Diritto alla città

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La città è il luogo nel quale si misura la democrazia, nelle sue espressioni più profonde, ovvero attraverso l’attuazione dei principi di eguaglianza e solidarietà, che significa innanzitutto condivisione del contratto sociale che lega i cittadini nei valori e li ispira nella loro azione. Contratto sociale che va tenuto vivo attraverso l’istruzione, l’informazione e attraverso progetti plurali di partecipazione e condivisione.

 Occorre innanzitutto consentire e permettere a tutti quelli che vivono in un determinato spazio territoriale di poter godere di eguali diritti primari, in particolare di quei diritti che si realizzano, al di là dei fondamentali diritti alla casa e al lavoro, attraverso il godimento di beni e servizi pubblici. Ciò richiede, innanzitutto, l’attuazione dell’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui pone le basi dell’eguaglianza sostanziale, ovvero: “trattare in maniera eguale situazioni eguali e in maniera differente situazioni differenti”. La differenza evidentemente si misura sul piano sociale ed economico.

Quanto più i diritti fondamentali dei cittadini (salute, istruzione, mobilità, welfare municipale) sono privatizzati, ovvero venduti, acquistati e posti sul mercato, tanto più appare in tutta la sua fragilità la dimensione democratica della città.

In questa cornice, i beni pubblici (intesi anche quali patrimonio edilizio, infrastrutture, spazi verdi, servizi), sono il tessuto vibrante delle città democratiche, rappresentano lo spazio capace di garantire a tutti i diritti. Il degrado del processo realizzativo dell’edilizia residenziale nella nostra città, privo di una visione regolatrice e lungimirante, ha ampliato le differenze, calpestando l’originaria e costituzionale funzione della proprietà privata che è la funzione sociale, ovvero tutela della dignità della persona, della salute, dell’ambiente e del territorio.

Persa del tutto la funzione sociale dell’edilizia residenziale privata, oggi sempre più versata in modo disordinato a raccogliere i profitti marginali del turismo, in una logica da Disney Park, si pone la questione del ruolo dei beni pubblici. Beni, per loro natura, orientati al perseguimento degli interessi generali, al benessere della collettività.

I beni pubblici, in particolare quelli di proprietà del Comune, ma non solo, diventano lo snodo centrale. Ovvero beni serventi all’attuazione dei principi costituzionali, ma soprattutto alla dignità dei cittadini più deboli, esclusi, emarginati, privi delle risorse necessarie per “acquistare” i diritti.

La mia tesi è che il diritto alla città, in opposizione a logiche predatorie, tese allo sfruttamento isterico del patrimonio, anche quale strumento per “far cassa” (il patrimonio pubblico quale strumento di finanza pubblica) dovrebbe trovare il proprio frame costituzionale negli artt. 1, 2, 3, 4, 9, 41, 42, 43 della Costituzione.

Gli amministratori locali, quindi, invece di evocare la Costituzione in maniera pasticciata e strumentale, dovrebbero porsi la questione di come attuare il quadro costituzionale, attraverso l’attuale regime delle competenze (o anche attraverso forme di dissenso ma pur sempre fondate nella Costituzione), per dare effettività ad un diritto democratico alla città, in equilibrio con l’ambiente, ponendo al centro la dignità della persona.

Quella dignità che assume corpo, sostanza, effettività, anche attraverso la responsabilità dei soggetti pubblici decisori, che devono ispirare la loro azione ai principi del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa.

Vediamo dunque la questione del patrimonio pubblico di proprietà del Comune. Ovviamente il tema è molto più esteso perché riguarderebbe tutto il patrimonio pubblico non soltanto quello del Comune. In ogni caso il patrimonio pubblico del Comune (edifici, servizi pubblici, aree verdi) dovrebbe essere, in attuazione dei principi costituzionali, funzionale a soddisfare i diritti dei cittadini i quali, proprio sulla base della cornice costituzionale, esercitano attraverso di essi un diritto al godimento. Quel diritto di godimento che consente l’attuazione ed il rispetto dei loro diritti fondamentali.

L'amministrazione attiva, attraverso i suoi beni, deve dare dignità ai cittadini e soprattutto avere la capacità di ascoltarli. Nel territorio comunale l’Ente locale deve trasformare il suo ruolo da proprietario ad amministratore. Deve ascoltare le istanze e le esigenze che provengono dal basso, le richieste di utilizzo del bene. Percepire come un determinato bene di sua proprietà possa svolgere una funzione sociale rispetto ad una certa comunità di riferimento.

La funzione sociale del bene prevale sul titolo di proprietà, il godimento del bene è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali e quindi a configurare un diritto democratico  alla città.

La capacità di una buona amministrazione dovrebbe essere quella di percepire tali esigenze, entrare in contatto con la cittadinanza attiva più o meno strutturata, anche attraverso procedure partecipative, senza calare dall’alto decisioni. Ma, una volta che il pendolo si sposta dal rapporto dominus- beni a quello beni-diritti, le sue responsabilità di amministratore aumentano. Deve, da bravo amministratore, seguire il processo, verificare il perseguimento dei pubblici interessi, l’assolvimento della funzione sociale, la redditività (anche sociale e non forzatamente mercantile) del bene. Vegliare che i processi partecipativi di utilizzo e godimento del bene non si trasformino in azioni escludenti ed egoistiche. Tutti i rapporti tra Comune e cittadini dovrebbero articolarsi al di fuori della logica proprietaria, attraverso un monitoraggio continuo.

In questa prospettiva, il dominus non assegna il bene, non fa una gara per assegnare il bene, in quanto lo stesso resta nella sua piena disponibilità, ma tale disponibilità non la fa valere nel rapporto strutturale dominus- bene, ma piuttosto nella relazione funzionale bene - diritti.

Questa è la grande sfida che ho portato avanti da assessore del Comune di Napoli a partire dal 2011. Ad esempio, nel 2012 con la delibera n. 400 (gestione del bene di proprietà del Comune di Napoli c.d. ex Asilo Filangieri), provai a sperimentare nuovi modelli attuativi di un diritto democratico della città. L’obiettivo era di trasferire in quella delibera la mia teoria sui beni comuni, unita a quella sui processi partecipativi.

Una delibera sperimentale, poggiata sulla Costituzione, sui lavori della Commissione Rodotà, sulla teoria dei beni comuni, che aveva aperto il varco a tante altre sperimentazioni. Si pensi alla trasformazione di ARIN S.p.a. in ABC azienda speciale, alla modifica dello Statuto del Comune di Napoli con l’inserimento, tra valori e finalità, la definizione della categoria giuridica beni comuni così come elaborata dalla Commissione Rodotà. Una delibera che poneva al centro i diritti fondamentali dei cittadini (il diritto democratico alla città), uscendo da logiche estrattive, di saccheggio e di profitto mercantile, o anche semplicemente di sottoutilizzo del bene, ma poggiata sulla funzione sociale della proprietà. Quel bene, ancorché di proprietà del Comune, assumeva le caratteristiche di bene comune, una categoria, che a dispetto di quanto sostengono superficialmente in molti, non significa abbondono del bene da parte del Comune, ma piuttosto valorizzazione in funzione delle esigenze dei cittadini. Il che richiede, da parte del proprietario-amministratore, una cura ed una attenzione, decisamente maggiore rispetto ad un bene dato in gestione ad un soggetto privato.

Ma il diritto democratico alla città vive e si realizza, anche attraverso un uso alternativo di beni e servizi pubblici, soltanto se vi è un’amministrazione all’altezza, in grado di guidare e regolare un processo di coscienza collettiva, diffuso, condiviso ed ascendente.