Stella: «Cinema e teatro sopravviveranno, ma mi dissocio dalle proteste di settore. Al virus si sopravvive solo uniti»

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Una caduta inesorabile in un buco nero che si chiama incertezza: così sta precipitando, anche per manifeste responsabilità degli uomini che ha messo al timone, un’umanità disorientata, che fatica a trovare una bussola lontano dal panico e dalla confusione.

Perché quando alla paura per un virus che dilaga su scala mondiale si aggiunge quella della sofferenza economica, la somma algebrica delle angosce restituisce un bilancio pesantissimo, che inevitabilmente rovescia i propri effetti sul piano esistenziale.

Ma Luciano Stella, produttore cinematografico e imprenditore culturale che due settimane fa ha dovuto di nuovo chiudere le proprie sale in ossequio all’ennesimo decreto del presidente del Consiglio, di una cosa è convinto: la risposta non può essere quell’impasto di rabbia, invidia e individualismo che rischia di minare pericolosamente una coesione sociale quanto mai necessaria. Non possiamo, insomma, permetterci di scoprirci divisi secondo il principio dell’«homo homini lupus» di hobbesiana memoria nel momento che più di altri impone la solidarietà.

Per questo, anche se gli effetti collaterali della pandemia si abbattono sulle sue sale (il gruppo Stella Film gestisce il Modernissimo a Napoli, il Big MaxiCinema a Marcianise, l’Happy MaxiCinema ad Afragola, tutti multiplex e dotati delle più avanzate tecnologie), rivolge un invito chiaro e al tempo stesso coraggioso al settore della cultura e dell’intrattenimento: nella crisi, siamo tutti uniti. Nessuno si senta escluso.

Stella, anche per le sale e per il mondo del cinema è un momento di sofferenza. A quanto ammontano le perdite del suo gruppo?

«Le previsioni dicono che a fine anno il nostro mercato avrà perso l’80 per cento del suo fatturato rispetto all’anno scorso. Film importanti come quelli di Verdone e Muccino sono stati letteralmente tranciati dalla chiusura, e così anche quelli di Berlino, tra i quali “Volevo nascondermi”, sulla vita del pittore Antonio Ligabue. Lo stesso vale per il lavoro di Nanni Moretti, che era prontissimo per il Festival di Cannes, che si doveva tenere a maggio ed è stato sospeso. E ancora, ci sarebbero stati grandi film Disney come “Muhlan” e “Soul” della Pixar, prodotto per famiglie che fanno sempre grandi incassi e che invece sono andati direttamente sulle piattaforme a pagamento. Si tratta di film-locomotiva che fanno da traino, stimolando la voglia e l’abitudine del pubblico ad andare al cinema. Anche le altre pellicole ne beneficiano. E sono stati rimandati pure blockbuster come il nuovo 007 (dal titolo benaugurante: “No time to die”, ndr) e “Black widow”, film di supereroi sempre prodotto da Disney e altri grandi titoli americani, che sono stati i primi a pagare un prezzo al virus. Purtroppo, quando c’è un virus che impone la distanza, il rito collettivo di consumo, che al contrario implica la vicinanza, è quello più colpito. Peccato, perché invece il 2019 è stata un’annata straordinariamente positiva di virtuosi incassi per differenti generi. Un trend che è andato avanti fino a febbraio 2020. La stima dei danni si potrà fare soltanto alla fine, ma sappiamo già che non tutte le ferite saranno rimarginabili».

C’è, in questo panorama asfittico, un rovescio della medaglia?

«Sì. C’è una richiesta di contenuti on demand che non si era mai vista prima. Hanno ripreso vita generi anche morti come il documentario, grazie ad un’accelerazione esponenziale della domanda. Per non parlare delle serie tv, che si moltiplicano all’infinito. Prodotti globali, ma non globalizzati, come la serie indiana “Leila”, ambientata in un futuro distopico, che utilizza linguaggi che al cinema non funzionavano e trovano maggiore riscontro nelle piattaforme digitali, intercettando la fascia cosiddetta “young adults”, quella tra i 14 e i 40 anni, che raramente al cinema riesci a mettere insieme. Funziona molto bene il genere teenager, che prima era per lo più di provenienza statunitense e ora non è prodotto più solo negli Usa, e anche in questo caso nascono produzioni territoriali che, al netto della globalizzazione, segnano una riconquista dell’identità. Un’identità che però impara anche a contaminarsi. Sono risvolti interessantissimi sul versante della produzione, poiché non è una produzione piatta: possiamo dire che il cinema più sperimentale, quello di nicchia, è sbarcato in tv. Ciò che prima scoprivi sul grande schermo oggi lo scopri sulle piattaforme».

Questa nuova domanda compensa le perdite dei canali tradizionali?

«No, ad oggi sono due mondi separati. I produttori possono anche essere gli stessi, ma le partite sono diverse».

In primavera, però, lei aveva parlato della possibilità di attivare un canale di streaming a pagamento per i film in prima visione.

«Vero, abbiamo provato a realizzare una piattaforma digitale del cinema, anche considerando che sarebbero state accorciate moltissimo le teniture: rispetto a prima, i film restavano in programmazione per un tempo molto più breve. Grazie alla rete, una serie di sei o sette anni fa la puoi vedere oggi. Allo stesso, il pubblico potrebbe vedere a casa i film che si è perso al cinema. Ma è una dimensione del prossimo futuro».

È preoccupato per il futuro del settore?

«Non più di tanto. Una cosa è certa: bisogna ripensare le modalità di fruizione, ma il cinema al cinema non morirà. Ad oggi, nonostante le guerre mondiali e l’influenza spagnola, tutti i media che la civiltà ha prodotto esistono ancora. Il teatro, nato in Grecia, la carta stampata, la radio, il cinema, la tv. Certo, nell’immediato dopoguerra, quando non aveva concorrenza, in Italia il cinema era un mercato da 800 milioni di biglietti l’anno. Un periodo d’oro raccontato in “Nuovo cinema Paradiso”. Poi è sceso a 70 milioni negli anni ’80 e risalito a 300 milioni negli anni Duemila, quando le multisale e i grandi multiplex sono stati la risposta alla crisi e alla desertificazione di interi comuni che non avevano più una sala: abbiamo imitato il modello americano. Negli anni ’80, erano chiusi quasi tutti i cinema di Napoli. Nel 1994, quando aprii il Modernissimo, uno spazio chiuso da sei anni, molti pensarono che ero pazzo. Invece, aprii nel centro di Napoli il primo multisala del Mezzogiorno, dove per primi facemmo un grande investimento per installare un impianto audio Dolby Stereo in tutte le sale, così come abbiamo fatto all’Happy con la tecnologia Imax».

Insomma, «la crisi come opportunità» non è soltanto una locuzione autoconsolatoria.

«Niente affatto. Ma ad una crisi puoi resistere solo se sei adeguato ad avere una reazione pronta ed efficace. Nella crisi di quarant’anni fa ci fu innovazione, ma è evidente che non tutti ce la faranno. Però una domanda dobbiamo porcela: come dovranno essere i cinema dopo il Covid? Io credo che i grandi contenitori omnicomprensivi potranno diventare dei poli culturali importanti. E anche la fruizione, come dicevo, cambierà: i cinema potranno proporre un prodotto che poi magari va sulle piattaforme on demand, come i film di Giorgio Verdelli su Paolo Conte e su Pino Daniele».

Dunque, questa pandemia determinerà un nuovo ordine mondiale anche per l’intrattenimento?

«Non c’è dubbio. Nel dramma del Covid c’è un’accelerazione della digitalizzazione di interi settori che avrebbe richiesto molto più tempo, per non parlare dello smart working. Questo comporta flessibilità, elasticità e adattività rispetto alle esigenze delle aziende e delle singole persone. Per carità, l’isolamento è negativo, ma dipende da come si declina. Ad esempio, alcuni uffici enormi saranno inutili. Questo vuol dire che risparmieremo cemento ed elettricità e non consumeremo altra terra. E, perché no, potrebbe preludere ad una riconversione in chiave sociale degli spazi immobiliari e degli spazi architettonici. Quello che fa la differenza è sempre l’intenzione».

L’Agis, intanto, ha protestato per le chiusure. Il presidente nazionale, Carlo Fontana, sostiene che cinema e teatri sono luoghi sicuri e che la loro chiusura è ingiustamente punitiva. E sui media si sono susseguiti diversi appelli, anche molto autorevoli, in difesa degli spazi culturali. Che cosa ne pensa?

«Sono contrario a questa posizione: oggi dobbiamo navigare uniti. E certi appelli, senza volerlo, finiscono per dividere. Avrei detto, piuttosto: siamo disperati, aiutateci. Intanto, siamo a disposizione, diteci che cosa possiamo fare. Vivo di cinema, ma non posso ignorare la realtà che c’è intorno. Facendo leva sul piano emozionale, è facile raccogliere tante firme con certi appelli, ma a mio avviso il problema va affrontato in modo diverso: il cinema è il posto più sicuro? No, il cinema è il posto meno insicuro. Ma da qualche parte bisogna cominciare. Francamente, ho trovato le proteste comprensibili ma inadeguate. Per questo, non ho firmato nulla».

Il ministro della Cultura, Franceschini – che inizialmente aveva provato ad opporsi alla decisione di chiudere cinema e teatri, successivamente ha tagliato corto, sottolineando che la salute viene prima di tutto.

«La penso così anch’io. Si può criticare, ma non sono d’accordo con le rivendicazioni di settore: la sommatoria degli egoismi non può portarci da nessuna parte. Quelli che lavorano nel mondo della cultura dovrebbero vigilare su ben altro: sulla salute e sulla scuola, che ha un forte contenuto esperienziale, per cui non si può fare soltanto a distanza. E poi c’è il tema dei trasporti: le risorse, se ci sono, vanno concentrate lì. Lo stesso sovrintendente del San Carlo, Lissner, ha detto che è il momento che la cultura ascolti gli altri».

Invece, ognuno rivendica la propria salvezza in nome di una presunta superiorità.

«Un atteggiamento che denota miopia. Per me, in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo, prima di ogni altra cosa, oltre alla salute e alla scuola, viene il lavoro. E parlo anche dei lavoratori non garantiti, che a Napoli sono una grande fetta. Certo, dovremo accollarci un grosso debito, ma è come ricostruire dopo un terremoto, e abbiamo l’opportunità di farlo in termini di innovazione. Intanto, bisogna salvare le persone sul piano sanitario ed economico. Per non scatenare una guerra tra classi e tra categorie produttive che oggi si trovano unite, ma domani potrebbero arrivare allo scontro. Le rivolte, sia per strada che su internet, non servono a niente. I conti si faranno dopo. In questo momento, dentro una tempesta inaudita, si sta uniti e si aiuta il timoniere».

Un modo per dire che in un sistema di vasi comunicanti, come quello del quale siamo parte, o ci salviamo tutti insieme o moriamo tutti insieme.

«Proprio così, siamo tutti in interdipendenza. È l’ecologia della vita: siamo tutti collegati, tutti sulla stessa barca. L’egoismo non può che portare ad altri conflitti. Per pensare a te stesso in modo intelligente, devi pensare agli altri».

Del resto, anche i mesi della riapertura, tra maggio ed ottobre, per voi sono stati difficili.

«Certo. Tra distanze, rispetto delle norme e personale da istruire, sono stati mesi complicati. Siamo stati aperti in forma testimoniale, nella speranza di un ritorno ad una normalità che oggi è rimandata come minimo all’anno prossimo. Se dobbiamo riaprire con le sale semivuote, è meglio aspettare che la tempesta passi. E in ogni caso, lo ripeto, quando passerà, sarà un mercato diverso».

La politica, secondo lei, ha commesso degli errori?

«Sì: doveva affrontare il problema dei trasporti. E poi serve una collaborazione istituzionale incondizionata: se invece di fare marketing elettorale, i nostri governanti fossero stati uniti, oggi forse saremmo messi meglio. Lo stesso dicasi per i virologi che polemizzano l’uno con l’altro. Purtroppo i timonieri non sono all’altezza di una pandemia mai affrontata prima, mentre su una cosa che riguarda la vita dei cittadini servirebbe il massimo grado di responsabilità».

I set continuano a lavorare?

«Sì, il codice Ateco delle produzioni cinematografiche è lo stesso dei telegiornali, sono cantieri industriali controllabili. Se c’è un lavoratore positivo al virus, si blocca tutto per qualche giorno e poi si riprende. Questo stop and go ha spinto qualcuno a desistere in attesa di tempi migliori, e questo ha generato una carenza di prodotto: le riprese di Mission impossible, ad esempio, si sono bloccate. Ma, guardando in casa nostra, c’è chi, come Paolo Sorrentino, sta girando, mentre sono state ultimate le riprese di “Benvenuti in casa Esposito”. Allo stesso modo sono aperti, con le cautele del caso, i set di “Mina settembre”, di Ricciardi e dei “Bastardi di Pizzofalcone”. Tra poco parte il set de “Il silenzio grande”, diretto da Alessandro Gassman, con Margherita Buy e Massimiliano Gallo, tratto da testo di Maurizio de Giovanni già rappresentato a teatro».

È soddisfatto per le misure a sostegno del comparto contenute nel Decreto ristori? Il governo ha previsto per i cinema indennizzi doppi rispetto a quelli ottenuti per la chiusura precedente e ha stanziato mille euro per tutti i lavoratori dello spettacolo. Inoltre, ha attivato il Fondo emergenze cinema e spettacolo con 100 milioni di euro e il Fondo emergenze imprese e istituzioni culturali con 50 milioni di euro. Può bastare a frenare la caduta?

«Penso che ci sia un’attenzione del ministro Franceschini nei limiti di una perdita non recuperabile, come sarà per altre attività. Ci sono stati aiuti da parte del governo, tra credito di imposta e aumento del Fus (il Fondo unico per lo spettacolo, ndr). E c’è la cassa integrazione, che oggi si applica anche ai lavoratori delle sale cinema. Inoltre, la Regione Campania ha annunciato un proprio stanziamento a supporto di teatri e cinema, mostrando attenzione al comparto cultura anche per la sua funzione economica: in questo settore, che viveva un momento di espansione, ci sono professionalità e lavoratori specializzati. Un mondo al quale ha pensato Netflix, dando un piccolo contributo a tutte le Film Commission d’Italia, da destinare alle maestranze. Sono piccoli aiuti, ma ci sono stati».