Leone: «La pandemia più grave è quella ambientale. Produrre senza inquinare si può: la sostenibilità dello sviluppo è nelle mani dei governi»

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Nelle immagini che ci hanno fatto spiare il mondo da quell'oblò retroilluminato che si chiama televisione, la forza vitale della nostra Madre Terra traboccava rigogliosa e prepotente. E pure sui social e sui cellulari, nei tre mesi di una clausura obbligatoria e volontaria, protagonista della nostra meraviglia era la natura: almeno lei, nelle settimane del dolore e dello sgomento, benediceva il virus, riprendendosi gioiosa i suoi spazi e i suoi diritti. Dimostrando che in fondo non le serve poi tanto per tornare a prosperare, a dispetto delle nostre ingiurie ostinate e quotidiane.

Mentre gli uomini soccombevano - fisicamente, moralmente, economicamente - l'azzurro del mare era di un azzurro mai visto prima, e perfino le chiome degli alberi apparivano più folte. Ugo Leone, già docente di Politica dell'ambiente alla Federico II e presidente del Parco del Vesuvio, parla di un monito che deve farci riflettere.

Professor Leone, tra tanti morti e tanta sofferenza, l'ambiente ha beneficiato di questo momento drammatico.

«I benefici ci sono stati certamente, nel senso che ce ne siamo accorti, a Napoli e in Campania come in tutta Italia. Prima di tutto, l'aria è diventata più respirabile, poi il mare è più limpido e meglio frequentato, gli augelli sono tornati a far festa. Perfino fiumi come il Sarno e il Po sono tornati com'erano prima dell'inquinamento. La natura, insomma, ha ripreso le sue caratteristiche, si è ripresa il proprio spazio senza sapere a chi lo toglieva».

Quei benefici sono stati già neutralizzati dalla ripresa?

«Appena, dal 4 maggio, siamo tornati nelle strade e siamo tornati a produrre, abbiamo ripreso ad inquinare. Basti guardare il Sarno, che si è subito sporcato di nuovo, raccogliendo residui industriali che avvelenano le sue acque, che arrivano fino al Golfo di Napoli. E le centraline che misurano la qualità dell'aria e la presenza di polveri sottili, che avevano mostrato livelli importanti di miglioramento, appena è ripresa la circolazione sono tornate a registrare i valori di prima. D'altra parte, ora più di prima si usa l'auto: la gente ha paura di prendere mezzi pubblici. Stesso discorso vale per i rifiuti: abbiamo visto strade pulitissime, ora c'è di nuovo l'immondizia per strada».

Naturalmente, c'è da considerare l'aspetto economico.

«Come ho detto, la natura non bada a chi colpisce quando si riprende i propri spazi. Ma la storia ci insegna che, dopo un trauma che ha portato ad una crisi e al taglio dell'occupazione, la ripresa ha portato livelli di produzione uguali o superiori a prima, ma con numero minore di lavoratori».

Una prospettiva forse incoraggiante per le imprese, ma non per i lavoratori.

«Vero, ma con il New Deal, nel pieno della crisi del 1929, Roosevelt diede lavoro a 300mila lavoratori. Tra l'altro noi italiani viviamo in un ambiente sismico, vulcanico e idrogeologicamente dissestato: ce ne sarebbero tante di cose da fare. Cose che non si sono mai fatte. Delle politiche dell'ambiente ci si riempie la bocca, ma quando si tratta di passare ai fatti quei temi vengono puntualmente ignorati e bistrattati. L'ambiente è ciò che ci sta intorno. Nel nostro caso, dunque, le città. Renderle più vivibili e più sicure dovrebbe essere interesse di tutti».

Chi ha individuato una relazione tra il livello di industrializzazione e quello dei contagi è andato vicino alla verità?

«Si tratta di una relazione non dimostrata, ma di sicuro le regioni della Padania, le più industrializzate anche sul piano della produzione agricola e le più ricche d'Italia, sono più fragili dal punto di vista ambientale. Dovremmo imparare a valutare la ricchezza prodotta da queste regioni al netto dei costi ambientali e sociali che bisogna sostenere per produrla».

Se è bastata una serrata di due mesi, però, significa che non ci vuole così tanto a restituire un po' di salute al nostro habitat.

«Ci vuole pure meno: la soluzione non deve essere la chiusura delle fabbriche. Dalla rivoluzione industriale, che resta un passaggio fondamentale della nostra storia, è sempre valsa l'equazione secondo la quale industria significa inquinamento. Le soluzioni a questo problema avevano un costo. Ma Einaudi, che è stato Presidente della Repubblica ma soprattutto un grande economista di ispirazione liberale, in una delle lettere della domenica per il Corriere della Sera nel lontano 1961 scriveva che, guardando Bagnoli dai Camaldoli trovava sulle foglie la polvere prodotta dall'acciaieria. E parlava di "furto alla salute dei cittadini", affermando che si poteva produrre acciaio e cemento in modo pulito. Oggi questo è la regola: si può produrre senza inquinare. In questo senso, lo stabilimento di Taranto è un modello negativo che può diventare positivo. Certo, costa di più, ma i costi ambientali e quelli per la salute non li mette mai in conto nessuno».

Lavarsi spesso le mani significa consumare tanta acqua. Lei sul "petrolio trasparente" che spesso colpevolmente diamo per scontato ha scritto un saggio illuminante.

«Già. Ma la riduzione degli sprechi in assoluto potrebbe essere un tema interessante. Tutti gli sprechi di un Paese ricco come l'Italia andrebbero abbattuti. Non ci illudiamo che ridurre gli sprechi fa aumentare la quantità di cibo e acqua in Africa e nei Paesi meno sviluppati, ma evitare di sperperare le risorse è un dovere etico. Certo, se ci si lava le mani continuamente, il consumo di acqua aumenta. Ci sono delle alternative: sanificarsi con gli appositi liquidi. Una volta in chiesa si trovava l'acqua santa, ora anche lì c'è l'acqua sanificata».

Dei benefici del lockdown sull'ambiente si è parlato molto, a volte anche con un po' di retorica. Perché poi ripartire è inevitabile. E necessario. La domanda, allora, è: è possibile produrre ricchezza rispettando l'ambiente?

«Certo. Il problema riguarda non solo le industrie, ma anche l'agricoltura e la zootecnia, le cui produzioni massiva implicano pratiche inquinanti e altamente dissipatrici di acqua. Le alternative ci sono e ridurre l'impatto ambientale si può, ma da soli industriali e agricoltori non ci penseranno. Dev'essere lo Stato ad imporlo. Tutto sta nel rendersi conto del fatto che la produzione di uova o di carne dev'essere fatta in modo diverso. Costa di più? Bene, il prodotto costerà all'utente finale 50 centesimi o un euro in più. Una banalità per il consumatore che, sui grandi numeri, compensa i maggiori costi di produzione. Perché, mentre la ricchezza è di pochi, i costi sono di tutti».

Qualcosa, tra marzo e maggio, è cambiato nelle nostre abitudini e nella nostra coscienza ambientale? Insomma: abbiamo colto il senso di questo monito o siamo gli stessi egoisti di prima?

«Le cose comincerebbero a cambiare se prendessimo tutti coscienza del fatto che viviamo un periodo di pandemia molto più lungo di questo che stiamo vivendo. Dobbiamo pensare che su un pianeta dove ci sono 8 miliardi di persone, 10 milioni di queste si sono infettate e circa 600mila sono morte. Sono numeri piccoli, fermo restando che anche un solo morto è un dolore. La vera pandemia è il mutamento climatico, che implica rischi ben più grandi e che coinvolgono tutta l'umanità, nessuno escluso. Tanto che gli scienziati parlano del rischio di una sesta estinzione. Una cosa è certa: all'indomani di ogni estinzione c'è stato quello che si definisce un rigoglio evolutivo. La natura, cioè, ha sgombrato l'ambiente di quelle presenze dannose, che si sono estinte, e ha ripreso la sua vita. Quando 65 milioni di anni fa si sono estinti i dinosauri, la natura è andata rigenerandosi, acquisendo caratteristiche che hanno consentito al genere animale, a quello vegetale e a quello umano di evolversi».

Con la scomparsa del genere umano, dunque, si ristabilirebbe un nuovo ordine.

«Esatto, con il conseguente rigoglio evolutivo. Quando alla fine di questo secolo ciò che si è concordato a Parigi alla fine del 2015, ovvero il contenimento dell'incremento delle temperature entro 1,5 o al massimo 2 gradi, si è pensato ad un modo diverso di vivere e di produrre... Mi sembra realisticamente difficile che si possa raggiungere questo obiettivo, e comunque non c'è da illudersi che questo possa comportare in ottant'anni il ripristino della situazione precedente. Non credo che l'estinzione ci possa essere. Ma mi pare doveroso tener presente tutto questo di fronte all'altra pandemia, della quale tanto si parla oggi. I nostri nipoti e i figli dei nostri nipoti dovranno sapere che vivranno su un pianeta diverso. Non ci saranno i ghiacciai, il clima avrà altre dinamiche. Non c'è da immaginare una prospettiva di resilienza, ma una necessità di riadattamento sì».

Intanto, lei pensa che non abbiamo imparato niente?

«Il Coronavirus ci ha fatto vedere quali sono i problemi e quali le soluzioni. In poche parole, dobbiamo evitare di immettere porcherie nell'aria, nell'acqua e nel suolo, altrimenti l'estinzione colpirà, come sempre accade nei periodi di transizione, le categorie più deboli e indifese, quelle che non riescono a riadattarsi. Chi non ha una vita facile e ha perso il posto di lavoro, per esempio, soccombe. E questo accade ancora di più nei Paesi in via di sviluppo».

Il virologo Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell'Ospedale San Raffaele, qualche giorno fa ha detto: «Dalla distruzione dell'ambiente è nato il Covid. E sarà sempre peggio», spiegando il rapporto tra la distruzione delle foreste, lo scioglimento dei ghiacciai e la nascita di nuove minacce per l'uomo.

«Lo dicono in molti, anche persone di cui mi fido. Non riesco a vedere chiaramente un nesso, ma è bene che si diffonda questa allerta. La paura ci fa capire in che direzione dobbiamo andare».

C'è anche chi sostiene, con un'interpretazione che si potrebbe definire animista, che la Terra si sia, se non vendicata, ribellata agli oltraggi che le infliggiamo da tempo, riservando al genere umano la meritata punizione.

«Non riesco ad immaginare una natura che si ribella o addirittura si vendica. Però è nei fatti che questo avviene. Diciamo che ha approfittato della situazione».

Lei poco fa ha detto che tocca agli Stati dettare le regole per un cambio di rotta e per una produzione più responsabile. Pensa che questa esperienza drammatica potrà cambiare la sensibilità ambientale dei nostri governanti?

«Questo sarà uno dei temi della prossima campagna elettorale. Spero che non la mettano solo sul piano sanitario, perché la nostra salute è strettamente legata a quella dell'ambiente in cui viviamo. La salute è importante, ma se si trova un vaccino il problema del Covid si supera. Cogliamo, invece, l'occasione di questa lezione per cambiare le nostre cattive abitudini».

Lei è ottimista o pessimista?

«Tendo sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno».