C’è stato un tempo non lontano in cui Napoli, nonostante la sua storia, la ricchezza del patrimonio artistico, la bellezza del paesaggio, era solo una tappa di passaggio. Una sosta obbligata per visitare Pompei, sbarcare sulle isole del Golfo, allungarsi fino a Sorrento o alla costiera amalfitana. Una decina di anni fa, Napoli era ancora dietro Torino e perfino Ravenna per presenze di turisti fra le città d’arte. Aveva un quarto dei visitatori di Firenze e il rapporto tra Venezia e Napoli era di 7 a 1. L’offerta di ospitalità era polarizzata: i grandi e lussuosi alberghi del lungomare; gli spartani due e tre stelle attorno a piazza Garibaldi. Case-vacanze e b&b pressoché inesistenti. Un ostello decadente infilato tra una galleria e una stazione, a rendere difficile per la generazione dei giovani europei visitare la città.
Alla fine degli anni Novanta, Napoli aveva già conosciuto una sua primavera, ravvivata dall’aria di cambiamento, dalle sperimentazioni di arte pubblica, dai primi interventi di rigenerazione urbana, riscoperta dal turismo internazionale alla ricerca di una meta che mescolava ed esibiva con orgoglio le sue radici antichissime e la decisa proiezione verso il contemporaneo. Era una grande promessa, ricacciata indietro dalle guerre di camorra e dalla crisi dei rifiuti. Il 2010 fu il suo annus horribilis. Le presenze turistiche, che avevano sfiorato quota 2,3 milioni nel 2004, piombarono sotto la soglia del milione e settecentomila.
Le ragioni del boom degli ultimi anni, che non solo ha sollevato Napoli verso l’alto nella classifica italiana delle destinazioni più visitate, ma ha trasformato la città in uno degli imperdibili places to go nei giornali di tutto il mondo, sono tante e sono note: non vale la pena ricordarle. Qui è sufficiente osservare che, a differenze di altre success story nel campo del turismo, l’esito è stato determinato da una combinazione quasi perfetta (e in larga misura involontaria) di fattori dal lato della domanda e dal lato dell’offerta, in un gioco di forze in cui l’una ha accelerato l’altra. E perfino l’imprevedibile – lo scudetto del Napoli nel 2023 – ha contribuito alla causa.
I numeri sono impressionanti. Non tanto per le dimensioni in sé, quanto piuttosto per la rapidità con cui la crescita è avvenuta. È stata l’accelerazione, come un fiume in piena, a travolgere gli argini, a determinare una pressione difficile da sostenere e quasi impossibile da governare.
Nel 2023, secondo i dati dell’Istat, poco affidabili perché non in grado di tenere il passo dalla tumultuosa moltiplicazione dei b&b, le presenze in città hanno superato i 3,6 milioni – un milione in più del 2022 –, generate da 1,350 milioni di visitatori, 300 mila in più del 2022. Una stima più verosimile, che tiene conto della trama fittissima di strutture private destinate alle locazioni brevi in città, in un rapporto 10 a 1 con quelle censite dall’istituto nazionale di statistica, fa salire le presenze in città ad almeno 8 milioni. Sopra Firenze, all’inseguimento di Venezia. Gli indicatori di pressione, soprattutto considerando che Napoli è una città “stretta” e che il perimetro interessato è una porzione non molto ampia dell’area urbana, hanno raggiunto i livelli di allarme.
I benefici per l’economia della città in anni di acutissima crisi sono indiscutibili: il turismo internazionale, a maggior capacità di spesa, ha già da qualche anno superato quello domestico; è cresciuta la quota di visitatori motivata da ragioni culturali, come emerge dai dati di lungo periodo sull’affluenza nei principali musei della città; è ben più folta di un tempo la presenza di giovani e giovanissimi viaggiatori, che spesso “ripetono” l’acquisto, svelando un grado di fedeltà che si riscontra in pochissime altre destinazioni in Italia e in Europa; la genesi di una classe di “imprenditori per caso” ha agito come un imprevisto ma provvidenziale ammortizzatore sociale; gli impatti a differente intensità sulla filiera allargata del turismo sono significativi, dalla ristorazione al bike renting, dalle guide agli architetti impegnati in ristrutturazioni e in suggerimenti di interior design. Né è da dimenticare che dimore storiche e b&b di charme, incontrando il gusto e le esigenze di viaggiatori alla ricerca di esperienze uniche e di un’immersione nelle profondità della cultura napoletana, hanno il merito di preservare i caratteri identitari della città, della sua arte e della sua architettura, conservando arredi e preservando quelle atmosfere che, allontanandosi dai canoni standardizzati delle catene alberghiere, contribuiscono a rendere indimenticabile il soggiorno per questo target di visitatori, sempre più ampio, stregato dalla Napoli narrata da Elena Ferrante o Paolo Sorrentino. Tuttavia, a fronte dei vantaggi, gli effetti collaterali sono evidenti, pericolosi – perché vanno a incrinare proprio il quadro di motivazioni a visitare Napoli appena descritto – e non possono essere né cancellati né trascurati dal policy maker. Soprattutto quando rischiano di diventare irreversibili.
Come ricordava a ragione Gabriella Reale nel suo Focus, la maggiore produzione di rifiuti, la rarefazione dello stock immobiliare per locazioni residenziali, con un balzo dei fitti che ha colpito in particolare modo gli abitanti in scadenza di contratto, gli studenti universitari e le giovani coppie alla ricerca di una casa, l’espulsione forzata del commercio di prossimità e dell’artigianato di tradizione, sono dati oggettivi. Si è aperto un chiaro conflitto di interessi tra visitatori temporanei e cittadini permanenti, come ricorda nella sua intervista a Nagorà Gabriella Colucci. La trasformazione del paesaggio urbano è sotto gli occhi dei tanti che attraversano quotidianamente il centro storico. Scompaiono dal fronte strada le piccole salumerie di quartiere, le botteghe artigiane, i negozi di ferramenta, i fiorai, i calzolai, le mercerie. Resiste qualche meccanico, in compagnia di un fabbro, di un falegname e di una minuscola tipografia, nei vicoli più nascosti e fuori mano, per ora (ma fino a quando?) sottratti ai passi frettolosi dei turisti. Resiste, come l’ultimo giapponese in una giungla urbana assediata dallo street food, una meravigliosa liuteria.
Per chi come me per ragioni di lavoro o soltanto per i benefici dell’anima ha sempre adorato camminare nei vicoli senza sole e non violati dalle folle di turisti, inseguendo odori e suoni impensabili nei centri di altre grandi città europee, dal profumo del pane appena sfornato al battere e levare di un artigiano del ferro, è duro ammettere che raggiungere una destinazione scampando alla dittatura del fritto (la “frittatura”) è diventata un’impresa pressoché impossibile (per fortuna c’è ancora qualche itinerario nascosto agli occhi onniveggenti di Google Maps che si condivide solo con gli amici più intimi!).
Alla riconversione visibile dei pianterreni, si accompagna ai piani superiori la rimozione forzata dei vecchi inquilini, rimpiazzati da comitive di passaggio, in un rumoroso processo di “sostituzione etnica” che alimenta una diaspora dolorosa che Maurizio De Giovanni ha definito qualche tempo fa con parole dure: «deportazione». Un processo senza ritorno che conduce inevitabilmente alla perdita della memoria.
E se la saggia decisione del Comune di sospendere le licenze per determinate attività in alcune strade del centro storico rischia di essere aggirata dai comportamenti opportunistici (i giornali di pochi giorni fa raccontavano di imprenditori della ristorazione che acquistano ora per attendere “pazientemente" lo sblocco del 2026), la distrazione del governo nazionale che sarebbe chiamato a disciplinare le locazioni brevi nei centri storici delle città d’arte è vistosa. Il più emblematico è il caso del comune di Firenze, la cui giunta aveva adottato nell’ottobre del 2023 un provvedimento per limitare gli affitti brevi, bocciato pochi mesi dopo dal Tar per un vizio formale, e ora ripresentato e immediatamente oggetto di ricorso da parte di un’associazione di imprenditori del settore.
È uno scenario complesso, dove è difficile identificare un punto di equilibrio che tenga insieme uno dei motori della traballante economia urbana e i sacrosanti diritti dei cittadini ad abitare, a muoversi, a dormire, a non vivere in uno stato d’assedio. Governare il turismo in una città come Napoli è un esercizio complicato, ma è necessario e non più rinviabile, come giustamente ha osservato Lello Cercola. È questione di ripensare la distribuzione dei flussi, così come è indispensabile considerare l’asimmetria sempre più vistosa tra chi beneficia delle rendite associate all’espansione della domanda di turismo e chi invece ne subisce solo gli effetti negativi sulla qualità del vivere in città.
Altre città europee, come Barcellona, hanno adottato misure drastiche, dai limiti agli affitti brevi alle maggiori tasse per i croceristi che si fermano meno di 12 ore in città, sull’onda di proteste popolari contro l’aumento vertiginoso del costo degli alloggi (+68% negli ultimi dieci anni). Nella città catalana è stata perfino cancellata da Google Maps una linea di autobus (il 116) perché ormai i troppi turisti impedivano agli abitanti del barrio di Park Güell di prendere il mezzo pubblico. Ma è stata anche varata una nuova strategia di marketing territoriale, con lo scopo di rivolgere l’offerta della città verso segmenti di domanda più adatti a garantire la sostenibilità della pressione turistica. Al posto del vecchio slogan Visit Barcelona ora c’è un nuovo claim: This is Barcelona, che parla alla comunità e non solo ai visitatori, esaltando la proposta di festival e musei, di architettura e nuove tecnologie, senza neppure l’ombra di una tapa. Vedremo.
In ogni caso, la discussione che si è accesa in città – come sempre tra apocalittici («è in gioco l’identità di Napoli», come se l’identità fosse una pietra scolpita e non una dimensione dinamica che evolve nel tempo) e integrati («il turismo è l’oro di Napoli», senza comprendere i pericoli per la sopravvivenza della specie associati a una monocoltura) – ha avuto un merito innegabile. Si è tornati finalmente, dopo anni di letargo e di cupa rassegnazione al declino economico e alla sfioritura culturale di Partenope, come se fosse un destino immutabile, a riflettere sul futuro della città, sulla sua vocazione, sui percorsi alternativi e sui limiti dello sviluppo, sul suo posizionamento strategico in Italia e in Europa, sulla necessità di una «visione condivisa», come ha scritto Gennaro Biondi. E forse si è compreso come una città che perde inesorabilmente abitanti, anno dopo anno, non potrà mai rinunciare ad avere una sua base industriale, ad alimentare il suo patrimonio di conoscenze, a rafforzare la sua capacità di generare innovazione. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo.
© Francesco IzzoOrdinario di Economia e gestione delle imprese – Università di Napoli Federico II