Martone: «È lo scudetto della città, chi dice il contrario sbaglia»

Il regista avverte: «Diamo fiducia ai ragazzi di Napoli come abbiamo fatto con i nuovi calciatori. Grazie a loro possiamo continuare a vincere»

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Il patto è guardare avanti. Meglio: continuare a farlo. È lì che bisogna puntare la bussola, e questo scudetto arrivato da cielo in terra a miracol mostrare è la stella polare che indica la via. Una direzione che, assicura Mario Martone, Napoli ha già intrapreso da un po’, promuovendo un passaggio di testimone tra generazioni che oggi proietta speranze e desideri dal rettangolo verde al Plebiscito, dagli spogliatoi del Maradona ai vicoli dei Quartieri, dalle facce dei ventenni milionari in maglia azzurra a quelle di coetanei qualunque che inventano ogni giorno il loro destino tra il golfo e la collina.

Le fortune della città stanno tutte nelle mani di quest’avanguardia di uomini nuovi: in qualsiasi campo, non solo su quello di calcio. Martone, ora al teatro San Ferdinando con "Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo", dramma in tre atti scritto da Fabrizia Ramondino e portato in scena con la collaborazione di Ippolita Di Majo, ne è convinto. E spiega che proprio grazie a quell’avanguardia la città sta allargando finalmente il proprio respiro oltre gli angusti confini del centro. Lui che il suo Osimhen l’ha trovato in Francesco Di Leva, talento sbocciato nella feconda ostilità della periferia Est e consacrato ai David di Donatello per la sua prova d’attore in “Nostalgia”, il film che ha collezionato ben nove candidature.

Il regista snocciola le sue semplici istruzioni per un futuro che – avverte - è già qui. E ai guastafeste che teorizzano dai loro pulpiti un’appropriazione indebita del successo sportivo da parte del popolo, sacerdoti di un disfattismo elitista in servizio permanente effettivo, risponde con nettezza: «Questo scudetto appartiene alla città, non c’è alcun dubbio».

Martone, possibile che questa città, che spesso si disgrega fino a farsi del male, riesca a stringersi solo intorno ad un pallone?

«Guardi, io in questo momento ho voglia di essere positivo ed ho grande fiducia nei suoi giovani, nei nostri giovani. Qualcuno dice che non conoscono quello che abbiamo fatto e vissuto noi. Bene, e chi se ne frega? A un certo punto la città sarà pure loro, no?».

Dobbiamo abbandonare il passatismo e fare largo ai ragazzi.

«Assolutamente, bisogna mettere totalmente da parte il passatismo. Io penso che questo scudetto debba parlare di futuro. Vado a presentare “Laggiù qualcuno mi ama” (il docufilm di Martone su Massimo Troisi, ndr) nelle scuole, nei giorni scorsi sono stato a Nola, a San Giovanni a Teduccio. Ho incontrato tanti studenti, mi interessa il dialogo con loro, e ho scoperto che su 300 ragazzi nessuno sapeva chi è Federico Fellini. Questo è un problema? No, per me non lo è. Ovviamente mi dispiace, ma le questioni che pongono sono molto interessanti, molto intelligenti. Che cosa vuol dire? Che c’è un punto e a capo. È chiaro che per noi che siamo di un’altra generazione scoprire che non conoscono Fellini può essere vertiginoso, però succede che le cose vanno avanti. Questa squadra lo ha dimostrato in una maniera totale, perché è una squadra di giovanissimi che non avevano sulle spalle il peso di un passato da grandi campioni con ingaggi importanti, dai quali tutti si aspettavano chissà cosa. Invece no, non si aspettava niente nessuno. Se il Napoli quest’anno fosse andato una schifezza, tutti avrebbero detto: “certo, che poteva succedere con una squadra di ragazzini?”. E invece è successa un’altra cosa. Ecco, in questo senso ho voglia di dare fiducia alla città. Poi sappiamo benissimo che ci sono tante cose che non vanno, è inutile fare l’elenco dei mali di Napoli».

Qualche bastian contrario ha alzato il dito, invitando la città in festa a non equivocare: «Attenzione, è lo scudetto della società e della squadra, non del popolo», si è detto. Che ne pensa?

«Non sono per niente d’accordo. Questo è uno scudetto della città, ne sono convintissimo. Anche simbolicamente. Penso che una squadra di calcio sia un fenomeno complesso, non si può pensare di tenere i tifosi fuori da una cosa simile. La città può accogliere lo scudetto come un fatto che le appartiene, niente affatto estraneo. E poi, ripeto, i simboli sono importanti. Il fatto che questo scudetto arrivi in una città in cui si sente tutta la voglia di cambiare pagina è una cosa significativa. La vittoria della squadra intercetta qualcosa che dentro Napoli si sta muovendo da un po’ di tempo. Se Aurelio De Laurentiis avesse portato campioni famosissimi, mettendo su una specie di Harlem Globetrotters del calcio, avrebbe potuto usare Napoli come sfondo del suo progetto. Qui invece c’è stata squadra giovane, ed è bastato poco perché i tifosi si accorgessero del valore di questi ragazzi. E dal momento in cui se ne sono accorti è nato un grande sostegno».

I tifosi si sono fidati dei giovani calciatori come noi dovremmo fare con i ragazzi di questa città.

«Esatto, poi a me piace lavorare coi giovani perché quando io ero ragazzo ho avuto molto da chi era più grande di me: ho incontrato persone che mi hanno dato attenzione, quindi oggi sento di dover restituire. E poi quello che ti possono dire le persone più giovani sono cose che magari non ti aspetti, ed è meglio così: ti capisci meglio e ti capisci meglio nel tuo tempo. Questo che festeggiamo, però, è un successo che non nasce oggi. Quando con Bassolino ci fu il famoso “rinascimento napoletano”, io mi affannavo a dire che eravamo ben contenti del fatto che Bassolino fosse sindaco e che avesse fatto una serie di cose buone, tra l’altro considerando che l’alternativa era Alessandra Mussolini. Al tempo stesso, però, sostenevo che la sua elezione, con tutto quello che ne conseguiva, era un effetto, non una causa. Quello che da anni a Napoli si stava seminando in un contesto culturale, sociale e politico alternativo, fuori dai giochi di potere e fuori da meccanismi di scambio, la resistenza culturale degli anni ’80 che dopo il terremoto si è manifestata nella musica, nel teatro, nell’arte e non solo, ha fatto sì che Bassolino diventasse sindaco e che siano venuti anni interessanti per la città. Oggi con lo scudetto sta accadendo qualcosa di simile».

Però questa città contiene diverse città che non si conoscono e spesso neanche si riconosconoPezzi di popolazione che tra loro non si parlano, e se si parlano molte volte non si capiscono. Il miracolo laico dello scudetto, perpendicolare ai ceti, può dispiegare i suoi effetti anche oltre il momento del tripudio collettivo?

«Certo, ma non facciamo l’errore di pensare che tutto comincia con lo scudetto. No: tutto comincia col lavoro di tante persone, di tanti gruppi che negli ultimi anni stanno provando a plasmare Napoli in una maniera nuova. A questo proposito, trovo molto importante l’erosione dei muri che per decenni hanno separato il centro dalle periferie. Una po’ alla volta quella distanza si comincia a colmare. Naturalmente, cito avamposti culturali come il Nest, ma ci sono mille altre ragioni per cui piano piano dalla periferia Est a Soccavo, a Pianura finalmente  la città comincia ad allargarsi. Oggi le cose più interessanti vengono dalla periferia, non dal centro. Questa è un’inversione mica da poco. Insomma, dopo molto tempo cominciamo a fare in modo che quei muri non siano più invalicabili».

Ma questa inversione viene solo dal basso o è sostenuta dalle istituzioni?

«Le spinte qui vengono sempre dal basso. Napoli lo sappiamo è una città molto capace di autogovernarsi questo è un grande problema per i politici. Molte di queste spinte vengono intercettate, e a forza di insistere prima o poi si riesce ad ottenere un’attenzione. È chiaro che è un percorso, però effettivamente quest’inversione di tendenza c’è. Oggi cominciamo a parlare di Napoli come di una città metropolitana con uno sguardo che non si ferma a contemplare solo la bellezza del centro storico».

Insomma, cominciamo a guardare la città nella sua complessità.

«Cominciamo a guardarla come una grande area metropolitana. Io già dagli anni ’80, quando ero ragazzino, l’ho sempre vissuta e sognata e raccontata così. Una città dove a questo punto occorre domandarsi: cosa faranno i giovani? Dobbiamo pensare che c’è una generazione che non riceve niente da noi, se non rottami. Ragazzi che non hanno la possibilità di un lavoro fisso che devono piantare le tende davanti alle università per dire che non possono pagare le rette e gli affitti. Però è anche vero che esiste l’elaborazione di un linguaggio nuovo all’interno del quale può anche succedere che non si conosca Federico Fellini ma in cui emerge un mondo di persone che dice: “adesso giochiamo con le nostre regole, proviamo ad inventarne noi di nuove. Io credo che bisogna soprattutto dare fiducia. Se dovessi dare un consiglio a chi governo direi di fidarsi dei giovani».

Il Napoli campione d’Italia è in scia col cambiamento di una città che reclamava una nuova narrazione?

«Direi proprio di sì. Questo Napoli è un capolavoro di Aurelio De Laurentiis, che al di là del suo carattere ha dimostrato grandi doti di imprenditore, fiuto e coraggio. Chiaro, parliamo di una squadra di calcio, ma da diversi anni Napoli sta risalendo la china, non comincia tutto con lo scudetto. Nel cambiamento in atto c’è il lavoro di tante persone, ci sono tante cose che sono successe. Lo scudetto arriva all’interno di questo quadro e ne diventa il grande simbolo. Chi stava già operando per una visione nuova della città non può che trarne linfa».

Di converso, il successo sportivo si è tramutato in un’operazione di marketing turistico a costo zero senza precedenti per la città.

«Vero. Quando si parla di turismo a Napoli, però, si parla spesso del folklore. Ma questo recitare se stesse da parte delle città famose nel mondo che attraggono turisti ormai è un fatto generalizzato: non è che vai in un altro posto e non accade. Succede ovunque poiché si tratta di una dinamica globale».

Vuol dire che ricalcare i cliché è inevitabile?

«Sì. Chiaramente a me non piace. Da ragazzino mi divertivo ad andare in giro a scoprire le cose che non avevo mai visto, ora è difficile scoprire qualcosa che non hai già visto in rete. Ma anche in questo caso non ha senso rimpiangere il bel tempo perduto, meglio guardare le cose come stanno. Del resto, Napoli questa parte la recita meglio di altre città, non fosse altro che per il fatto che l’ha sempre recitata».

Non crede, però, che da queste parti piuttosto che veder vincere l’altro si preferisce affondare tutti insieme?

«La parabola essenziale per capire tante cose di Napoli è “Maestà, cecateme n'uocchio!”, questo lo sappiamo (il riferimento è alla risposta che secondo un antico aneddoto un cocchiere diede a Ferdinando di Borbone quando gli chiese che cosa desiderasse, aggiungendo che al suo collega avrebbe dato il doppio, ndr). Però io già a 17 anni guardavo a questo aspetto come a una cosa della quale bisognava fregarsene, altrimenti non si fa niente. Devi guardarti alle cose con amore e passione. Che ci vuole a guardare tutto nero? Sì, ci sono i momenti in cui le cose vanno dette e denunciate. Per esempio, io non dimentico il post terremoto con il sacco della città tra politica e camorra. Adesso ci sono mille questioni, ci possono essere cose che non ti piacciono, ma non c’è una situazione del genere. Per carità, io ho sempre avuto uno sguardo vigile e critico, e ce l’ho ancora adesso. Però ci sono momenti e momenti. E questo è un momento in cui secondo me si deve prendere tutta la forza dello slancio. Mi sembra più interessante questo che la solita lamentazione sui mali di Napoli, che secondo me non portano da nessuna parte. Oggi forse è meglio se si apre qualche prospettiva che forse da qualche parte può portare. Poi, certo, ci vogliono pure gli Spalletti e un’organizzazione come quella della società azzurra. Anche questi aspetti vanno presi ad esempio. Il problema è che a volte la politica ci mette il suo».

Ecco, a proposito: la discordia istituzionale tra sindaco e governatore non conforta.

«Beh, i litigi fanno parte del quadro, non starei a guardare questo. Vediamo che cosa viene fuori dai conflitti, comunque qualcosa nascerà. Naturalmente, quando si tagliano inopinatamente 2 milioni al Teatro di Napoli ci si domanda: che succede? E lo stesso vale per altre questioni. Ma non possiamo non vedere quello che la Regione ha fatto in questi anni. E ha fatto un sacco di cose molto importanti, questo va detto».