Mascilli Migliorini: «Autonomie, una condanna per il Sud»

Lo storico: «Per una vera autodeterminazione bisognerebbe partire ad armi pari». Sulle elezioni: «Le liste bloccate sono un danno alla democrazia»

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Mentre L'Istat lancia l'allarme sul «pericolo di involuzione demografica» e parla di «Mezzogiorno al collasso», invocando interventi urgenti e decisivi, molti Comuni campani scontano un grave ritardo nella partita del Pnrr, che pure dovrebbe restituire ossigeno alla parte più svantaggiata del Paese.

Niente di nuovo, s'intenda: delle carenze di personale e di competenze su progettazione e capacità di spesa dei fondi europei si è già parlato diffusamente anche sulle colonne di "Nagorà". Ma sull'Italia più debole si allunga adesso anche l'ombra dell'autonomia. Un sostantivo al quale sta aggrappato quell'aggettivo - «differenziata» - nel quale in tanti ravvedono le premesse per un allargamento di un baratro che riduce il carattere unitario della nazione ad una dimensione poco più che formale.

Sulla natura nefasta di una rivoluzione che in ogni caso modificherebbe i rapporti di forza tra i territori, Luigi Mascilli Migliorini, docente di Storia moderna all'Università Orientale di Napoli, membro dell'Accademia dei Lincei e direttore della Rivista storica italiana, non ha dubbi: «Solo dopo aver dotato il Mezzogiorno di strutture diverse da quelle attuali si potrebbe dire che ciascuno si gioca la sua partita», afferma lo storico, autore di molti saggi e collaboratore di diversi quotidiani. E, respingendo al mittente la visione di quanti individuano nelle autonomie l'opportunità per un'autodeterminazione del Mezzogiorno, formula un appassionato invito a scavare sotto la coltre del conformismo informativo.

Professore, perché a settembre in Italia ha vinto la destra?

«I livelli di risposta sono molti. Il più politico, che però è un elemento di superficie, è l'assoluta inconsistenza dell'alternativa. I risultati elettorali sono abbastanza evidenti in questo senso. Con una coalizione di segno diverso, il risultato sarebbe stato aperto. Invece, mentre la destra si è presentata unita pur non essendolo mai stata e non essendolo nemmeno oggi, le forze non di sinistra, ma non di destra, non hanno ritenuto utile compiere uno sforzo significativo per fare la stessa cosa. Poi ci sono ragioni più profonde: la storia ci dice che l'elettorato italiano in occasione di appuntamenti decisivi, dal 18 aprile 1948 a Berlusconi, preferisce correre il rischio della destra anziché quello della sinistra. In questo senso, possiamo dire che nell'orientamento dei propri destini sia più moderato e saggio di quanto possiamo immaginare. Pur considerando che questa non è una sinistra che si presenta coi baffi Stalin, ma incarna un sistema lobbistico della gestione del potere. Il Pd è stato al governo per un arco di tempo largamente superiore a quello che i suffragi elettorali gli avrebbero consentito. Perdeva regolarmente le elezioni, ma le formule elettorali gli garantivano ogni volta una sopravvivenza al governo. Basti pensare a tutti i governi di emergenza a vario titolo esibiti. L'ultima vittoria elettorale, peraltro risicatissima, risale alla formazione del governo Prodi, nel 2006. Dopo, si è registrata una serie di risultati incerti, sempre sterilizzati da governi tecnici formati con chiamate alle armi che vedevano nel Partito Democratico il paladino più intransigente. È stato così anche nel caso del governo Draghi, con il Pd che, terminata quell'esperienza, si è presentato come il continuatore della cosiddetta "Agenda Draghi". Non proprio dei capolavori di consenso elettorale e, soprattutto, di consenso sociale».

Di fronte allo scenario che ha appena descritto, in molti hanno deciso di non esercitare il proprio diritto di voto: nei seggi è entrato solo il 64 per cento degli aventi diritto. Anche quella è stata una scelta politica, non crede?

«Ne sono convinto. Si fa presto a dire astensione, bisognerebbe invece intercettare e mobilitare il partito del non voto. Si tratta di un partito serio, che se si palesasse in una qualche maniera potrebbe incidere sul dibattito pubblico. Esprime un rifiuto dei termini entro i quali si sta svolgendo il discorso politico, e questo riguarda tutti gli schieramenti. Certo, si può dire che tutte le grandi democrazie vivono con bassi livelli di partecipazione, ma bisogna vedere come sono articolate le istituzioni. Un Paese così fortemente politicizzato attraverso i partiti come l'Italia non può essere paragonato alla Francia o alla Germania, dove esistono forme alternative ai partiti come l'associazionismo».

Per quale motivo lo spazio dell'esercizio democratico in Italia si è ristretto così tanto?

«Uno degli elementi determinanti è stato lo sciagurato rincorrersi di leggi elettorali una peggiore dell'altra. L'unica cosa sulla quale tutte le forze politiche si sono trovate d'accordo è stata la nomina dall'alto. Eravamo partiti col dire che le preferenze non andavano bene e volevamo l'uninominale e ci siamo ridotti a questa roba qui. Come vuole che alla gente non venga voglia di non votare? Su questo la sordità delle forze politiche è stata straordinaria. Poi ci sono ragioni più profonde, ma basta questo per decidere di astenersi».

Stando alle dichiarazioni, il Rosatellum non piaceva a nessuno, eppure è rimasto com'era.

«Appunto. Si possono trovare diversi cocktail per esprimere il consenso, secondo me il proporzionale è sempre la foto migliore della società italiana. L'articolazione plurale si riflette nella nostra capacità di germinare forze politiche: i partiti repubblicani e liberali, ad esempio, viaggiavano all'1,5 o al 2 per cento, ma avevano il loro spazio e c'era gente che ci si riconosceva. Lo scandalo non sta nella pluralità delle forze politiche, che corrisponde molto meglio dell'uninominale alla conformazione del Paese, ma nel problema delle liste bloccate, che ha negato agli elettori una vera possibilità di scelta».

Che cosa c'è da attendersi per il Sud? Due ministri napoletani sono una garanzia di attenzione?

«Guardi, se l'alternativa era l'Agenda Draghi, possiamo dare fiducia a tutti. Di fronte ad un caso così clamoroso di sottovalutazione del Mezzogiorno - e ricorro ad un eufemismo – per cui al Sud spettavano solo un po' di mance nell'ossatura del Pnrr, possiamo dare fiducia anche a governi di destra. Premesso questo, non mi sembra che questo governo abbia un'idea chiara del Mezzogiorno. Ha qualche ministro più o meno ciarliero, sì. Ma bisogna domandarsi come si configuri il rapporto della destra con il Mezzogiorno. In passato c'è stato il moderatismo del Msi, che era fatto di avvocati e di uomini d'ordine non troppo spietati. Tratti che si possono ritrovare anche in qualche ministro attuale. A Napoli c'era un partito monarchico con un senso dello Stato che ha espresso un sindaco dinamico come Lauro: non è stata un'esperienza storica da sottovalutare. Ma dove è finito tutto questo? È rimasta sottotraccia una mentalità per cui il Sud è un serbatoio elettorale. Il che sottende alcune retoriche molto chiare. Le azioni pratiche, però, sono nulle. Invece si dovrebbe presupporre che Fratelli d'Italia si smarcasse da due forze chiaramente alleate nel perseguimento degli interessi delle regioni settentrionali come la Lega e Forza Italia. Un pacchetto importante dei loro voti sta al Nord».

Ritiene che sia concreto ed effettivo il rischio che l'autonomia differenziata condanni il Sud, finendo di affossarlo?

«Non c'è ombra di dubbio. Quello che nessuno dice è che le autonomie differenziate ce le abbiamo già. Se prende tutte la legislazione universitaria degli ultimi vent'anni, in cui abbiamo avuto per lo più ministri di destra, anche se non sempre in maniera esibita, si rende conto che ha favorito le università del Nord. Se il nostro sindaco conducesse queste battaglie, si ritroverebbe dietro molte persone. La parametrazione è tale da favorire le università settentrionali. Da qui la fuga dei cervelli e l'esportazione di competenze, che impoverisce il Sud Italia. E l'autonomia la ritroviamo anche negli indicatori della spesa pubblica e della sanità. Del resto, come potevamo pensare di poter uscire indenni trent'anni di leghismo e di berlusconismo? E no, non sarà certo questo governo ad invertire la tendenza».

Che cosa risponde a chi rinviene nelle autonomie l'occasione per la tanto invocata assunzione di responsabilità da parte del Sud?

«Se prende tutta la letteratura pre-risorgimentale e post-risorgimentale si rende conto di come la questione dell'autonomia sia agitata dalle forze democratiche. Da Salvemini a Dorso, si parla di autogoverno come obiettivo da raggiungere addirittura arrivando a teorizzare una natura federata. Ma bisogna dotare il Mezzogiorno di strutture diverse da quelle attuali, dopodiché si può dire che ciascuno si gioca la sua partita. Altrimenti a cosa serve sostenere che le autonomie sono un'opportunità? Solo per convincere i meridionali che l'amara pastiglia, in realtà, è dolce? Se lo fa qualche meridionale, a mio parere sbaglia di grosso. La democrazia repubblicana doveva e poteva essere federale. Ma usciamo da una pandemia che ha dimostrato l'inadeguatezza delle Regioni, e per la nostra paradossalmente questo vale in misura minore rispetto ad altre. Avremmo dovuto utilizzare questa occasione per entrare vigorosamente in un dibattito sul funzionamento delle Regioni, in particolare rispetto alla gestione della sanità, luogo del malaffare per eccellenza e la cui competenza fu demandata alle Regioni perché qualcosa a queste bisognava dare. E poi: c'è tutta questa voglia di decentrare, ma per spostare mezza virgola bisogna chiedere il parere del Ministero. Che decentramento è? Dunque, o si ragiona in un'altra maniera, e allora si apre tutto il campo, o ci si prende in giro».

Intanto il Sud e in particolare la Campania sono la culla del reddito di cittadinanza. Che idea si è fatto di questo strumento di sostegno sociale così divisivo?

«Si tratta di rappresentare la realtà nella sua complessità. Tutte le politiche, dal reddito ai centri per l'impiego, sono state disastrose. Forse serve una gestione centrale. Se da una parte c'è la schiera dei percettori fannulloni, camorristi e che non hanno titolo, dall'altra c'è il nero, i contratti per cui devo dare 300 euro a chi mi ha assunto e storture del genere. Se guardiamo oltre la superficie, emerge l'assoluta anarchia dei rapporti di lavoro, un far west in cui le carte stanno non certamente in mano al fannullone, ma ai datori di lavoro che sfruttano lo stato di necessità di alcune fasce popolari. Non capisco per quale motivo le forze della sinistra più o meno estreme, più o meno vecchie, con o senza stelle, non si curino di questo. Invece di continuare a ripetere la storia del cameriere o del barista che non accetta il lavoro, dovrebbero dirci il titolare del bar o del ristorante quanto lo vuole pagare e con quali garanzie vuole impiegarlo. Come lo disincagli dal reddito di cittadinanza se gli vuoi dare 30 euro e magari la prossima settimana non lo chiami? Ecco, piuttosto che suonare la grancassa con miope conformismo, i giornali dovrebbero fare una bella inchiesta sul lavoro, di quelle serie, che raccontano la verità da tutti i punti di vista. Il vecchio Marx parlava della forza residua di lavoro che serviva per spiegare l'emigrazione. Il capitale ha bisogno di creare gente che si venderebbe a qualsiasi prezzo per tenere basso il costo del lavoro che deve mettere a norma. Ecco, grazie al reddito qualcuno ha spuntato un trattamento un minimo più decoroso».

Insomma, se non altro, il reddito di cittadinanza è servito ad aumentare un po' la forza contrattuale del ceto proletario?

«Sì. Fosse anche solo per questo, non si può considerare una misura negativa».