non fa eccezione, invece, Roma, che è come una Napoli moltiplicata per tre. Tornando alla sua domanda, tenga conto che sta parlando con un super tifoso. Non sono tra quelli che pensano che lo scudetto del Napoli sia l’inizio di un ciclo nuovo per la città, però non sottovalutiamo il fatto in sé. Non avremmo mai visto la città in festa se questa vicenda sportiva, con tutti i suoi limiti, non si fosse realizzata. Lo ripeto: non penso che la vittoria del campionato farà rinascere la città, queste sono fantasie che non esistono. Sono elementi di aggregazione, di gioia comune, credo sia fuori discussione. Ma non vedo che da questo successo possa nascere altro. Non voglio fare l’intellettuale altezzoso, ma dopo la festa avremo gli stessi problemi di prima. Gli strascichi di gioia in città potranno migliorare le cose, ma non più di tanto, perché Napoli adesso avrà a che fare con il problema enorme della spesa produttiva che l’Europa in parte presta e in parte regala a tutti i Paesi dell’Unione. Il vero problema meridionale sarà questo».

Parla del Pnrr?

«Assolutamente. Uno strumento pensato per ridare vita a istituzioni mezze morte, nella speranza che dei finanziamenti vadano alla scuola, all’università, ai centri di eccellenza, e a Napoli ce ne sono di importanti, come il Cnr. Io non sono un tecnico, quindi non so dire dove sarà possibile che questa importante vicenda europea abbia effetti, ma voglio sperare ardentemente che questa spesa così grande, che per il Mezzogiorno è una specie di Piano Marshall, anche se vincolata a molte regole, produca cose belle».

Per produrre cose buone, si sa, serve un’unità di intenti e di sentimenti. Vede una carenza in questo senso?

«Vedo una mancanza di coesione diffusa. Siamo in una fase di cambiamento radicale, in una fase di passaggio che ha impatto sui grandi problemi internazionali come sulle questioni quotidiane. Sono le fasi più difficili. Si rende conto di cosa significhi il cambiamento completo della comunicazione, della socializzazione del linguaggio? Ripeto, sia ben chiaro: non voglio fare il nostalgico del tempo che fu, so benissimo che non ci si può opporre a questa esplosione tecnologica che andrà sempre più avanti, ma questa dovrà essere messa in rapporto con una società in grado di vivere questa esplosione, non di subirla».

Quali sono le conseguenze di questa disintermediazione dovuta alla dittatura della tecnica?

«Prima di tutto un’atomizzazione che si riflette sulla gioventù, con l’aumento di un’illegalità diffusa, magari organizzata e criminale. Napoli in questo senso è una città difficile, soprattutto nelle periferie. Di questi problemi bisognerebbe parlare e ci vorrebbe una classe politica che ne parlasse. Io non sento più niente su questi temi. La vecchia Questione meridionale è morta, perché in qualche modo doveva morire, e la nuova non è nata. Il dualismo italiano era strettamente legato all’unità dello Stato-Nazione. Nel momento in cui entra in campo l’Europa, e la Lombardia preferisce intrattenere rapporti con la Baviera piuttosto che con la Calabria, il vecchio meridionalismo non è più possibile. Nonostante qualche sforzo di buona volontà, però, l’intenzione di pensare al problema del Mezzogiorno e ad un’unità d’Italia che abbia una forma diversa, non si vede da nessuna parte».

Dal suo punto di vista, Napoli patisce una disarticolazione tra i ceti sociali e un’incapacità di marciare compatti nella stessa direzione all’interno degli stessi ceti e delle stesse lobby?

«Non c’è dubbio che ci sia un’incapacità di stare uniti. Il dibattito pubblico di cui parlavo coinvolge quei ceti medi attivi che una volta si chiamavano ceti medi riflessivi, e si rivolge ad un’opinione organizzata. Anche l’opinione operaia era organizzata, e non lo è più perché il lavoro non è più organizzato. In una società atomizzata in cui c’è l’individuo e c’è la massa, il dibattito pubblico soccombe. Basti pensare all’invadenza dei social e quindi ad una comunicazione immediata e priva di verifica. Non voglio fare la parte di quello che rimpiange il tempo che fu, ma lo spazio pubblico è occupato da un dibattito che, nel bene e nel male, con i suoi limiti e le sue caratteristiche, organizzava l’opinione e organizzava perfino il conflitto politico. Mi permetto di dire che a mio giudizio Napoli, quando è stato eletto Gaetano Manfredi, usciva da una delle peggiori amministrazioni del dopoguerra, come quella guidata da de Magistris, che aveva già insinuato dentro la città una specie di originario populismo. L’ex rettore ha ereditato una situazione difficilissima nella quale le cose che lei dice, alle quali se ne possono aggiungere altre, sono malattie sociali che non solo non si risolvono in una stagione ma rischiano di peggiorare di volta in volta, perché Napoli non sta migliorando. È ancora poco vivibile sul piano della quotidianità, che significa trasporti, commercio, decoro urbano, pulizia. Sono elementi importantissimi per una città civile. È come se il ceto medio avesse ceduto la propria posizione intellettuale. Magari esistono grandi professionisti che lavorano ciascuno per conto proprio, ma anche all’interno delle professioni viene meno quella consultazione necessaria che prima teneva insieme i corpi professionali. Queste cose sono tutte legate al mutamento della struttura della società e al mutamento della struttura della comunicazione. E poi c’è un tema che non abbiamo ancora affrontato: a Napoli c’è un problema specifico che riguarda i rapporti tra le istituzioni».

Ecco, appunto: auspicavamo tra i principali palazzi del potere locale una concordia istituzionale che invece è venuta meno anche tra De Luca e Manfredi.

«Rifuggo dalle critiche sommarie, anche perché l’illustre governatore è stato mio studente e si è laureato alla facoltà di Filosofia di Salerno negli anni ’70. Però abbiamo una difficoltà di rapporto tra le istituzioni. Per quanto si voglia essere benevoli anche nei confronti del presidente della Regione, sicuramente i difetti di comunicazione, che sono evidenti a tutti, pesano. Comune e Regione sono istituzioni diverse e simili: se tra loro non si crea una simbiosi importante, le cose non vanno avanti né da una parte né dall’altra. Questo dev’essere ben chiaro. Le istituzioni sono tutte collegate, a maggior ragione quelle locali. E dovrebbero muoversi all’unisono in vantaggio delle città campane».

Che cosa dovrebbe cambiare perché tra Comune e Regione si trovi un equilibrio?

«Napoli era nei guai molto prima che questa amministrazione si insediasse, penso che ci voglia molta energia. Se dovessi fare un appello all’ex rettore Manfredi, che non ho il piacere di conoscere, gli direi: più carisma, più comunicazione con i cittadini. Una comunicazione continua con azioni che diano il senso di un cambiamento nella vivibilità quotidiana, che significa tante cose, anche apparentemente piccole. A Napoli, per esempio, non si cammina più sui marciapiedi. Via Mergellina è occupata da mercanzie di tutti i tipi. Può sembrare una sciocchezza, ma una città deve avere i marciapiedi liberi, puliti. Questi sono elementi che formano il livello di vivibilità. Poi naturalmente ci sono i grandi problemi, così come ci sono le eccellenze. Bisogna fare lo sforzo di una comunicazione più forte, più viva sui temi della vivibilità quotidiana, naturalmente procedendo ai necessari aggiustamenti. Al di là di tutte le astrazioni, una città vive anzitutto di cose materiali, che vanno portate ad un livello superiore. Basta agire su tre o quattro aspetti: la pulizia e il decoro della città, il traffico, i trasporti. E serve che il sindaco, che è stato un illustre rettore ed è un illustre intellettuale, dia ancora più forza alla sua comunicazione. Invece mi permetto di dirgli che lo si sente poco».

Manca ancora in città una classe media? È ancora vero che la Napoli alta e la Napoli bassa non si parlano e in certi casi si guardano con sospetto?

«Assolutamente, la borghesia si è dissolta. È la conseguenza principale della cosiddetta globalizzazione per come è stata vissuta non soltanto in Italia, ma a suo tempo già negli Stati Uniti: la classe media ne ha risentito enormemente, come ne hanno risentito molto le professioni. Il famoso ceto medio riflessivo era il cuore di quell’organizzazione del dibattito pubblico del quale parlavo, che era sostenuto da partiti che, con tutti i loro difetti, avevano praticato una pedagogia di massa che è scomparsa. Il ceto politico è disseminato dappertutto, non ha più una consistenza culturale. Questo diciamolo con chiarezza».

Si può dire che quel ceto politico non abbia più una vera rappresentatività?

«Certo. Le società atomizzate sono poco rappresentative perché la rappresentanza politica prevede la rappresentazione di una società. La rappresentanza politica funziona bene quando una società è strutturata: ci sono le classi, ci sono i conflitti, il lavoro organizzato, le categorie culturali. Questo mondo è finito, quindi non ci dobbiamo sorprendere della crisi. Bisognerà vedere, e lo vedranno le generazioni future, che cosa accadrà. Si dovrà procedere a inserire lo sviluppo tecnologico nello sviluppo sociale: questo è il grande tema del futuro».

Quando si dice che manca l’anello di congiunzione tra la Napoli borghese e quella proletaria, quanto ci si approssima alla verità?

«Intendiamoci: Napoli è sempre stata composta da più Napoli. Non voglio fare il passatista, ma forse quella migliore è stata la Napoli spagnola del Seicento. Oggi dove sta il proletariato? Nel bene e nel male, era una classe, e non lo era solo politicamente. Lo era culturalmente, sia pure come portatore di una cultura vissuta, più che studiata. E non è vero che il conflitto non serve: il conflitto è utile. Invece qui c’è un confitto disseminato, legato spesso a eventi criminali. Quindi io non parlerei più di città proletaria ma, con una parola che si usa moltissimo, credo si debba parlare di periferie dove forse si comincia con questa amministrazione a vedere qualcosa. Bisogna civilizzare le periferie, ma prima si deve civilizzare il centro. La mancata civilizzazione delle periferie è anche il prodotto della scarsa civilizzazione del centro borghese, che in passato ha funzionato spesso come know-how politico, come punto di riferimento ideale. Senza idealizzare, perché anche lì i problemi erano tanti. Ma adesso l’impressione è quella di vivere in città che non hanno né capo né coda. Luoghi a cui manca una classe dirigente solida e anche - insisto - conflittuale. Parlo di un conflitto politico che fa crescere la coscienza politica, non la diminuisce».

È vero che da queste parti, piuttosto che veder vincere l’altro, si preferisce affondare tutti insieme?

«Beh, alla fine questi affondamenti generali non avvengono perché la storia non funziona così. Se avvenissero, diventerebbero delle vere catastrofi naturali, come la scomparsa dei dinosauri. Invece c’è sempre un’umanità che in qualche maniera vuole vivere, e vivere possibilmente bene. È un dato materiale legato ad un’umanità sofferente, piena di problemi, con poco lavoro. Confido in una ripresa delle classi dirigenti. Ma mi auguro anche, forse anche perché per decenni mi sono occupato di Europa, che l’intervento comunitario sia non dico salvifico ma che dia una speranza a questa città. Se dovessero prevalere al livello nazionale queste idee per cui ognuno fa per sé e più siamo autonomi meglio stiamo, sarebbe un disastro. Bisogna capire che il mondo è in connessione. Questa connessione può avere aspetti positivi e aspetti negativi, e bisogna far prevalere quelli positivi».

C’è una parte di classe dirigente che al livello politico, imprenditoriale, culturale non dirige, abdica alla sua funzione, si fa i fatti suoi?

«Non posso ergermi a giudice e non si deve generalizzare. Se pensassimo questo, dovremmo abbandonare ogni speranza. Invece nell’umanità i germi ci sono sempre. Si tratta di vedere in che modo vengono organizzati, raccolti, pensati, messi insieme. Napoli è una città bellissima, io che ho la fortuna di abitare con il Vesuvio di fronte lo so bene. E più di altre, anche sottoterra, è talmente carica di storia - di storia greca, di storia romana, di storia spagnola - che non può morire di insufficienza di idee, poiché ha prodotto sempre pensatori di grande rilievo. Non a caso ha avuto alcuni dei massimi filosofi dell’umanità, da Vico a Croce. Significa che dalle viscere profonde di questa città possono nascere delle idee. Bisogna avere fiducia. Le idee sono fondamentali, perché senza idee non si aggiusta neanche un fornello a gas».