I Ruderi come metafora del Centro Storico

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«Quattromila vani che si possono recuperare in pieno centro cittadino. Sono contenuti in 149 ruderi censiti dal Comune di Napoli dei quali 109 da destinare a residenze […] e altri 40 ad attrezzature pubbliche […] una movimentazione di denaro che sfiora i 500 milioni di euro». 

Così scriveva il Corriere del Mezzogiorno del 15 giugno 2005, ad un anno dall’approvazione della Variante Generale al PRG, presentando le opportunità offerte dalla ricostruzione di edifici ridotti a ruderi o sedimi liberi dai furiosi bombardamenti del 1943, dai cedimenti dovuti a dissesti, dalle demolizioni seguite ad ordinanze sindacali.

A distanza di 15 anni, l’evidenza dei fatti si è incaricata di ridimensionare i toni eccessivamente enfatici di quell’articolo. Distribuiti sull’intera superficie dell’ipertrofico Centro Storico napoletano, i Ruderi[1], si radunano fatalmente nelle zone più antiche della città dove il crollo è solo l’esito di un processo di degrado progressivo.

Quelli imprevedibili, nascosti tra le pieghe di Posillipo, di Chiaja, del Vomero, fino agli spalti panoramici della collina di S.Martino hanno trovato più rapidamente lo slancio per risorgere dalle proprie rovine. Spinti dagli elevati valori immobiliari e dalle migliori condizioni al contorno non sono, tuttavia, sfuggiti ad ostacoli tecnici e burocratici.

Primo fra tutti, il sofferto avanzamento delle istanze dovuto alla prescrizione del ripristino filologico la cui minuziosa osservanza, nel linguaggio e nella riproposizione di tecniche e materiali, ha raggiunto il culmine nella vicenda dell’edificio di salita Arenella ampiamente documentata nel n° 4 del dicembre 2005 della «Rassegna ANIAI» diretta da Alessandro Castagnaro. 

Un iter faticoso e bizantino per calare, in una zona densamente urbanizzata nel secondo dopoguerra, un edificio settecentesco demolito da 40 anni, anonimo negli stilemi e nelle forme, ad essa del tutto estraneo quanto una bizzarria decostruttivista nel Centro Antico.

La realtà è che manca una qualità diffusa dell’edilizia sul territorio che faccia da sfondo adeguato a questi interventi, per loro natura episodici, che non sia l’anonima espansione o la stratificazione che alla storia secolare sovrappone una sguaiata insegna pubblicitaria.

Se la regola è l’assordante “rumore di fondo” prodotto da contesti preda del disordine, anche la vexata quaestio della legittimità dell’intervento moderno nell’antico, diventa, a nostro avviso, un problema secondario.

La decisione assunta dal Comune nel 2009, di destinare ad attrezzature pubbliche i restanti immobili privati non cantierati a cinque anni dalla data di approvazione della Variante Generale al Piano, ha complicato ulteriormente un quadro già molto problematico.

Da una parte, ha consentito ai proprietari di mantenere il possesso dell’immobile vincolandoli a realizzare quelle attrezzature assoggettate all’uso pubblico di cui la città ha estremo bisogno. Dall’altra, ha diminuito il potere di seduzione su eventuali promotori deludendo le aspettative di trarre un ragionevole profitto da iniziative tortuose e dall’incerta ricaduta economica.

Il complesso iter di un progetto architettonico, dai saggi all’approdo in cantiere, raramente dura meno di 5 anni. In particolare, se ostacolato dalle difficoltà opposte dalla normativa e da un contesto poco ospitale come quello del Centro Storico, che detiene, con la Sanità, il non invidiabile primato della concentrazione di Ruderi.

E dove, malgrado tutto, sono stati realizzati alcuni interventi come la struttura polifunzionale di via Palazziello a S.Chiara o il recupero degli edifici di via Olivares alle spalle della Marina.

In contesti abbandonati a se stessi per decenni, sono invalse modalità di autogestione più o meno lecita degli spazi, che hanno trovato un assetto favorevole alla conservazione e refrattario alla trasformazione.

Pensiamo, in particolare, all’utilizzo delle aree libere come spazi di sosta per le auto e all’ ostacolo che si oppone con maggiore frequenza: la ricostruzione parziale dei piani terra. La complessità nella ricostruzione dei Ruderi trova effetti paradossali in un ambito urbano dove l’estrema fatiscenza delle costruzioni è testimoniata dal recente crollo del cinema Vesuvio: gli isolati a “pettine” del Lavinaio che occupano il sedime lasciato libero dall’ampliamento delle Mura Aragonesi. 

Alcuni di questi edifici flagellati dalle superfetazioni e sorprendentemente esclusi dall’inserimento in Piani Particolareggiati, sono danneggiati da gravi lacune: vuoti all’interno dei corpi di fabbrica o rovina delle testate. Secondo un’interpretazione letterale della norma in vigore, le testate o i vuoti di questi edifici residenziali potrebbero essere ricostruiti e destinati ad attrezzature pubbliche. Con quali esiti architettonici è difficile immaginare.

Si tratta, certo, di situazioni estreme, ma, a loro modo, esemplari dell’impianto normativo che disciplina gli interventi nel Centro Storico. Normativa che rende pressocché impossibile effettuare interventi di sostituzione edilizia del tessuto esistente come è stato opportunamente ricordato da Federica Brancaccio. La rigida disciplina per il Centro Storico, con la classificazione tipologica che distingue edificio per edificio, impedisce quella qualità diffusa del costruito sul territorio che solo il salto di scala dall’intervento puntuale alla rigenerazione di ambiti più o meno estesi può dare.

Ruderi e sedimi, a seconda della loro natura e qualità, potrebbero, al contrario, costituire un’opportunità se venisse varato un quadro di norme più elastico e variegato. Un quadro che, dalle forme d’intervento già previste, dovrebbe aprirsi alla sostituzione in chiave moderna e all’utilizzo delle aree ruderali per innescare interventi di ristrutturazione urbanistica prevedendo nuove funzioni che in futuro comprenderanno anche il social housing.

Compensazioni, premialità, trasferimento di diritti edificatori, potrebbero essere gli strumenti per consentire l’acquisizione almeno parziale di questi immobili al patrimonio Comunale.

L’occasione potrebbe essere colta, qualora ci fosse la volontà, grazie ad una favorevole concomitanza: la nuova Legge Urbanistica Regionale in corso di formazione e la futura redazione del PUC ad opera dell’Amministrazione Comunale.

Gli edifici di qualche pregio, dalla sottostazione elettrica dell’Ente Autonomo Volturno al Ponte di Casanova all’edificio monumentale di via S.Gregorio Armeno, potrebbero essere ripristinati con destinazioni d’uso dai positivi riverberi sui contesti di appartenenza.

Le aree ruderali, su cui prospettano edifici abbandonati, dalla salita S. Antonio ai Monti alla Sanità, potrebbero essere le occasioni per promuovere micropiani di recupero di ambiti urbani dove resistono squarci di poesia da tutelare.

In questo quadro non guasterebbe qualche calcolata eccentricità introdotta dallo strumento del concorso d’idee, come la trasformazione dei telai in cemento armato in giardini pensili, secondo un’ interpretazione verticale del verde come standard.

È tempo di aprire un dialogo che superi antiche diffidenze e veda costruttori, categorie professionali, organi tecnici dell’Amministrazione Comunale impegnati per arginare il degrado del Territorio Metropolitano di Napoli a cominciare dalla sua parte più pregiata: il Centro Storico.

[1] L’utilizzo della maiuscola vuole distinguere i Ruderi sottoposti alla disciplina dell’Art.125 delle Norme d’Attuazione -  Parte II - Disciplina del centro storico della Variante Generale al Piano Regolatore di Napoli, da quelli relativi al vocabolo di uso corrente.