Esposito: «Autonomia, l'arbitro è venduto»

Il giornalista su Bonaccini: «Da candidato segretario del Pd si è defilato, ma ha remato a favore del Nord»

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Dall'Italia dei mille campanili a quella dei mille livelli delle prestazioni, il passo potrebbe non essere poi così lungo. Il timore affonda le radici tra le pieghe di una riforma, quella che porta la firma di Roberto Calderoli, ministro leghista del governo Meloni con delega agli Affari regionali e alle autonomie, che rischia di scuotere in profondità l'impianto della nostra Carta fondativa.

Secondo molti osservatori, se diventerà legge, l'autonomia in salsa nordista finirà di disgregare ciò che è già sfaldato, consegnandoci un Paese in cui la parola «devoluzione» spalancherà le porte alla discriminazione. A tutto svantaggio, manco a dirlo, della sua parte già svantaggiata. A corroborare questa ipotesi, un fondo perequativo che per ora è un portafogli vuoto e un meccanismo di definizione dei Lep (i livelli essenziali delle prestazioni di cui sopra) arbitrario o quanto meno oscuro, che sembra apparecchiare per il Mezzogiorno d'Italia un futuro a tinte ancora più fosche di quelle che da sempre, e ancora oggi, lo relegano sul fondo delle classifiche di vivibilità.

Insomma, questa autonomia sarà pure differenziata, ma l'unica cosa che risalta sono - appunto - le differenze: quelle che ci sono sempre state, quelle che oltre 160 anni dopo l'Unità resistono tenaci e quelle che il progetto leghista promette di amplificare, soffiando peraltro sul fuoco di un razzismo la cui fiamma a certe latitudini resta sempre viva, sotto la cenere e talvolta anche sopra.

Di questi temi Marco Esposito, giornalista e saggista schierato da tempo sulla trincea meridionalista, si è occupato a lungo. Non solo sul "Mattino", il giornale per cui lavora, ma anche con una puntuale produzione letteraria: sono suoi "Chi paga la devolution?" (2003), "Federalismo Avvelenato" (2011, con Gianni Pittella, ex vicepresidente del Parlamento europeo), "Separiamoci" (2013), "Zero al Sud. La storia incredibile (e vera) dell'attuazione perversa del federalismo fiscale" (2018) e "Fake Sud. Perché i pregiudizi sui meridionali sono la vera palla al piede dell'Italia" (2020).

A proposito di divari, Esposito, che vanta anche un'esperienza da assessore alle Attività produttive nella giunta de Magistris, affianca una visione orizzontale a quella verticale: non solo Nord-Sud, ma anche centro-periferia. «Il ddl Calderoli esprime un concetto di concorrenza. Un metodo che può funzionare per la libera impresa, ma se sono in gioco i diritti delle persone, inevitabilmente aumenta le differenze», sostiene.

Esposito, esiste a suo avviso un profilo di legittimità costituzionale rispetto al disegno di legge Calderoli?

«Io ribalterei la prospettiva, nel senso che per me il disegno di legge Calderoli ha senso se rende esplicito il dettato costituzionale. Faccio un esempio: se una Regione chiede che le venga assegnata una materia, deve specificare qual è il vantaggio complessivo per il sistema-Paese e per sé stessa, così da scongiurare una contraddizione con altre funzioni previste dalla Costituzione stessa. Questo passaggio invece nel ddl Calderoli non c'è. Non si risponde alla domanda: "perché vogliamo fare questa cosa?", non si spiega quale valore costituzionale sarebbe attuato meglio frammentando le reti energetiche o altre cose. Nel momento in cui chiediamo quale soggetto terzo fa una valutazione dell'interesse generale anche sotto forma di pareri e valutazioni tecniche, questo non c'è».

Al centro del dibattito politico c'è anche il problema della terzietà sulla definizione dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni.

«Dei Lep si parla già nella riforma del Titolo V del 2001, dove sono indicati come una materia legislativa esclusiva statale, per cui è il Parlamento che deve fare una legge e stabilire ad esempio qual è il livello di tempo pieno a scuola che vogliamo. La legge di bilancio del ddl Calderoli, invece, assegna questo compito a un Dpcm, cioè un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Dal punto di vista della grammatica costituzionale, se c'è un'esclusiva legislativa dello Stato non può essere un atto amministrativo del governo a regolare quella materia».

Quella firmata da Calderoli è una legge fatta in malafede o semplicemente un tentativo di riforma pasticciato?

«È una legge che risponde al tentativo di mettere insieme tante esigenze. Intanto si capisce che passa sempre sulle scrivanie di Zaia e di Fontana, i presidenti ora più in prima fila, visto che Bonaccini si è un po' defilato. Loro hanno molto chiaro l'obiettivo della libertà di manovra sulle risorse attraverso una serie di garanzie per cui una volta realizzata questa cosa nessuno può toccare più niente. D'altro canto, il ddl cerca anche di tenere insieme il malessere che è emerso dal Mezzogiorno, provando a garantire l'invarianza, che però per il Sud è una presa in giro, in quanto avendo un divario fortissimo certificato da tutte le analisi su servizi e infrastrutture dire "ti garantisco l'invarianza" è come dire ad una donna che guadagna meno dei colleghi uomini "non preoccuparti, non cambierò la tua posizione". Il patto costituzionale prevede una cosa del tutto diversa, ovvero che si vada in direzione della coesione, sia al livello nazionale che al livello europeo. Tutto quello che ti allontana da quel percorso fa male all'intero Paese, non solo al Sud».

Perché Bonaccini, che pure è stato promotore dell'autonomia, ora ha cambiato registro?

«Beh, mi pare abbastanza evidente che dovendo raccogliere voti non più solo in Emilia ma in tutta Italia per le primarie si è accorto che quello che aveva fatto non era spendibile. Bonaccini ha firmato con il governo Gentiloni un identico accordo il 28 febbraio del 2018 in cui non si parlava di Lep, non si parlava di coesione, si chiedeva anche parti di materie che riguardavano la scuola e soprattutto era scritto che le risorse sarebbero arrivate in relazione al numero di abitanti e al gettito fiscale del territorio. Quindi la stessa cosa che c'è nel ddl Calderoli. Questo porta la firma di Bonaccini e di Bressa (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per gli Affari regionali nei governi Renzi e Gentiloni, ndr) esattamente come di Zaia e di Bressa e come di Maroni, compianto presidente della Regione Lombardia, e di Bressa».

Affermando il concetto del "ciascuno per sé", questo progetto di autonomia differenziata minaccia il patto di solidarietà scritto in Costituzione?

«Afferma un concetto di concorrenza: chi è più bravo ad accaparrarsi gli insegnanti migliori, va avanti nel settore dell'istruzione. Ma questo è un metodo che può funzionare per la libera impresa, per cui possiamo avere automobili o telefonini più performanti. Ma dove sono in gioco i diritti delle persone, questo sistema inevitabilmente aumenta le differenze sia Nord e Sud che tra centro e periferie».

Accanto al dualismo Nord-Sud c'è quello tra aree interne e aree costiere.

«Nel momento in cui dai risorse aggiuntive, privatizzando sostanzialmente l'istruzione, devi domandarti quanto prende un liceo del centro di Milano, Roma o Napoli e quanto riceve una scuola di periferia, che però è quella che tiene insieme il Paese, tentando di dare con difficoltà pari opportunità a tutti e andando nella direzione della coesione. Poi c'è una questione di efficienza: se anche non ci fossero i divari territoriali, frammentare la rete di trasporto nazionale dell'energia o del trasporto ferroviario o dire che il porto di Genova è una proprietà della Liguria è una cosa sulla quale ci dobbiamo interrogare. Il rischio è quello di andare verso un Paese che non governi più».

Il disegno di legge Calderoli rispetta l'articolo 5 della Costituzione, secondo il quale l'Italia è «una e indivisibile»?

«Più che l'indivisibilità della nazione, vedo minacciato l'articolo 3, nel passaggio in cui dice che la Repubblica deve "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Nel momento in cui affidi compiti differenziati alle Regioni, assegnando poteri e soprattutto risorse differenziate, crei disparità. Il problema è sempre quello: un luogo dove abitano persone più ricche ha più diritti di un luogo dove abitano persone meno ricche? I cittadini dell'Emilia Romagna e quelli della Calabria hanno gli stessi diritti? La risposta oggi è "no". E questa cosa rischia di peggiorare».

Se parliamo ancora del gap tra Nord e Sud, però, vuol dire che le politiche per il Mezzogiorno sono state quanto meno insufficienti.

«Beh, la Cassa per il Mezzogiorno nei primi vent'anni ha funzionato bene. Era centralizzata, molto tecnica e poco a gestione politica. Il Mezzogiorno smette di recuperare quando nascono le Regioni, cioè quando si comincia a frammentare la politica per il Sud. Per fare un esempio: la Spagna, che quando è entrata in Europa era un grande Mezzogiorno, ha utilizzato i fondi europei per fare prima di ogni altra cosa la rete ferroviaria ad alta velocità. Non a caso, la prima tratta, inaugurata nel 1992, a cinquecento anni dalla scoperta dell'America, fu Madrid-Siviglia, quindi andava verso Sud. Noi in Italia trent'anni dopo stiamo ancora parlando di quale percorso fare per arrivare in Calabria con la linea ferroviaria, del ponte sullo Stretto. Il punto è che se tu chiedi alla Calabria, alla Campania, al Molise che vogliono fare con una parte di soldi nessuno farà mai il binario, che per definizione fa parte di un progetto nazionale se non addirittura di rete europea, ma ti faranno sempre qualcosa di locale come la pista ciclabile. L'errore sta nell'aver frammentato i centri decisionali o tra i ministeri a Roma o sul territorio».

Dunque, più che decentrare dovremmo accentrare?

«Dipende dalle materie, dalle esigenze, dalle circostanze. Serve un mix di azioni che prescinda da un approccio ideologico. Di certo chi dice che locale è meglio per definizione, sbaglia. Non è sempre vero che il modo per garantire più efficienza è il decentramento. Lo abbiamo visto anche con il Covid. L'Ema è fondamentale per garantire un'uniformità nell'approvazione dei farmaci: serve un organismo che stabilisca protocolli univoci. È proprio questo l'errore del ddl Calderoli: se chiedesse alle Comunità montane se vogliono più soldi e più poteri, tutte risponderebbero di sì, ma non è detto che quella sarebbe la scelta migliore per il Paese. Il tema non è mettere d'accordo la Campania e il Veneto. Quando si tratta di grandi materie, devi trovare un'intesa complessiva, che non è necessariamente centralizzata. L'accordo non lo possono fare solo le Regioni. Per questo il Parlamento è centrale. Se gli dai due mesi per esprimere un parere, non è quello che ci serve. Se i Lep sono approvati per Dpcm, non è quello che ci serve».

Sulle politiche per il Mezzogiorno, dopo la partenza incoraggiante della Cassa, che cosa è successo?

«Sono successe un sacco di cose. Da un lato, nel corso degli anni '70 e ancora di più degli anni '80 c'è stato nel Paese un aumento della corruzione che è esplosa nel '92 con Mani Pulite. L'epicentro era a Milano con Tangentopoli, ma fu evidentemente un fenomeno nazionale. In tutta Italia c'era ormai una corruzione agghiacciante, fuori controllo. Quella è sicuramente un'inefficienza che abbiamo pagato. Però il procedere della cultura leghista per cui ogni territorio pensava a sé e non c'era un problema Sud, bensì un problema Nord, ha visto frammentarsi sempre di più la visione del Mezzogiorno. È stata l'Istat a farci aprire gli occhi, facendoci notare che il Sud stava andando verso un punto di non ritorno. L'emigrazione degli anni '60, che è stata fortissima, non ha ridotto il numero di abitanti del Sud: sono andati via in milioni, ma il Mezzogiorno cresceva, e aveva tanti giovani, che assicuravano l'opportunità di cambiare le cose. Adesso le cose sono cambiate. Nel momento in cui non hai più i giovani e non hai più i laureati, un posto è finito. Questa è la nuova realtà del Mezzogiorno alla quale ci dobbiamo abituare. Non è sempre stato così, ma oggi viviamo un disastro che non ha precedenti nella storia».

Negli ultimi trent'anni, dunque, il divario tra Nord e Sud Italia si è allargato?

«Si è allargato il divario di opportunità e di servizi, e si è allargato anche il divario sociale. La catastrofe demografica, essendo un processo lento, non si percepisce, ma è uno smottamento continuo che l'Istat ha fotografato nei giorni scorsi, dicendo che in dieci anni dal Nord Italia sono andati via verso l'estero 39mila giovani laureati. Però ne sono arrivati il triplo dal Mezzogiorno, il che ha compensato la perdita portando al Nord un contributo di cervelli e intellettualità. Intanto, il Mezzogiorno non solo ha perso quei 116mila giovani che sono andati al Nord, ma ne ha persi anche 28mila che sono andati direttamente all'estero. È come se sparisse un'intera città di media grandezza fatta di 25-30enni con laurea in tasca. Questo ha un effetto sul territorio: quando vai a fare un concorso per manager pubblici o comunque per ruoli di qualità non hai più le intelligenze cui affidare quei ruoli».

Diventa un problema di classe dirigente.

«Esatto. Non hai più le basi per poter ripartire. Anche negli anni '60 in tanti partivano dal Sud per andare al Nord, ma tendenzialmente partivano quelli degli strati sociali più bassi, con la licenza elementare, e chi restava una strada la trovava».

Nel braccio di ferro tra Nord e Sud, il tema della spesa storica è decisivo?

«È un tassello fra i tanti. Nel mio libro "Zero al Sud" ho dimostrato come di fronte a forti divari territoriali il trucco sia stato dire che se non hai un servizio non hai il diritto di averlo neanche per il futuro. Nel libro riportavo il caso degli asili nido, che è diventato emblematico, e finché non c'è stata la reazione dei sindaci del Sud seguita proprio alla pubblicazione del libro, sono andati avanti così. Anzi, hanno allargato questo meccanismo ai servizi social e al trasporto pubblico locale».

È un criterio che il ddl Calderoli recepisce?

«Non in modo esplicito. Il ddl tende a dire poco su temi controversi, però è chiaro che il tema resta: o definisci i Lep e garantisci ovunque servizi omogenei, e quindi inevitabilmente devi finanziare di più il Sud, oppure se resti sulla spesa storica finisci per consolidare dei divari».

Insomma, o la spesa storica o la perequazione.

«Certo. Perché la spesa storica è chiaramente sperequata».

Se questa riforma venisse realizzata, chi ci guadagnerebbe?

«Il rischio è che ci perdano tutti, perché se frammenti la rete di trasporto dell'energia probabilmente ci perdiamo tutti. Se però dovesse esserci un guadagno di un territorio, la perdita ce l'hai in prospettiva: se una parte del Paese perde competitività, come ad esempio sul fronte dell'istruzione quando aumenta l'abbandono scolastico in Campania o in Calabria. Quello prima o poi lo paghiamo tutti: è un fatto oggettivo sul quale il guadagno è solo apparente. È come decidere di blindare il centro di Milano senza curarsi di quello che accade nelle periferie».

Gaetano Quagliariello, ex senatore di Forza Italia, ha rilevato la «mancata previsione di una clausola di supremazia che consenta allo Stato di prevalere di fronte a crisi e situazioni emergenziali». È una preoccupazione fondata?

«Nella Costituzione è prevista una specie di clausola di supremazia all'art. 120, laddove si dice che, una volta definiti i Lep, se un ente locale non li garantisce, lo Stato può intervenire. In realtà potrebbero esserci anche altre ragioni non strettamente legate al mancato rispetto di un Lep per motivare un intervento dello Stato. Questo aspetto però manca non solo nel disegno di legge Calderoli: credo che Quagliariello si riferisca proprio alla Costituzione. Ci sono infatti dei disegni di legge di riforma costituzionale che prevedono di introdurre un meccanismo di equilibrio del genere. Se decidi di imprimere una forte spinta all'autonomia, devi anche avere la possibilità di tirare il freno a mano quando è necessario».

La seconda critica di Quagliariello al disegno di legge sulle autonomie riguarda la mancata revisione delle 23 materie che la riforma costituzionale del 2001 aveva definito «devolvibili» alle Regioni su loro richiesta. Che ne pensa?

«Ci sono stati due tentativi di riforma della Costituzione che andavano in parte in questa direzione, nel 2006 e nel 2016, ma entrambi sono stati bocciati dagli italiani. L'esigenza di ripensare quelle 23 materie c'è, ma è chiaro che per toccare un tema così delicato come la ripartizione dei poteri devi trovare un'intesa in Parlamento più ampia. È quello che è mancato finora. L'auspicio di Quagliariello, che sento di fare mio, è che tutte le parti politiche capiscano che questa Costituzione ha bisogno di un forte tagliando e che però questo va fatto con uno approccio non di parte, ma con un vero spirito costituzionale che persegua l'interesse di tutti».

Questa riforma è un pegno che Fratelli d'Italia, partito di governo e dalle profonde convinzioni patriottiche, paga alla Lega?

«Non so, ma di sicuro trovo strano il fatto che si affidi la controparte al medesimo partito. Se Zaia chiede più poteri per il Veneto, fa il suo lavoro. Se assegniamo ad un leghista che la pensa esplicitamente allo stesso modo il compito di trattare, andiamo per definizione fuori strada».

Si potrebbe dire che l'arbitro è venduto.

«Sì. L'equilibrio lo trovi affidando la trattativa ad un arbitro che non sia tifoso. Calderoli è un ministro italiano che in quanto tale deve garantire tutti. Non può partire dall'idea che Zaia abbia ragione. Quando nel governo Conte I si decise di andare avanti con l'autonomia differenziata, il ministro Stefani era veneto e leghista, e i Cinquestelle, che avevano il sottosegretario, scelsero per trattare uno della Lombardia che aveva firmato con Maroni la richiesta per l'autonomia. Quindi le controparti erano tutte convinte che fosse giusto attuare quel progetto. Un Paese così è ridicolo. Se l'Italia deve ripensare sé stessa, deve farlo con il massimo dell'equilibrio possibile».