L'altra sanità:

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L'accoglienza non fu esattamente delle migliori. Nel 2014, i locali destinati ad Emergency vicino al Parco De Filippo furono dati alle fiamme che i lavori di ristrutturazione erano appena iniziati. Ma i soldati della pace, sostenuti dal Comune, non si arresero: l'ambulatorio aprì un anno dopo nella palazzina accanto alla sede distrutta dall'incendio. Una struttura inutilizzata, assegnata gratuitamente all'associazione umanitaria e che in poco tempo è diventata un rifugio dei diseredati nella giungla suburbana di Napoli Est. Un fiore spuntato dal cemento, tra il Lotto Zero e il Rione Conocal.

Da allora, il poliambulatorio di via Luca Pacioli, a Ponticelli, aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18, ha assistito circa 7000 persone in difficoltà. «Da quando abbiamo ricevuto il ricettario regionale, possiamo prescrivere visite specialistiche e esami strumentali o ematici a stranieri senza permesso di soggiorno e europei senza residenza. I medicinali, invece, li forniamo direttamente qui, in seguito alla visita generica», racconta Andrea Belfiore, che qui coordina le attività per conto dell'associazione umanitaria fondata da Gino Strada.

A differenza di quanto si potrebbe immaginare, però, molte di quelle persone sono italiane. Ovvero, napoletane.

«Quando abbiamo aperto, l'utenza di destinazione era composta soprattutto da extracomunitari, mentre il numero degli italiani si attestava intorno al 6-7 per cento. Un dato che è andato via via aumentando: oggi i nostri connazionali rappresentano circa il 25 per cento dell'utenza totale. Vengono soprattutto dalle zone limitrofe: Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio. Si rivolgono a noi per l'ambulatorio infermieristico e per lo sportello di sostegno psicologico, ma anche per il nostro servizio di orientamento: dove c'è ignoranza e povertà si è più esposti alle speculazioni, che purtroppo anche in ambito medico non mancano. Chi non ha i mezzi per curarsi a volte non ha neanche quelli culturali per compilare moduli e richieste. Così, si perde tra i meandri della burocrazia e non riesce ad accedere a servizi potenzialmente disponibili. Noi li aiutiamo a districarsi tra le carte, diamo loro consigli su come muoversi e dove andare per evitare fregature. In Italia siamo l'ambulatorio con il maggior numero di accessi di italiani (Emergency ne ha un altro a Castel Volturno, ndr). Poi ci sono gli irregolari, che ovviamente non hanno il medico di base».


L'articolo 32 della nostra Costituzione afferma che
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Il vostro osservatorio vi offre una percezione nitida e impietosa della povertà. Quanto è cambiata, rispetto a cinque anni fa?

«Più o meno, le problematiche sono sempre le stesse. Da quando è iniziata questa emergenza, però, si è aperta una voragine. Noi, a differenza degli ambulatori degli ospedali, che sono chiusi e incredibilmente hanno respinto anche pazienti oncologici, siamo sempre stati aperti. Nel nostro presidio sanitario e c'è sempre un infermiere per gli anziani che devono fare una medicazione o un'iniezione. Sembrano cose di poco conto, invece sono fondamentali. Perché prestazioni del genere, che le persone sono abituate a pagare, incidono molto sul bilancio di una famiglia che già ha difficoltà economiche. C'è chi deve fare medicazioni anche tutti i giorni per un mese e prende 500 euro di pensione. Considerando che per una medicazione un infermiere può prendere anche 40 euro, è facile immaginare la disperazione. Qui, inoltre, le fasce deboli trovano poca burocrazia, poca attesa e professionalità. Il Covid-19, però, ci ha costretti a disincentivare la presenza fisica, sostituendola con una modalità di visite telefoniche che sta funzionando bene».

Come funziona in questo periodo l'accesso all'ambulatorio?

«Fuori dalla struttura abbiamo una sorta di triage: consegniamo ai pazienti delle schede da compilare con generalità, sintomi e patologie. Poi, un medico misura la temperatura: chi ha tosse e febbre non può accedere in ambulatorio».

Avete avuto pazienti positivi al Coronavirus?

«Attualmente abbiamo una ventina di sospetti contagiati, che monitoriamo chiamandoli a casa ogni giorno per sapere come procede. In una quindicina di casi abbiamo interessato la Asl Napoli 1, che ha inviato l'unità mobile per il tampone a domicilio. Sette sono risultati positivi».

Il vostro carico di lavoro si è aggravato?

«Le procedure che ho descritto implicano un grosso sforzo organizzativo: predisporre il monitoraggio dei sintomi e fare visite telefoniche non è semplice. In più, andiamo nei campi rom e negli insediamenti informali».

A voi si rivolgono anche i senzatetto?

«Sì, ce ne sono molti, anche italiani. Ma il confine è labile: spesso quella del senza fissa dimora non è una condizione stabile».

La vostra navetta, che gira per offrire assistenza sanitaria ai più svantaggiati, è rivolta anche a loro.

«Sì, prima ci limitavamo al monitoraggio sanitario. Ora, dall'inizio dell'emergenza sanitaria, c'è sempre un medico a bordo. Gli orari sono quelli di sempre: 9.30, 12.30 e 14.30 con partenza in via Firenze, nei pressi della Stazione Centrale di Napoli, e tappe al campo rom di Gianturco e alla mensa del Carmine. Ma assistiamo anche persone per strada: chi sa che la nostra unità mobile passa in quegli orari, si fa trovare lungo il percorso. Forniamo medicine per patologie croniche, ascoltiamo, facciamo una valutazione partendo da ciò che si vede. In questo momento è il massimo che si può fare».

Chi sostiene che nelle periferie il rischio contagio del virus è più alto ha ragione?

«In un certo senso, no. Qui le strade sono grandi, il distanziamento sociale è facile. Il rischio maggiore è negli insediamenti informali: campi rom, baraccopoli, strutture abbandonate e occupate. Qui la promiscuità e le condizioni igieniche sono tali da costituire un serio pericolo. Per questo, stiamo facendo un'attività informativa, anche con dei video realizzati in diverse lingue, sui comportamenti corretti da tenere. Considerate le condizioni estreme di alcuni contesti, in Campania finora siamo stati miracolati. Penso anche a situazioni di sovraffollamento come quelle che si trovano nei "bipiani" di Ponticelli (prefabbricati realizzati per rispondere all'emergenza abitativa seguita al terremoto del 1980, ndr), occupati da persone di diversa etnia: ivoriani, albanesi e napoletani. In posti del genere, un livello di diffusione più alto sarebbe un dramma».