La città degli eventi e la città della produzione

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La grande crisi degli ultimi decenni ha rappresentato un momento di rottura del modello economico-territoriale che si era consolidato fin dal dopoguerra nell’area napoletana; il disfarsi dei fondamentali del sistema fordista ed il precipitare dei fattori che, sul piano urbanistico, avevano regolato l’evolversi dell’organizzazione produttiva della città, hanno determinato nuove morfologie insediative decretate, in parte, da fattori localizzativi tradizionali (spazio e forza lavoro) ed, in parte, dalle esigenze imposte dal nuovo modo di produrre (innovazione tecnologica e “nuova qualità” del mercato del lavoro). All’ accelerazione di questi fenomeni spontanei ha fatto riscontro una scarsa lungimiranza dei processi decisionali ed i risultati si riscontrano nell’affermazione di una ” nuova geografia della centralità e della marginalità economica”. In sostanza, la Napoli post-fordista appare come una conurbazione bifronte in cui si contrappongono due realtà con dinamiche evolutive e problematiche molto diverse anche se complementari fra di loro. Da una parte, c’è la “ città degli eventi” ovvero il nucleo centrale che da luogo fisico tende sempre più ad assumere i connotati di uno spazio simbolico (anche con forte connotazione politica) che a parere dell’attuale Amministrazione comunale dovrebbe contribuire all’affermazione dell’immagine della città sui mercati del turismo internazionale; dall’altra, la “città della produzione“, ovvero la tradizionale periferia metropolitana in cui si concentra la maggior parte del patrimonio manifatturiero regionale. Due realtà che non appaiono per nulla inserite in un unico ed organico “piano strategico” nonostante esso sia previsto nello stesso Statuto dell’area metropolitana di Napoli.

Innanzitutto appare opportuno segnalare che non è possibile disegnare il riposizionamento di Napoli sullo scacchiere globale senza ripensare il ruolo strategico della “città della produzione”. Essa si giova di una serie di condizioni in sintonia con il modo di produrre ed i modelli organizzativi del post-fordismo: si va dai micro distretti settoriali (ad es. il comparto della moda), alla produzione flessibile, a nuove forme commerciali. Per questa sezione dell’area metropolitana serve un piano “di emersione” dei principali comparti produttivi (Moda e Cibo) per non alimentare il drammatico trasferimento di un crescente numero di unità locali alla gestione diretta della criminalità organizzata. Le azioni prioritarie dovrebbero essere indirizzate verso la rimozione del “grande gap” costituito dal maggior costo dell”investimento industriale nell’area che è valutato ancora in circa 20% in più rispetto alla media nazionale partendo da un razionale piano di investimenti in infrastrutture materiali ed immateriali. Serve, in sintesi, una regia istituzionale volta a ricondurre il rilancio delle attività produttive ad un ben definito quadro di compatibilità urbanistiche e di specializzazioni settoriali.

Più delicata, anche perché più controversa sul piano politico e culturale, risulta la messa in valore della “città degli eventi”, ovvero di quello spazio urbano troppo spesso considerato come la semplice location di eventi spot che nulla hanno a che vedere con un lungimirante programma tendente a valorizzare i diversi aspetti della produzione culturale locale in un progetto di internazionalizzazione. E qui lo scontro tra una demagogia spicciola attenta quasi esclusivamente al consenso politico ed una progettualità di medio e lungo periodo alimenta un dibattito di tipo localistico a scarsa valenza strategica per il futuro dell’intera area metropolitana napoletana. Si parla spesso di costruire un “pensiero condiviso” da parte di tutta la classe dirigente napoletana: istituzionale, scientifica, culturale ed economica. Ma in pratica tutto si esaurisce nella solita polemica relativa al singolo evento (vedi “N’Albero” natalizio o il “corno” di Ferragosto) mentre la città metropolitana vede sempre più accentuarsi le sue contraddizioni sul piano dello sviluppo economico e sociale. Insistere su quest’approccio ci induce sempre più a dar ragione ad Harvey che già nel 1993, a proposito della crisi della modernità, ci ammoniva circa il pericolo di ritrovarci di fronte a “spazi urbani e ad aree metropolitane senza anima, ovvero a territori senza potere alla mercé di poteri senza territori”.