L'urbanista Montedoro: «Milano più avanti di Napoli, ma c'è tanto da fare anche qui»

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Centosessant'anni dopo l'unificazione, le due Italie in cui è spaccata l'Italia continuano a viaggiare a velocità diverse. Al Nord una locomotiva fiammante - che comunque non corre più veloce come un tempo -, al Sud un vagone un po' scalcagnato che sferraglia sui binari al ritmo di un regionale. Come dire: una Patria, due Stati. 

La Città metropolitana di Milano e quella di Napoli per anni (a proposito: tra pochi giorni la legge istitutiva ne compirà otto, ndr) hanno declinato il loro nuovo status senza sconfessare questa tradizione: mentre la prima cominciava, sia pure lentamente, a costruire un nuovo modello grazie ad un lavoro strategico e sinergico tra i soggetti chiamati a realizzare la metamorfosi, l'altra s'è avvitata su sé stessa ed è rimasta, di fatto, ferma al «via». 

Accomunate da un'elevata densità demografica (ma nella classifica nazionale Napoli detiene il primato assoluto con poco meno di 3 milioni di abitanti su una superficie di 1180 chilometri quadrati), la capitale del Settentrione e quella del Meridione non sembrano essere, nella loro dimensione metropolitana, figlie dello stesso padre, quel Graziano Delrio che da ministro per gli Affari Regionali diede alla luce nel 2014 una riforma «attesa - disse - da 30 anni». Certo, le nostre Città metropolitane sono ancora dei cantieri aperti. Tuttavia, Milano esprime una maturità che a queste latitudini non si intravede neanche in nuce. A conferma del fatto che a leggi uguali possono corrispondere risultati differenti. Laura Montedoro, architetto, storica dell'arte e docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, però, assicura che non è tutto oro quel che luccica. «Le risorse economiche, tecniche e di personale assegnate alla Città metropolitana di Milano sono ancora scarse, e il meccanismo di attribuzione automatica del ruolo di sindaco metropolitano al sindaco della città capoluogo indebolisce la prospettiva del governo metropolitano», argomenta. E indica la direzione per uscire dall'impasse: «Bisogna attribuire alle Città metropolitane un ruolo concreto nelle politiche urbane». 

Professoressa Montedoro, la dimensione metropolitana detta tempi, geografie e modalità nuove in cui la complessità della città contemporanea si riconosce. Come si fa a proiettare le nostre organizzazioni urbane verso questa prospettiva di modernità? 

«La dimensione metropolitana, come ambito di governo più adeguato di quello municipale alla regolazione e alla progettazione delle trasformazioni urbane, è in campo da ormai molti decenni. Oggi, per molti aspetti, la fase della metropolizzazione – per lo meno nelle città europee – può dirsi compiuta, mentre entrano in gioco nuovi processi di regionalizzazione: si pensi alla nozione di "regione urbana", alla letteratura sulle Mega-city regions, alla tematica della connessione non fisica tra aree urbane nelle catene del valore e nelle economie delle reti. Resta tuttavia vero che le aree metropolitane mantengono sistemi densi di relazione interni ed esterni e che un governo adeguato di queste relazioni sarebbe quanto mai opportuno, come dimostrano i casi di successo di alcune istituzioni metropolitane in Europa». 

La Città metropolitana di Napoli è di fatto un'incompiuta, mentre Milano, che ha già una connotazione metropolitana, ha fatto diversi passi sul cammino della trasformazione, dalla definizione delle zone omogenee al confronto con le rappresentanze socio-economiche, ed è stata in grado di costruire una visione metropolitana per il proprio futuro, interpretando correttamente il nuovo ente come un vero e proprio strumento di governo. Che cosa c'è ancora da fare? 

«Se è vero che alcuni passi sono stati fatti, non si può tuttavia disconoscere che molto rimane da fare per affidare un ruolo reale alla Città metropolitana nei processi di governance che hanno caratterizzato l'area milanese negli ultimi decenni. In realtà, anche a Milano si sono manifestati diversi problemi nell'attuazione del dettato della Legge Delrio, soprattutto dal punto di vista della limitata dotazione di risorse (finanziarie, tecniche, di personale) in capo alla Città metropolitana».  

Ritiene che sia diffusa tra gli abitanti milanesi una consapevolezza, una coscienza metropolitana? 

«Questo è un tema davvero rilevante. Alcuni anni fa, un tentativo coraggioso – ma in larga parte incompiuto – di pianificazione strategica metropolitana avviato a Milano (denominato non a caso "Città di città", e avviato dall'allora Provincia di Milano nel 2005) aveva fatto emergere l'importanza di progettualità metropolitane, capaci anche di costruire, attraverso progetti concreti, una maggiore consapevolezza identitaria di tipo metropolitano. Purtroppo, non possiamo dire che tale consapevolezza sia cresciuta molto in questi ultimi anni, nonostante l'istituzione della Città metropolitana». 

Chi sostiene che Milano ha un progetto molto chiaro – quello che a Napoli manca – dice la verità? Anche in questa sfida il divario Nord-Sud si manifesta in tutta la sua evidenza? 

«Alcuni attori (penso alle università, e soprattutto al Politecnico, ma anche ad alcuni attori associativi come la Camera di Commercio e Assolombarda) hanno cercato negli ultimi vent'anni di costruire una piattaforma strategica per Milano metropolitana. Non credo si possa dire, però, che sia in campo una chiara coalizione di attori che abbia assunto il tema metropolitano come asse centrale della strategia territoriale, a mio avviso soprattutto perché è mancata una spinta forte in questa direzione da parte del Comune capoluogo e dei suoi sindaci. In questo senso, credo davvero che il meccanismo di attribuzione automatica del ruolo di sindaco metropolitano al Sindaco della città capoluogo indebolisca la prospettiva del governo metropolitano». 

Nessun'altra Città metropolitana è ancora riuscita ad avviare, a distanza di circa otto anni dalla nascita, un reale processo di cambiamento istituzionale. Quali prospettive pensa che potranno avere nel nostro Paese le città metropolitane? E quali correttivi bisognerebbe apportare perché prendano finalmente vita? 

«Come ho già accennato, vi è innanzitutto un problema di revisione del disegno istituzionale della Legge Delrio: è necessario che si arrivi ad una elezione diretta, di primo o almeno di secondo livello, del sindaco metropolitano. Tuttavia, questo non basta: bisogna dotare le Città metropolitane di risorse e strumenti per giocare davvero un ruolo significativo nei processi di governo. La funzione assegnata nell'attuazione di alcune linee di finanziamento del Pnrr alle Città metropolitane e l'esperienza interessante del Pon Metro nel precedente ciclo di programmazione indicano la via: costruire la legittimità dell'azione delle Città metropolitane a partire da un ruolo concreto nelle politiche urbane». 

Milano potrebbe rappresentare un traino per le altre città, un modello al quale ispirarsi? 

«Le aree metropolitane italiane sono molto diverse tra loro, per dimensioni, caratteristiche demografiche e geografiche, assetti insediativi, dinamiche economiche e sociali. Penso che un rapporto più stretto tra Milano, Napoli e (forse) Torino – che presentano alcune caratteristiche, simili pur nelle molte differenze – potrebbe essere molto utile nella direzione della sperimentazione di pratiche concrete di governo metropolitano». 

Milano, Napoli e Roma, che per legge hanno l'obbligo di individuare le zone omogenee e di definire al loro interno aree amministrativamente autonome, condividono tuttavia una sorta di resistenza ad intraprendere un percorso che suddivida le città in aree dotate di autonomia amministrativa. Secondo lei, perché? Sarebbe questo il vero salto di qualità per uno sviluppo organico e moderno delle nostre città? 

«Il tema dell'articolazione territoriale della città capoluogo è molto delicato. Solo l'esperienza londinese, nella dialettica tra Borough e Greater London Authority, si è spinta nella direzione di un regime di articolazione orizzontale delle diverse "città" dentro il territorio metropolitano. Sinceramente, non credo che qui in Italia sia possibile una definizione di aree amministrative autonome che spezzino l'unità del comune capoluogo. Tuttavia, un fortissimo rafforzamento dei municipi sarebbe già un passo verso una redistribuzione di poteri e competenze che riduca la differenza abissale di potere e risorse tra comune centrale e altri comuni metropolitani, che a loro volta dovrebbero accrescere la loro capacità di collaborazione, lungo la linea sperimentata a Milano con le aree omogenee». 

L'inerzia istituzionale che ha determinato lo stallo nell'attuazione del dettato normativo denuncia una scarsa volontà o una scarsa capacità di tradurre la legge in atti concreti? O, piuttosto, deve farci riflettere sulla crisi del concetto stesso di Città metropolitana? 

«Io credo che in parte, come dicevo all'inizio, anche la dimensione metropolitana appaia oggi inadeguata a governare tutti i processi. Tuttavia, vi sono delle policy (trasporto pubblico locale, sistema dei parchi, servizi ambientali di larga scala, politiche della casa e in parte anche pianificazione spaziale) per le quali la dimensione metropolitana appare ineludibile. Il sostanziale fallimento della Delrio dipende dalle molte forze che si oppongono all'attuazione della riforma, o che comunque hanno un ruolo inerziale, a partire dai comuni capoluogo, ma anche dalla idea miope che le Città metropolitane possano essere giustificate in una logica di risparmio di risorse. È vero esattamente il contrario: solo investendo di più si può offrire alle città metropolitane la possibilità di giocare un ruolo fertile nei complessi processi di governance». 

Esiste sul piano politico-amministrativo, demografico, economico e sociale uno squilibrio tra città e hinterland a favore delle prime? Ripensare la distribuzione di abitanti, di competenze e di servizi sul territorio metropolitano favorirebbe un'armonizzazione dei pesi e delle risorse centro e periferia? 

«Nel caso milanese, dopo una fase di parziale decentramento di alcune funzioni, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una sostanziale ri-centralizzazione degli investimenti pubblici e privati nel comune capoluogo. Ciò dipende da una assuefazione alle logiche di mercato, in assenza di una forte strategia pubblica, ma anche dal progressivo "divorzio" tra Milano e il suo territorio, dopo la crisi dei sistemi produttivi della regione urbana. Invertire questo processo non è facile, ma è necessario, pena una progressiva polarizzazione sociale e spaziale che renderebbe ancora più difficile immaginare un governo metropolitano capace di "Ricomporre i divari", per citare il volume a cura di Coppola, Del Fabbro, Lanzani, Pessina e Zanfi edito nel 2021 da Il Mulino». 

Il fatto che i componenti dei consigli metropolitani vengano scelti da un numero ristretto di (loro sì) eletti è un elemento che allontana l'istituzione dai cittadini. L'introduzione di un'elezione diretta per i Consigli e per i sindaci metropolitani, che oggi vengono scelti soltanto dagli elettori residenti nel capoluogo, colmerebbe questo vulnus di partecipazione? 

«Come ho già osservato, questo aspetto appare decisivo, per quanto non sufficiente. L'elezione di secondo grado dei consiglieri metropolitani è praticata anche in altre aree metropolitane che hanno svolto ruoli rilevanti (ad esempio a Barcellona o Lione). Tuttavia, è fondamentale che le figure del Sindaco metropolitano e del Sindaco del comune capoluogo siano distinte. Come ha sottolineato anche il mio collega Gabriele Pasqui, uno dei maggiori esperti di politiche urbane e governo metropolitano a Milano, il tema della democrazia è centrale perché un governo monopolitano multilivello esiste già, ma in assenza di un effettivo ruolo di indirizzo, coordinamento e orientamento strategico della Città metropolitana. Il mutamento delle regole istituzionali deve dunque accompagnarsi ad una forte stagione di attivismo della città metropolitana su specifiche politiche e progetti, senza la quale anche la revisione della Legge Delrio rischia di essere inefficace».