Lo psichiatra Thanopulos: «Di fronte al virus la politica si è piegata alla tecnica e noi ci siamo divisi. Ora impariamo dagli errori del passato»

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Il nemico è arrivato subdolo e invisibile, in una primavera che si è trasformata per l'umanità in uno degli inverni più lunghi. Ha invaso le nostre case e le nostre esistenze senza bussare alla porta. Come un terremoto, violento e inatteso, il Covid non solo ha minato la salute fisica, ma ha fatto vacillare le fondamenta dell'assetto emotivo, psicologico, economico, mettendo in crisi i cardini stessi delle relazioni. Quelle con gli altri, intesi prima di tutto come gli affetti più vicini, ma anche quella con noi stessi e con le nostre emozioni più profonde.

I risultati, figli di un distanziamento fisico che è diventato anche «sociale» nel senso più deteriore, sono sotto gli occhi di tutti: diffidenza, disgregazione, aggressività, individualismo. Segni che portiamo ancora sulla pelle. «Il senso di fragilità e di pericolo vissuto in questo periodo ha determinato un indebolimento del senso di appartenenza e dei legami con il gruppo, facendo emergere spinte individualistiche e antisociali». La diagnosi sui postumi meno tangibili (eppure evidentissimi) della pandemia è di Sarantis Thanopulos, psichiatra e psicoanalista, attuale presidente della Società Psicoanalitica Italiana, full member dell'International Psychoanalytical Association, greco ma napoletano di adozione. Dopo due anni di convalescenza, tra la stanchezza e l'eccitazione, lo straniamento e la speranza, il mondo prova a voltare pagina.

Professor Thanopulos, alla fine è veramente andato «tutto bene» come promettevano gli striscioni esposti sui balconi d'Italia per darsi forza mentre eravamo barricati in casa?

«Sicuramente quello era un modo di darsi forza, come lei ha detto, ed era abbastanza evidente che non tutto potesse andare bene. Dipende da che prospettiva vediamo le cose. Sicuramente la pandemia ha messo in evidenza alcune difficoltà strutturali molto importanti rispetto al modo in cui viviamo».

Quali?

«Già il modo in cui la pandemia è sorta ha denunciato una società che non ha grandi capacità di prevenzione, che trascura molto il rapporto con la natura e di fronte alle catastrofi non è ben attrezzata, in quanto fa eccessivo affidamento sulle sue competenze tecniche. Il problema è che non si può affrontare tutto con la tecnica. Se invece vediamo le cose dal punto di vista dell'emergenza sanitaria, penso sia andata abbastanza bene. In questo senso, mi sembra giusto riconoscere che senza le misure restrittive avremmo avuto un numero di morti molto più alto. Abbiamo evitato una situazione molto più drammatica, considerando che il virus ci ha trovati molto impreparati, principalmente per due motivi. Da una parte, la Cina ha diffuso una disinformazione che ha reso tutto più difficile, ritardando gli interventi. Dall'altra, c'è lo smantellamento del sistema sanitario pubblico. La privatizzazione non mira certo a preservare la salute di tutti».

Di fronte all'emergenza, sanitaria e piscologica, la guida politica è stata all'altezza?

«Considerato che abbiamo scontato amaramente tutte queste cose, possiamo concludere che mediamente i governi nazionali sono riusciti a contenere, sia pure non senza conseguenze, l'impatto della pandemia e che l'Italia si è comportata bene. Dire che è andata bene in assoluto, però, non è vero. Sappiamo che la pandemia ha determinato una serie di effetti collaterali molto nocivi: ha aumentato l'ineguaglianza negli scambi sul piano economico e sociale, ma anche su quello dell'informazione, che non risponde più a logiche di pensiero critico e di pluralismo. E poi, abbiamo osservato il fenomeno della digitalizzazione selvaggia e quindi dell'isolamento sociale, la concentrazione della ricchezza in poche mani, il che rende più precarie tutte le relazioni. Tuttavia, se vogliamo fare un'analisi onesta, dobbiamo registrare il fatto che sempre di più la classe politica è priva di un potere adeguato, e che questo potere non è nelle mani dei governi nazionali, che si barcamenano come possono. Siamo di fronte ad una situazione di sostanziale anarchia nella quale prevale la logica del sempre maggiore accumulo di ricchezza, che ci allontana dalla prospettiva di una gestione della vita comune che corrisponda agli interessi di tutti. La grande ricchezza riproduce sé stessa, e non ha interesse a trovare soluzioni ai problemi che ci attanagliano. Casomai, è molto abile ad approfittare di tutte le situazioni, anche di quelle più delicate».

Che ruolo ha avuto l'informazione nella gestione della pandemia?

«C'è una sostanziale e sempre maggiore ineguaglianza tra chi può gestire l'informazione e chi la subisce. L'informazione si è progressivamente allontanata dalla verità, diventando un'arma pericolosa nelle mani di chi la possiede. Oggi la disinformazione permette a chi la usa di ottenere molte cose a suo vantaggio. E poi esiste una diseguaglianza monumentale sull'accesso al sapere, sempre più monopolio delle élite. Questo ci ha riportato molto indietro. È venuto meno quello che una volta si chiamava "ascensore sociale", il che determina un grande senso di sfiducia delle persone nelle istituzioni. Per la classe politica gestire tutto questo è diventato estremamente difficile, e se viene meno la mediazione della politica, la situazione si fa allarmante. Non solo perché vengono meno quegli strumenti di potere cui tradizionalmente si è affidata, ma perché ci si trova ad operare in un costante stato di emergenza che porta ad allontanarsi dalle regole democratiche, e questo non è mai un fatto positivo. In circostanze di oggettiva difficoltà, i politici non possono che assoggettarsi al potere di chi detiene le risposte tecniche, che sono sempre soluzioni provvisorie. Questa perdita di potere della classe politica indebolisce molto la democrazia. Una decisione politica presa da un governo di emergenza in una condizione complessa rende indispensabile la sospensione di certi diritti. Ma è qualcosa che la classe politica subisce. Da questo punto di vista, la pandemia ha creato ulteriori gravi squilibri, e non ne stiamo uscendo bene».

La pandemia ha riscritto i rapporti tra le persone?

«Il distanziamento, molto drammatizzato dalla pandemia, ha creato una mentalità di diffidenza, esasperando una dimensione autoreferenziale che emerge con prepotenza quando vengono meno i legami e non ci si fida più gli uni degli altri. Si diventa estranei, e si guarda l'altro con sospetto. Quando vengono meno le tradizionali forme di comunicazione e di relazione, fondate sulla curiosità e la disponibilità a conoscersi, prevalgono le forme autoreferenziali che tengono conto dell'altro come fonte di possibile ostacolo. Una variabile non prevedibile e inopportuna. Tra l'altro, il prevalere del diritto del più forte porta gravi diseguaglianze anche negli scambi tra le nazioni».

Vuol dire che la tempesta del Covid ha compromesso anche i rapporti tra gli Stati nazionali?

«La pandemia ha indebolito le relazioni internazionali e le ha rese molto più vulnerabili. Tutto sommato, questa grande distruzione delle forme di contatto e di scambio tra i Paesi - basti pensare all'impossibilità di incontrarsi - non ha favorito un clima di dialogo e di reciproca comprensione. In queste condizioni, la soluzione della guerra è molto probabile».

Come se non bastasse, intorno al Green pass si è determinata una disgregazione sociale profonda, con punte di aggressività allarmanti.

«Vero, ma io penso che dobbiamo sostenere i governi e le istituzioni democratiche, che sono in grande difficoltà. Il pericolo non viene da loro, ma dalle condizioni oggettive in cui ci troviamo, frutto di errori decennali. Ora, però, non ha senso prendersela con gli errori del passato. Piuttosto, bisogna correggerli. Credo che quella di introdurre il Green pass sia stata una scelta ragionevole: si è pensato che in quel modo si sarebbe contenuta meglio la diffusione del virus, e mi sembra abbia funzionato. Allo stesso tempo, sono comprensibili le resistenze alla vaccinazione, fondate su motivi che fanno parte dell'essere umano. Si è pensato molto schematicamente, anche per motivi di consenso, di non mettere chi era vaccinato nelle stesse condizioni di restrizione di chi non lo era. Questo ci ha dato la possibilità di riaprire alla presenza alcune nostre manifestazioni. Non era una panacea, ed è anche evidente che non poteva durare in eterno. Infatti, a un certo punto lo hanno tolto. Certo, si è determinata una contrapposizione, ma va detto che quelli che si opponevano al Green pass non avevano sempre le stesse ragioni. C'era chi avanzava argomenti di lettura critica dal punto di vista della libertà, paventando il pericolo che quelle misure potessero aprire la strada ad una logica di restrizione permanente, introducendo una discriminazione tra una parte dei cittadini e l'altra, dividendo i cittadini in buoni e cattivi. Ma questo non è accaduto. D'altra parte, contestava l'introduzione del Green pass in virtù di un'opposizione ai vaccini, verso i quali c'è stata sempre una diffidenza da parte della popolazione. Il fatto che ci si faccia inoculare il virus per combatterlo scatena delle paure, è umano: il virus è impalpabile, il vaccino è una cosa concreta. Sono convinto che chiunque abbia fatto il vaccino una qualche preoccupazione, anche piccola, l'abbia avuta. Ripeto: i politici hanno fatto quello che potevano».

Sta di fatto che in un momento di grande difficoltà collettiva, invece di stringerci, ci siamo divisi. Al punto che in molti casi quel distanziamento obbligatorio per legge e consigliato dal buonsenso è degenerato in isolamento egotismo o addirittura in ostilità.

«Non è affatto strano. Tutte le volte che c'è una contrazione delle emozioni che non possono essere elaborate, vissute, lette, tutte le volte che viviamo condizioni di precarietà si crea un accumulo di emozioni che dobbiamo scaricare. L'aggressività è uno dei modi più semplici per scaricare questa tensione. Quando c'è precarietà non c'è libertà psichica, tendiamo ad essere destabilizzati. Dobbiamo ricompattare il nostro assetto psichico. Quando ci si isola, si possono generare due tendenze: una a deprimersi e l'altra a guardare gli altri con diffidenza. La diffidenza nei confronti degli altri è un elemento depressivo che favorisce l'aggressività e l'esternazione esasperata delle nostre posizioni».

In questo quadro, i social network come hanno inciso?

«Sono delle grandi piazze anonime, costruite per favorire le azioni immediate, quindi impulsive. Sulle bacheche ogni tanto ci si diverte a cazzeggiare: è come andare al bar dopo la partita, si finisce per creare dibattiti un po' inconsistenti. Poi, però, prevale un certo pudore, perché ci conosciamo, ci guardiamo negli occhi, e anche quando litighiamo per le nostre rispettive squadre non ci prendiamo molto sul serio. Sui social mancano le mediazioni dei piccoli spazi, le persone agiscono in maniera anonima e ogni tendenza a scaricare le emozioni viene amplificata».

Ma ci sono tanto di nomi e foto a definire le identità.

«Anche se dietro un nome e una foto, si tende a scaricare una serie di impulsi che in altre dimensioni si reprimono per pudore. Se su una piazza virtuale rispondi di getto a una provocazione, spesso scrivi cose delle quali poi ti penti. I social hanno accelerato questa tendenza, il che produce risposte non sedimentate e meditate, ma parole che sono legna nel fuoco».

La socialità in che modo ha risentito di questi due anni di isolamento?

«Ha risentito molto sul piano della convivialità, che è una dimensione fondamentale. È il luogo dove condividiamo le cose con gli altri, e questo ci permette di sviluppare senso di co-appartenenza con gli altri, un senso di condivisione non fondato su un pensiero astratto o sulle emozioni del momento, ma sul fatto che permangono nel nostro spazio di vita delle cose in comune: idee, sogni, valori. Nell'incontro, creiamo un linguaggio che va al di là delle parole che usiamo. E creiamo la nostra reale rete di relazioni affettive nella quale selezioniamo i rapporti più privati. Questo non si può ottenere guardandosi e parlandosi via internet, bisogna frequentare dei luoghi. Una persona che incontri dal vivo entra nel tuo immaginario, anche solo per qualche istante. Il tessuto di cui è composta la nostra esperienza è fatto di queste cose: che altro è la socialità se non lo stare insieme?».

Quelle che descrive sono esperienze non ripetibili, mentre il confronto a mezzo web si sostanzia spesso in una serie di repliche.

«Esatto. Un gruppo di ragazzi che guardano lo stesso panorama, ascoltano la stessa musica o guardano la stessa opera d'arte condividono un'emozione. Quando queste occasioni vengono meno, non ci nutriamo più. Questo vale anche dal punto di vista erotico: se si è chiusi in casa, non c'è possibilità di scambio. Allora si perde tutto l'alone che rende l'esperienza sessuale significativa».

Oggi nota una fame di socialità, un'ansia di recuperare il tempo perduto?

«Sì, ed è una fame per certi aspetti molto sana. Naturalmente, visto il periodo complicato cha abbiamo vissuto, c'è un po' di eccitazione, per cui è un po' difficile ritrovare i ritmi. Ci vorrà un po' di tempo per rimodulare e riformulare questa voglia, e per vivere la socialità in modo più sereno e più profondo, ma ripeto: è una cosa buona».

Il Covid ci ha resi tutti, al tempo stesso, sospettati e sospettosi. Quella diffidenza di cui parlava prima ce la siamo portata dietro?

«Un po' sì, abbiamo dentro un elemento di diffidenza e di larvata ostilità verso gli altri che permane. Vedremo come evolverà. Penso che sarà superato gradualmente nelle relazioni più conviviali, anche se temo che per certi aspetti potrebbe resistere più a lungo e più pericolosamente. Non abbiamo smesso di essere una società che subisce molto il distanziamento. Magari stiamo con gli amici al bar o al cinema, ma c'è qualcosa che resta sullo sfondo, per cui se non cambia qualcosa e restiamo in questi giganteschi contenitori dove si riversano masse senza articolazione, questa ostilità e questa aggressività latente restano allarmanti. Mi riferisco alle platee mediatiche e ai social, dove ci confrontiamo senza le mediazioni necessarie, come tifosi di una squadra di calcio».

Ciascuno di noi ha pagato un proprio personale tributo al Covid. Quali sono state le principali ricadute emotive e psicologiche della pandemia?

«Siamo ancora provati, nessuno escluso. Questo è onesto riconoscerlo. Prenderlo in considerazione ci aiuta ad agire con saggezza, ad essere consapevoli del fatto che dobbiamo recuperare le nostre forze, le nostre speranze, la fiducia reciproca, il coraggio. Questo è un momento di transizione molto importante, e non dobbiamo affrontarlo né con rassegnazione né cercando di negarlo, accelerando come a voler andare avanti velocemente. Inutile illudersi, non è tutto come prima, ma possiamo diventare meglio di prima. Dobbiamo dirci che se siamo arrivati a questo punto, evidentemente prima eravamo un po' ciechi. La pandemia è un'esperienza amara che ci aiuta a capire meglio che cosa è importante e cosa è meno importante nella nostra vita. E capire che cosa è importante per noi è un buon modo per ricominciare».