I rischi della retorica partecipativa

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Saggiamente Bruno Discepolo mette in guardia dal rischio che i processi auspicati di democrazia partecipativa si riducano a “un rito retorico e autocelebrativo”. E ricorda anche, con una goccia di malizia, come le politiche urbanistiche dall’alto abbiano prodotto in passato risultati di tutto rilievo . Ma, d’accordo, i tempi sono cambiati, sono cambiati i rapporti tra centro e periferie, si è usurata per mille motivi la legittimazione di Stati e governi nazionali. Ben venga, quindi, la democrazia partecipativa. E tuttavia alle cautele di Discepolo ne vanno aggiunte, forse, alcune altre. Le enumererò schematicamente.

Il rischio dell’informalità . Un problema che avverto in via preliminare riguarda le procedure di formazione di una volontà popolare. Mi chiedo come concretamente si possano definire e organizzare i passaggi della democrazia partecipativa. Non in astratto, ma qui e ora, in un paese come il nostro e in una città come Napoli che hanno assistito nell’ultimo quarto di secolo alla crisi profonda (e, si direbbe, irreversibile) degli istituti di intermediazione. In cosa consiste una volontà popolare che emerga in modo sostanzialmente atomistico?

Il rischio della demagogia . Ma mi chiedo anche se mai ci potremo fidare (uso uno slogan e me ne scuso) delle assemblee di popolo. Luoghi magari, in qualche modo, strutturati e formalizzati, ma pur sempre -immagino e temo- teatro di tensioni e pulsioni non adeguatamente ragionate, di conoscenze eclettiche o di non-conoscenze, dunque di deliberazioni approssimative. Il cui solo elemento legittimante sarebbe perciò la loro (supposta) rappresentatività universale. E immagino e temo, non di meno, l’ampio spazio di suggestione che su simili luoghi/teatri potrebbe esercitare un leader carismatico.

Il rischio della comunità decidente . Infine, e non suoni contraddittorio, mi chiedo fino a che punto sia attendibile, ai fini del bene generale, la decisione elaborata nel seno di una singola comunità. Penso ovviamente agli infiniti sperperi, alle miopie, agli illegalismi che l’autogoverno ha comportato (e comporta) in questo paese. E in particolare nel Mezzogiorno. La cui storia (e attualità) è fatta anche da comunità che distruggono le proprie risorse ambientali, che praticano l’abusivismo edilizio, che erodono passo dopo passo i loro contesti idrogeologici, che bloccano grandi infrastrutture intercontinentali per difendere qualche decina di ulivi (ma poi lasciano che il proprio patrimonio ulivicolo venga distrutto dai parassiti, che sono figli dell’abbandono o della cattiva cura delle terre). O che consentono allo stravolgimento di un “monumento” culturale e paesistico unico al mondo come il lungomare Caracciolo.

Sono i dubbi polverosi di un conservatore? Di uno statalista del secolo scorso? Ahimè, può darsi.