Giaquinto, da 0 a 100 in vent'anni: «Guardare il mondo restando a Napoli, io ci sono riuscito»

Il giovanissimo manager di Megaride, che lavora con le principali scuderie di F1 e MotoGP: «Fondamentale saper vedere l'orizzonte, di fronte al mare è più facile»

di

Una carriera fulminante come l'accelerazione di una monoposto di Formula 1. Edoardo Giaquinto aveva poco più di vent'anni quando qualche anno fa si è ritrovato catapultato come una specie di alieno venuto dalla Generazione Z tra gli azzimati signori che popolano la galassia industriale della sua città. Un allungo da record che lo ha portato lontano, sì, ma solo con le ambizioni. Perché Edoardo, tenendo fede al suo proposito, non si è mosso dalla sua terra.

Il suo sogno a chilometro zero, infatti, lo ha cesellato con un'operosa ostinazione che lo ha accompagnato sin da piccolo: «Mio padre mi diceva che prima o poi probabilmente avrei dovuto lasciare Napoli, ma io non ci pensavo proprio», ricorda. Oggi, a 25 anni, è il market manager di Megaride, una Srl concepita nel grembo dell'università Federico II che sviluppa software per la simulazione del comportamento degli pneumatici, collaborando con le più prestigiose scuderie di Formula 1 e di MotoGP.

Figlio di una funzionaria di banca e di un imprenditore, Edoardo marcia spedito verso il traguardo della laurea in Economia e intanto continua a raccogliere successi con l'impresa che, benché giovanissima, è già diventata un caso-studio in molte università, coniugando strategie globali e radici identitarie. Non a caso, era lui il più giovane tra i relatori del convegno promosso dall'Acen il 26 novembre scorso con l'intento di indagare le condizioni che possono rafforzare l'ecosistema dell'innovazione in città, consolidando le relazioni tra il mondo della ricerca e il sistema delle imprese.

Ha sempre avuto le idee chiare sul suo futuro?

«Sì, ho sempre pensato che volevo restare a Napoli per fare la differenza qui: quando ero alle scuole medie mio padre mi preparava all'ipotesi di dover lasciare la mia terra per necessità lavorative, ma io rifiutavo sempre quella prospettiva. Vivo nei Campi Flegrei, un contesto per me estremamente stimolante che mi garantisce una qualità di vita alta alla quale non volevo rinunciare. Volevo fortemente restare qui. Mi ero prefissato questo obiettivo, sapevo che in qualsiasi modo ci sarei riuscito».

Alla fine ha avuto ragione. Come ha fatto a dare concretezza al suo sogno?

«Mi sono trovato in una condizione di vantaggio, ma me la sono anche cercata. Iniziata l'università, ho avuto l'opportunità di entrare a far parte delle associazioni studentesche, da qui il passaggio nel gruppo di Megaride. Sono quelle cose che ti accadono nella vita un po' per caso, perché io non ero un appassionato di motorsport, Formula 1 e MotoGP, e tuttora non lo sono, come non lo sono tanti nella nostra azienda. Paradossalmente, però, riusciamo a lavorare bene proprio perché guardiamo le cose con la giusta distanza e con maggiore lucidità. La comunicazione e lo sport, però, sono le mie due più grandi passioni, e in questi ambiti ho trovato la mia realizzazione. Intanto proseguo i miei studi in Economia, affiancando il percorso accademico a quello tecnico e applicativo».

Che cosa fa nello specifico Megaride?

«Sviluppiamo modelli di interazione pneumatico-strada. I team Motorsport, le aziende che producono auto, i dischi dei freni e altre parti meccaniche hanno strumenti da decine di milioni di euro con i quali simulano i comportamenti del veicolo e di ogni sua parte. Tra queste parti ci sono gli pneumatici. Il nostro obiettivo è quello di simulare in dettaglio, grazie ai software che sviluppiamo, il loro comportamento in ambienti virtuali: il riscaldamento, l'usura, l'aderenza al fondo stradale. Con Vesevo, un'azienda che abbiamo creato, abbiamo creato invece un hardware che monitora lo stato degli pneumatici direttamente in pista».

Lavorate con grandi marchi come Ferrari, Maserati, Ducati, Lamborghini. Sono risultati che non ci si aspetta da un'azienda nata appena sei anni fa e per giunta nel Sud Italia.

«Megaride oggi è una piccola holding del trasferimento tecnologico: abbiamo fatto nascere tre nuove società, e nel 2021 abbiamo acquisito uno spin-off dell'Università di Pisa nella quale lavorano ragazzi del gruppo di ricerca di Dinamica del veicolo, all'interno del Dipartimento di Ingegneria Industriale. Io sono il marketing manager del gruppo, e con altri giovani mi occupo delle attività di disseminazione di questi brand, un obiettivo per noi estremamente interessante. Fin dal primo momento abbiamo voluto puntare ad un contesto internazionale, raccontando Napoli in una chiave globale».

Si fa fatica a pensare che a Napoli si possano raggiungere simili livelli di eccellenza: questo successo suscita stupore intorno a voi?

«Sì, quando ci raccontiamo c'è sicuramente tanto stupore, a volte anche troppo. Siamo un gruppo giovane, con un'età media intorno ai 35 anni, e soprattutto nei contesti cittadini a volte è difficile far passare il messaggio che tutto questo è alla portata di tutti, che abbiamo la nostra sede a Città della Scienza, non a Cupertino, a San Francisco o a New York. Ma c'è stupore anche da parte nostra, quello che chiedo sempre ai ragazzi di non perdere mai: dobbiamo conservare quella passione iniziale che ci deve portare ogni giorno a pensare che sia il primo».

Qual è il segreto per raggiungere questi risultati?

«È stato determinante il fatto che l'idea sia nata da un contesto accademico. Io mi occupo di comunicazione, e non posso non dire che il brand Federico II ha un appeal internazionale: è un brand con un valore percepito, soprattutto all'estero, di livello altissimo. Non tutti, soprattutto qui a Napoli, se ne rendono conto. Questo ci ha favoriti non tanto per i contatti diretti quanto per il valore che si riesce a raccontare. I nostri sono ragazzi che vanno all'università, a un certo punto riescono ad emergere e iniziano un percorso di tesi con noi. Alcuni fanno il dottorato prima di entrare in azienda, altri passano direttamente dalla tesi all'azienda. Sono studenti normalissimi che, trovandosi all'interno di un contesto estremamente stimolante, si ritrovano a dare il meglio. Il nostro è un ambiente di lavoro giovanile, fresco, nel quale nessuno ha obblighi al livello di tempo, nessuno viene monitorato, nessuno deve andare in ufficio: se vuoi, puoi lavorare al mare, in un bar o a casa. Garantire a tutti una qualità della vita alta per noi è una necessità, una priorità».

Come è iniziata questa avventura?

«Tutto è nato per iniziativa dei tre soci fondatori, Flavio Farroni, Aleksandr Sakhnevych e Francesco Timpone, tre professori del Dipartimento di Ingegneria Industriale della Federico II, ai quali dopo poco ci siamo aggiunti io e altri due ragazzi, che siamo i manager del gruppo».

Oggi quante persone conta il vostro organico?

«Contemplando anche le società e i dottorandi del gruppo di ricerca di Dinamica del veicolo, il gruppo Megaride è composto da una cinquantina di persone. Adesso è tutto molto diverso: abbiamo un reparto marketing, un reparto commerciale, non siamo più una startup».

Quanto è "smart", quanto è moderna Napoli?

«Penso che abbiamo intrapreso una fase nuova, una fase di ricostruzione. Tutto quello che sta succedendo intorno a me mi fa mi fa pensare che siamo in un momento di rinnovamento, votato ad un'internazionalizzazione della città. Veniamo da un periodo buio in cui Napoli è stata al centro di vicende e di racconti non sempre positivi, questo non possiamo nasconderlo. Ricostruire significa anche dare il tempo a chi governa la città per ricostruire dalle fondamenta».

Per diventare più smart, Napoli avrebbe bisogno di più giovani nelle posizioni direttive?

«C'è ancora tanto da fare e da dimostrare in questo senso. Ancora non si riesce a garantire ai giovani una libertà di azione, ma sono ottimista. Insieme a tante altre aziende e all'amministrazione ci stiamo impegnando tutti per questo obiettivo. Realtà come Megaride oggi danno l'opportunità ai ragazzi napoletani di restare, di investire e crescere qui e allo stesso tempo di beneficiare delle opportunità che una città come Napoli offre. Una su tutte, il mare: noi che viviamo qui sembra scontato, ma quell'affaccio garantisce un'apertura che altrove non è possibile. Se ci pensiamo, la costruzione del nostro benessere sta nella capacità di vedere l'orizzonte».

Su quali leve bisogna agire per rendere la città più moderna?

«La mobilità e la capacità di attrarre e accogliere giovani da altre città. Da una parte bisogna rendere i trasporti pubblici più efficienti e dall'altra favorire una continua osmosi tra le nostre università e le università estere e, di conseguenza, una contaminazione positiva. Significa darci un affaccio internazionale, garantire che i ragazzi crescano sempre più con una visione internazionale, restando però a Napoli. L'apertura della sede della Federico II a New York con il professor Ventre, alla quale ho partecipato con una piccola delegazione di studenti, va in questa direzione».

Il turismo può rendere Napoli più intelligente o rischia di banalizzarla, di rubarle l'anima, come sostiene qualcuno?

«Il rischio c'è. Abbiamo visto casi di città risucchiate dai flussi turistici, ma averne la consapevolezza è già una cosa importante, aiuta ad arginare questo pericolo. Dobbiamo essere, appunto, intelligenti. È chiaro che il turismo è una leva, ma deve servire a portare qui turisti che poi tornano non solo per scopi turistici, magari per creare una fiera, per portare investimenti».

Qual è l'anello mancante per rendere più efficace la connessione tra il mondo della ricerca e quello delle imprese?

«Il problema c'è, ma non credo che si possa avere un contatto diretto tra ricerca e mondo industriale. Per la nostra infrastruttura sociale, abbiamo bisogno di intermediari che favoriscano il dialogo tra queste due parti. Penso, ad esempio, alle Academies come quella di Apple e alle associazioni studentesche, che se sono ben strutturate sono molto utili a guidare gli studenti che all'inizio del loro percorso, a 18-19 anni, si ritrovano disorientati in aule da centinaia di ragazzi. Attraverso le associazioni, si ha anche la possibilità di dare sfogo alle proprie passioni, alle proprie capacità tecniche».