Il regista Andò: «Folle aprire le discoteche e chiudere i teatri». E rilancia: «L'Italia investa di più sulla cultura»

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Il fuoco della protesta ardeva alla stessa temperatura della passione, ma si è spento a poco a poco. L'indignazione, tuttavia, cova ancora sotto la cenere della rassegnazione. A bruciare è una discrasia che agli artigiani della cultura appare inaccettabile. «Se la situazione è così allarmante, perché il governo non ha chiuso tutto? Perché non è intervenuto anche sui trasporti, per non parlare dei centri commerciali, delle partite di calcio e delle messe? Perché quando la situazione era ancora favorevole non ha interdetto l'uso delle discoteche? I teatri e i cinema, come le scuole, stazioni di civiltà e luoghi sicuri (dove cioè non ci sono assembramenti e non si sono verificati contagi), stanno pagando oggi il conto per chi ha lasciato che orde di incoscienti trascorressero le notti di questa folle estate al Billionaire».

Con queste parole si esprimeva il 3 novembre scorso sulle pagine del settimanale "L'Espresso" il regista Roberto Andò, chiamato a dirigere un anno e mezzo fa il Teatro Stabile di Napoli. Un mese e mezzo dopo, quel furore rovente si è affievolito in un tiepido rammarico lenito, in mancanza di alternative, dalla pazienza e dalla speranza. È un'attesa dolorosa, però. L'attesa di un domani migliore che il virus sposta ogni giorno più in là. E che ha il sapore di una promessa fatta a sé stessi per mettere una sordina all'amarezza.

Direttore, due mesi fa, il 14 ottobre, si sarebbe dovuta inaugurare la prima stagione del Teatro Nazionale di Napoli firmata da lei, con grandi ritorni tra i quali spiccavano i nomi di Toni Servillo e Renato Carpentieri. Poi sono arrivate le chiusure.

«Siamo riusciti a mettere in scena lo spettacolo inaugurale, "I manoscritti del diluvio", al Mercadante, e il debutto al San Ferdinando con "Tavola tavola, chiodo chiodo" (tratto da appunti, articoli, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo, ndr). Abbiamo fatto tre o quattro recite, poi è arrivato lo stop. Ma quella decisione era nell'aria e non si è fatto nulla per impedirlo. Stiamo pagando il prezzo dell'apertura delle discoteche in estate».

Nei mesi scorsi si sono susseguiti diversi appelli, anche molto autorevoli, in difesa degli spazi culturali. Il maestro Riccardo Muti, in una lettera aperta indirizzata al presidente del Consiglio, ha scritto che «l'impoverimento della mente e dello spirito è pericoloso e nuoce anche alla salute del corpo». Lei che cosa ne pensa?

«La mia opinione resta quella che ho scritto su L'Espresso. Premetto che non vorrei essere al posto di chi ci governa, perché la situazione é difficile e non si può pretendere il massimo della lucidità, ma ho trovato contraddittorio il dpcm che ha sospeso le attività teatrali. Come ha detto il ministro Franceschini, si vuole impedire la mobilità. Benissimo, allora devi chiudere tutto. Penso anche io che oggi non si possa immaginare che i teatri continuino a funzionare, ma intanto sono rimaste aperte altre attività molto più pericolose. Insomma, ci vuole un criterio oggettivo che non ho visto».

L'Agis, intanto, ha protestato per le chiusure, sostenendo che cinema e teatri sono luoghi sicuri e che la loro chiusura è ingiustamente punitiva. E anche lei ha parlato di sale «che ormai sono i posti più sicuri al mondo con protocolli severissimi che puntano alla massima sicurezza del pubblico presente».

«Due mesi fa la chiusura dei teatri è sembrata un gesto ingiusto, in relazione a tutto quello che era stato speso per dare sicurezza agli spettatori. Ma le cose sono cambiate: i dati dei contagi sono saliti, siamo entrati in un momento molto diverso. A quel punto non si poteva far altro che fermarsi. Sarebbe stato da pazzi continuare a dire che bisognava stare aperti. D'altra parte, comunque gli spettatori a teatro non ci andrebbero. Si pone, però, un'altra questione: chi fa un lavoro discontinuo, come tutti quelli collegati al teatro, al cinema e alla musica, non ha tutele. Il problema è questo: in Italia non c'è una legislazione che tuteli il lavoratore intermittente come in altri Paesi. In Francia, ad esempio, si è fatta una grande battaglia, che i lavoratori hanno vinto, ottenendo una compensazione dignitosa. Da noi nessuno ha mai messo mano a questo tema. Sarebbe ora di farlo».

Anche per il teatro è un momento di sofferenza. A quanto ammontano le perdite del comparto?

«Il comparto del teatro in Italia coinvolge circa 300mila lavoratori, ai quali vanno aggiunti tutto l'indotto e i mancati introiti. Noi, come teatri pubblici, ci siamo posti il problema di continuare l'attività finché è stato possibile, perché la funzione pubblica ha il dovere di offrire anche in un periodo di crisi, per quello che può e come può, la creatività teatrale al pubblico. Adesso ci siamo fermati, ma comunque stiamo lavorando per il futuro. Stiamo continuando a fare prove per gli spettacoli di nostra produzione, di modo che possano essere pronti quando si ripartirà».

Il Napoli Teatro Festival ha pubblicato online alcuni spettacoli già andati in scena, il San Carlo propone concerti in streaming, il Bellini con "Zona rossa" lascia che una telecamera connessa al web osservi il processo creativo, voi stessi avete reso disponibili online i video-interventi del ciclo "Diario della quarantena". Ed è solo la punta dell'iceberg. La dimensione virtuale può aprire le porte ad un nuovo segmento di mercato?

«Questo è un aspetto rituale. Appena si chiudono i teatri, ormai, si lavora sul web. Nei giorni scorsi, la Rai ha ripreso lo spettacolo "Piazza degli eroi" (dal celebre testo di Thomas Bernhard, per la regia dello stesso Andò, ndr) per mandarlo in onda nei prossimi mesi. Ma è chiaro a tutti che il teatro è una cosa diversa, che si svolge nei teatri e con il pubblico. Questo si fa poiché stiamo vivendo una cosa eccezionale, mai vissuta prima. Non è altro che un modo per mantenere un filo teso col pubblico. Noi abbiamo messo sul sito dello Stabile spettacoli di archivio perché un giovane che magari non li ha visti possa fruirne. Certo, non è la stessa cosa: uno spettacolo mandato in streaming o in tv non può essere sostitutivo dell'esperienza in teatro, inutile anche parlarne».

Se guarda al futuro del settore, prevale la speranza o l'angoscia?

«Il futuro devo per forza immaginarlo con speranza. Dobbiamo augurarci che prima o poi si potrà riprendere una vita normale. Ma accanto alla speranza c'è l'angoscia, perché il virus ora c'è ed è una minaccia effettiva».

Questa pandemia determinerà un nuovo ordine mondiale anche per la cultura? Magari, come qualcuno auspica, un salto di qualità?

«Dipenderà da come la vivremo. Io penso che alla fine di tutto questo ci sarà una grande festa dell'umanità, che ha una gran voglia di tornare alle modalità di relazione consuete. E penso che ritornerà una grande voglia di consumare teatro, cinema e musica dal vivo. Questa assenza così prolungata ci ha fatto capire l'importanza di andare con la mente altrove, di immaginare un "io" diverso».

Intanto, lei ha finito le riprese del film "Il bambino nascosto", con Silvio Orlando, tratto dal suo romanzo omonimo. Quando uscirà?

«Abbiamo finito le riprese un paio di mesi fa, ma proprio non so immaginare una data di uscita. Nanni Moretti ha girato un film che doveva presentare a Cannes a maggio e non ha idea di quando uscirà. Dunque...».

Intanto, sul fronte cinematografico si sta sviluppando molto il "delivery" dell'intrattenimento: tramite gli operatori digitali, il film viene servito a casa, come fosse una pizza. La considera una prospettiva interessante?

«Quella delle piattaforme online è una realtà. Anche io sono un grande fruitore dei contenuti sulle piattaforme digitali, ma mi auguro che le due modalità di fruizione, quella casalinga e quella delle sale, possano convivere. Penso che bisogna fare di tutto per aiutare gli esercenti: il cinema è quello che si vede in sala. Per questo, mi auguro un grande ritorno. Altrimenti significherà che la pandemia avrà semplicemente accelerato il processo di desertificazione delle sale che era già in corso, e questo non mi piacerebbe».

A marzo, come portavoce dell'associazione 100autori, aveva avanzato delle richieste al premier Conte. È soddisfatto per le misure a sostegno del comparto contenute nel Decreto ristori?

«Il presidente del Consiglio ha fatto quello che ha potuto. Sicuramente ha dato una mano, soprattutto al cinema. Ma si può fare di più. Come suggerivo nell'articolo che ho scritto per L'Espresso, essendo Franceschini, oltre che ministro della Cultura, un membro autorevole del governo e il capo-delegazione di un partito di maggioranza come il Pd, si dovrebbe passare ad un livello diverso, avvicinando l'investimento complessivo sulla cultura a quello di altri Paesi europei. Aumentare di molto quelle cifre avrebbe un significato notevole, perché l'Italia "è" la cultura».

La politica, secondo lei, ha commesso degli errori?

«Nella prima parte della pandemia, il governo si è comportato molto bene, ma nella seconda si è messo al traino di un'idea diversa: ha smentito se stesso ed è cominciato il solito balletto tra salute e economia. Non c'è stata la determinazione che c'è stata in primavera. D'altra parte, quando in estate dai mandato di aprire le discoteche, con tutto quello che succede nelle discoteche, significa che non hai capito a cosa stai andando incontro. I teatri erano chiusi e le discoteche erano aperte: credo che ogni commento sia superfluo».