Martiniello: Sui contenitori urbani dismessi, idee approssimative e sperpero di soldi. Manca una visione che metta al centro la dignità dell'uomo.

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Il messaggio è chiaro: prima delle braccia, devono lavorare i cervelli. A definire le coordinate è Antonio Martiniello, architetto che prima si è formato alla Technische Universitat di Graz, in Austria, e poi, quasi dieci anni fa, s'è messo in testa con altri soci di cambiare il volto e il tessuto urbano di quel pezzo di Napoli che pullula intorno a Porta Capuana.

Architetto Martiniello, le nostre città ospitano un gran numero di edifici abbandonati: giganti di cemento che un tempo furono caserme, ospedali, conventi e che oggi languono tristemente, svuotati delle persone e, dunque, di senso. Come si restituisce una funzione ai "contenitori" urbani dismessi?

«Se non si riesce ad uscire da questo stallo è perché anche quando arrivano i fondi, soprattutto al Sud, manca la progettualità. Un esempio: sono stati stanziati dei fondi pubblici per l'Ospedale della Pace di via dei Tribunali, ma se vai a leggere cosa ci faranno dentro, capisci sin d'ora che sarà un fallimento: si tratta di idee obsolete e approssimative. E penso anche all'Asilo Filangieri, che è stato occupato da alcuni gruppi di cittadini e da comitati, ma non è così che funziona. La vera svolta, se si vuole recuperare in modo serio questo patrimonio, si può avere soltanto progettando a monte i contenuti. Prima di iniziare qualsiasi intervento, bisogna sapere con chiarezza che cosa si intende fare in quegli spazi».

Intende dire che i locali vanno ristrutturati in ragione della funzione che dovranno svolgere?

«Proprio così. Prima di entrare in quegli edifici, vanno progettati a monte i contenuti. Invece ci si inventa una funzione giusto per non perdere i finanziamenti, che spesso arrivano dalla Ue, e si fanno i lavori. Poi cambiano i politici, cambiano gli interessi e ci si accorge che è tutto da rifare. Ma c'è anche un altro interrogativo che quasi mai ci si pone».

Quale?

«Subito dopo essersi domandati quale uso si vuol fare di un edificio, bisogna domandarsi chi lo gestirà. Anche di questo, solitamente, nessuno si preoccupa».

Insomma: i contenitori abbondano, ma i contenuti latitano o sono scadenti.

«Purtroppo è così. All'Albergo dei Poveri, un edificio tanto bello quanto imponente, sono stati spesi milioni e milioni di euro. Una parte è stata terminata, ma sta ancora lì ad aspettare che qualcuno decida cosa farne. Bisogna essere molto concreti: il mercato chiede se un investimento di quel tipo si finanzia, se è sostenibile sul piano finanziario. Se la risposta è no, gli edifici abbandonati lasciamoli lì dove sono».

La sua esperienza in uno dei tanti contenitori urbani abbandonati, l'ex Lanificio di Porta Capuana, è tra le più interessanti in Campania, e non solo. Che cosa le ha insegnato?

«Quando ho preso il Lanificio con la mia ex socia (parte dell'immobile resta della Regione, ndr), ho deciso di portarci dentro la cooperativa Dedalus, che lavora sul territorio con l'idea di creare lavoro per uomini e donne svantaggiate della zona. Tutti parlano di rigenerazione urbana, un tema di gran moda, ma pochi sanno veramente che cos'è. Io credo che una vera rigenerazione possa avvenire soltanto attraverso la riconversione sociale. Si tratta di dare dignità all'uomo, e c'è un solo modo per farlo: dare lavoro. Con queste idee abbiamo portato a Napoli il celebre artista americano Jimmie Durham (premiato di recente con il Leone d'Oro alla Carriera alla 58. Biennale d'Arte di Venezia, ndr), che nel Lanificio ha comprato un immobile nel quale ha insediato un laboratorio. Lì Duhram accoglie altri artisti e produce opere, collaborando con Dedalus».

Voi come fate?

«Servono intraprendenza e idee. Con Officina Keller (lo studio di progettazione che Martiniello ha fondato in Austria e ha trasferito nella sua città natìa, ndr) il lavoro lo inventiamo, puntando sulla capacità di fare con le mani. I saperi che stanno scomparendo, le abilità degli artigiani, sono alla base della nostra conoscenza. E allora, dico agli artigiani: noi vi troviamo una nuova clientela legata all'arte contemporanea e al design, voi insegnate il mestiere a cittadini italiani svantaggiati ed extracomunitari».

C'è già qualche risultato tangibile?

«Sì, un albanese indicatomi da Dedalus, che è stato formato grazie ai finanziamenti dalla Regione Campania e ha fatto uno stage presso una bottega, ha ingegnerizzato un fermalibro disegnato dall'artista Rosy Rox. Inoltre, Dedalus ci ha fornito due napoletani che hanno imparato ad usare le macchine a taglio laser per la produzione in serie di questo oggetto, che poi viene rifinito a mano».

Una piccola produzione che, oltre all'artista e all'artigiano, coinvolge tre persone.

«Ed è solo un esempio. Un format del genere può essere applicato a qualsiasi realtà».

Ma fondamentali sono anche le sinergie con gli altri soggetti produttivi, istituzionali e culturali del quartiere.

«Certo. Per questo abbiamo chiuso un accordo con la Fondazione Morra Greco e con l'Istituto Lupt della Federico II, che si occupa della parte scientifica e della ricerca per la formazione dei napoletani e dei migranti nella produzione di opere d'arte contemporanea. E lavoriamo a stretto contatto con il Madre, dove la presidente Laura Valente sta portando avanti un lavoro straordinario. Con lei abbiamo promosso un censimento di tutti i locali commerciali ai piani terra di via Carbonara e via Settembrini, strade che possono diventare il laboratorio di una rinascita. E l'assessore comunale Alessandra Clemente si è resa disponibile ad applicare canoni agevolati e sgravi fiscali per gli inquilini. L'obiettivo è quello di occupare gli spazi vuoti, affinché non diventino discariche. Così si combattono il degrado ambientale e le attività illegali. Se manca questo, rifare via Carbonara serve a poco. Se una riqualificazione non viene gestita, se non viene guidata, iniziano gli atti di vandalismo. Ma la politica questo non lo capisce».

Tra il Lanificio e il Madre, peraltro, si concentra un'offerta culturale imponente.

«La Fondazione Morra Greco, il Museo Filangieri, fino a salire verso l'Orto Botanico e l'Albergo dei Poveri da una parte e il Mann dall'altra. Ma purtroppo manca una visione».

Partendo dalla cultura, state progettando una bonifica sociale.

«Esattamente. Anche la zona di piazza Mercato, con tutte le stradine circostanti, che da anni si è spopolata, tornerebbe a nuova vita con un intervento simile. Una ripopolazione cambierebbe il volto del quartiere».

Gli edifici abitati, invece, cadono a pezzi. E c'è chi perfino ci muore.

«Torniamo sempre al tema della gestione. C'è una legge che in caso di necessità impone ai Comuni e alle Soprintendenze di agire in danno. Ma i Comuni non hanno i soldi, e allora non si fa niente. Così, i cornicioni ci cadono addosso. E le reti verdi che restano lì per anni servono a poco. Se non si riescono ad applicare le leggi come accade in altre città, bisogna trovare un'altra via per risolvere il problema. Il fatto è che troppe volte gli amministratori si limitano a pensare alla prospettiva del loro mandato, agendo in modo superficiale e sbrigativo. L'idea di lasciare qualcosa di buono ai posteri è molto rara».

Se non altro, l'economia urbana sta respirando grazie al turismo.

«Per adeguarsi a questo turismo becero, low cost ed effimero, il nostro centro storico, ormai tra i pochi non "plastificati", si sta riempiendo di b&b e si sta trasformando. In questo modo, si altera l'identità dei luoghi. Perché il vero patrimonio dell'Unesco è l'umanità di Napoli. Ma sono convinto che questo boom non durerà molto: dai trasporti ai bagni pubblici, Napoli non offre servizi».