Il ponte incompiuto

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per gentile concessione di “la Repubblica  Napoli” pubblicato il 15 gennaio 2022

Tra via Jannelli e via San Giacomo dei Capri c’è un moncone di ponte che si solleva sui piloni come un catafalco e termina in un groviglio di fogliame e rovi. Il Rione Alto ha una storia di speculazione che ebbe il suo culmine negli anni Sessanta quando superato il vincolo di inedificabilità intorno all’ospedale Pascale furono realizzati dodicimila alloggi. La costruzione del ponte fu avviata negli anni Ottanta, ma venne presto interrotta e non se ne conoscono fino in fondo le cause, resta in piedi il precario testamento di una stagione di politica scellerata. Il territorio della Campania è disseminato degli sprechi di quegli anni come relitti in un paesaggio dell’abbandono. Nelle campagne tra i boschetti di pioppi sottili e ondeggianti, le viti maritate e i campi di granoturco, ci si imbatte spesso in pezzi di viadotti che finiscono nel nulla o edifici perlopiù pubblici apparentemente finiti e mai andati in funzione o scheletri invece mai ultimati. Più sorprendente trovarne nella città. È il ponte che avrebbe dovuto collegare via San Giacomo dei Capri con via Jannelli, era una buona idea per ridurre il traffico ma la sua corsa finisce nel vuoto. Ennesima occasione perduta di una terra che ad ogni ipotesi di svolta ha visto abortire la possibile emancipazione. E se ne sente in colpa, tanto da rimuovere dai propri intenti la riconversione in opere funzionanti e collettive. Il luogo è inaccessibile, incombe come uno dei troppi “eco mostri”, eppure nascono suggestioni dalla visione malinconica di una rovina di tipo post industriale. E anche dall’ecosistema verdeggiante cresciuto naturalmente negli anni dell’incuria. Avrei voluto usare la parola “bellezza” ma conosco il pericolo pornografico di intravederne l’esistenza nel degrado, eppure so che resiste latente e in attesa. Viene subito in mente la celebre District Line progettata dagli studi Corner Field Operations e Diller Scofidio + Renfro che innesta tra i grattacieli di West Chelsea a New York un parco lineare lungo un chilometro e mezzo sul sito di una ferrovia soprelevata nata per il trasporto merci e poi andata in disuso. Grande differenza di scala e geografia, ma anche punti di contatto nelle ragioni di un’idea. Ci sono stato qualche anno fa, una giornata di sole pallido e una passeggiata incuneata tra i palazzi fino alla svolta che offre la visione completa delle acque dell’Hudson. Una guida diceva che per i nativi era “il fiume che fluisce nelle due direzioni” per le correnti che vanno verso l’oceano e verso al terra. Piattaforme in cemento ricoperte di vegetazione e panchine in legno che si sollevano dal suolo, parco, agricoltura e architettura si susseguono, la gente cammina in equilibrio sulle rotaie dismesse. Un luogo dalle due facce, tranquillo e solitario nelle ore di punta, pieno di gente quando i newyorchesi dopo il lavoro vi si riversano, quasi la replica pedonale degli ingorghi stradali. La soprelevata finisce di botto a pochi passi dal Whitney Museum of American Art progettato da Renzo Piano e realizzato nel 2015, otto piani di volumi asimmetrici rivestiti di pannelli metallici e superfici vetrate, le bandiere di Jasper Johns fissate alle pareti delle sale espositive mentre fuori sventolano ai pennoni sul fiume. Tutt’altra storia a Napoli, soltanto centocinquanta metri di asfalto per dodici, tredici di larghezza della carreggiata. Una sosta più che un percorso. Mi ritrovo a pensare che non è necessario abbattere nulla ma è meglio riscrivere progetto su progetto un palinsesto dove non si perdono le tracce. E così mi ritrovo davanti a visioni di un futuro possibile. Il quartiere dotato di uno spazio pubblico, spazi verdeggianti, prato, boschetto, campo dei fiori, orto; un verde amico, che non ti fa starnutire, riconoscibile come il mirto e il ginepro delle nostre falesie. Che sappia offrire la scoperta di punti di socialità dove sostare, riunirsi, muoversi, osservare, occhi puntati sulla città e il mare là in fondo, sulla High Line una grande cornice panoramica sul bordo inquadra la città e dalle strade di sotto si guarda ad essa come a un grande cartellone vivente. Non c’è paragone con Napoli, almeno questo. Luoghi destinati a spettacolo, performance artistiche, sport. Uno spazio “teatrale” che continuerebbe a rappresentare la propria origine ibrida tra reperto di degrado e nuova destinazione. Uno spazio accessibile, sicuro e visibile a distanza come i campanili nelle piazze o gli alberi delle barche nei porti. Tecnologicamente avanzato, autosufficiente, in rete. Uno spazio dove ritrovare architettura e natura senza che nessuna abdichi all’altro. Moderno, nel senso della misura e dell’assenza di colpi ad effetto. Un progetto non si può raccontare, bisognerebbe farlo.