La casa non è una “macchina per lavorare”

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L’urbanistica, con le sue procedure ed i suoi tempi, vacilla nel rincorrere i riverberi sulla città di fenomeni incalzanti e cambiamenti che agiscono con inedita rapidità.

Da una parte, eventi imprevisti come la pandemia. Dall’altra, un processo di degrado ambientale che procede relativamente indisturbato e secondo una progressione che ha improvvise, drammatiche accelerazioni. Degrado che, in città, ha già prodotto un fenomeno da tempo sperimentato: l'"isola di calore urbana”.

Gennaro Biondi ha indicato un preciso punto di rottura quando ha rilevato come le trasformazioni di Napoli siano avvenute, prevalentemente, sulla scia di “processi spontanei” che si sono insinuati tra le maglie dei piani con una esuberanza che mostrato tutta la vulnerabilità di norme astratte e strategie.

Uno dei “processi spontanei” più incisivi è stato il decremento della popolazione del capoluogo che, nell’arco degli ultimi 40 anni, ha raggiunto le 330.000 unità. Una migrazione di corto raggio che si è attestata a 8-9 km dal margine della città, intasando i territori già sovra-urbanizzati dell’area metropolitana, che rappresenta la maggiore emergenza urbanistica a livello nazionale. Un piccolo “esodo” spinto dal mercato immobiliare che ha indotto le famiglie meno agiate - e non solo - a cercare alloggi accessibili nel costo e dotati di standard irreperibili nella città consolidata: spazi per la sosta e aree verdi. E ha trasformato un vecchio casale come Giugliano nella terza città per popolazione della Campania.

Al trasferimento dell’eccedenza di popolazione nei territori a nord di Napoli, ha fatto riscontro un fenomeno inverso, di portata più limitata, ma comunque significativo. Un “processo spontaneo” che potremmo definire “radicamento al centro”: la tendenza delle classi sociali residenti in quartieri più o meno pregiati del nucleo antico a conservare tenacemente la propria posizione. Per diverse motivazioni: da stringenti necessità economiche ai casi più privilegiati della conservazione di uno status sociale alla prossimità di collegamenti e servizi. Una parte del ceto borghese, ad esempio, si è progressivamente trasferita in ambiti dalla tradizionale matrice popolare e dalla vocazione artigiana come i Quartieri Spagnoli e il Centro Storico. 

Allo stesso tempo e per la stessa ragione, si è verificata la crescita del frazionamento degli immobili che, è stato favorito dalle più ampie superfici disponibili degli alloggi del centro urbano. Non a caso, tra le poche varianti al Prg del 2004 registriamo quella per la semplificazione delle procedure del frazionamento degli immobili. “Una scelta per andare incontro alle numerose istanze arrivate da tanti nuclei familiari […]” come dichiarò l’allora assessore all’Urbanistica, Prof. Carmine Piscopo, in uno dei rarissimi cedimenti della precedente amministrazione alla spinta dei “processi spontanei”. “Processi spontanei” la cui natura prevalentemente economica avrà profonde ricadute sull’utilizzo degli spazi e sul modo di abitare la città nel futuro.

È molto difficile prevedere in che modo gli effetti della pandemia - centrali in questi rivolgimenti - potranno cambiare, in maniera radicale o parziale, transitoria o definitiva, le abitudini tradizionali. Tutti sembrano concordare sulle carenze che il lockdown ha solo lasciato emergere in tutta la loro evidenza. Gli spazi pubblici hanno rivelato una grave insufficienza nell’inclusione dei disabili e l’assenza di adeguati spazi verdi.

Ma in che modo, oltre le affermazioni vaghe e generiche, andranno riconfigurati gli spazi privati, i caratteri delle residenze per consentire le attività da remoto, a partire dallo smartworking? Escludiamo la Didattica a Distanza (DaD) che meriterebbe un discorso a sé alla luce dei dati allarmanti sulla dispersione scolastica e sull’analfabetismo di ritorno che coinvolgono le fasce più deboli del nostro inquieto territorio. Può limitarsi tutto all’aspetto quantitativo? L’aumento del numero dei vani o dei metri quadrati per ogni ambiente? La casa non può ridursi ad una “macchina per abitare e lavorare”, luogo della claustrofilia, potenziale incubatrice di nevrosi o ripiegamenti narcisistici, come ha rilevato Gabriella Reale. Una sommatoria di cubicoli, ciascuno dotato del proprio terminale di collegamento con il mondo esterno.

La casa resta, per tutti, il luogo di Lari e Penati, della formazione di un mondo emotivo, lo spazio della rêverie, dell’abbandono fantastico, a cui ha dedicato indimenticabili pagine Gaston Bachelard ne La Poetica dello Spazio.

L’architettura sembra, oggi, divisa tra la manutenzione del patrimonio esistente - visto come puro erogatore di prestazioni efficienti - e l’appariscenza delle grandi opere nate per soddisfare l’aspirazione delle amministrazioni a collocarsi adeguatamente nella graduatoria della comunicazione globale.

La casa a cui guardiamo dovrà nascere da una sintesi tra la riforma dei caratteri più intransigenti della Modernità e il recupero di aspetti della Tradizione troppo superficialmente ripudiati. Dovrà ritrovare spazi per vivere all’aperto buona parte dell’anno come nella più classica consuetudine mediterranea; dovrà reintrodurre quei luoghi di transizione “emotiva”, completamente aboliti a favore dell’open space senza eliminare l’afflusso di aria e luce, la valorizzazione del rapporto interno - esterno e l’articolazione dello spazio che sono solo alcune delle grandi conquiste della Modernità.

Questo significa riconsiderare la conservazione indiscriminata ed integrale di alcune tipologie storiche povere ed insufficienti sin dalle origini e refrattarie ad ogni adattamento alle esigenze della contemporaneità. E impone una riflessione sulla struttura urbana che ha, nella compattezza della sua maglia, un argine naturale a difesa delle attività artigianali e tradizionali che rischiano comunque di essere travolte dai cambiamenti economici di scala globale. E che vanno tutelate.

Ma su questa stessa maglia e sul patrimonio edilizio esistente, a cominciare dagli immobili pubblici in rovina, dai vani abbandonati da decenni e dalle aree dismesse bisognerà agire con tutte le categorie d’intervento, se vogliamo approdare ad una città che trattenga le fasce più deboli in un ambiente vivibile e democratico, quella “città dei 15 minuti” che, al momento, appare l’ennesima utopia.