Montanari: «In Napoli tante città che non si sono mai fuse»

Lo storico dell'arte: «Qui un laboratorio sociale che anticipa le tendenze». E avverte: «Il Patto per Napoli aumenterà le diseguaglianze»

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Come una mela spaccata a metà. O meglio: in più spicchi. Così appare Napoli, eternamente divisa tra i poli opposti delle sue molteplici identità e logorata dall’interno dal magma di contraddizioni che le ribolle in corpo. «Si vince e si perde tutti insieme», sillaba chi vuole predicare bene. Dietro il lessico da anime belle, tuttavia, prorompe un individualismo che erode il patrimonio delle opportunità. Un capitale comune minacciato dall’incapacità di stare uniti - tutti per uno e uno per tutti - se non nella cattiva sorte, almeno nella buona.

Aspettativa logica, eppure a quanto pare impraticabile a queste latitudini. Perché Napoli, che oggi trova nella squadra di calcio un’avanguardia delle proprie potenzialità, fuori dal campo, per dirla con il Capuano di Sorrentino, si disunisce. Si disgrega miseramente. Lo dimostrano le crepe che sotto il Vesuvio si sono via via aperte tra gli avvocati, in seno alla Camera di commercio e tra i giornalisti, con l’Ordine campano commissariato a seguito di un pronunciamento del Tar. Per non dire dell’armonia perduta tra i palazzi del potere locale: la luna di miele tra il presidente della Regione e il sindaco non è durata più di qualche mese. La conferma di cui non c’era bisogno è arrivata tre settimane fa, con lo scontro fratricida tra ultras dello stesso colore che, mentre sul prato andava in scena un rovinoso (ma nei fatti piuttosto innocuo) Napoli-Milan, se le sono date di santa ragione. La morale è impietosa: perfino mentre i nostri paladini alitano sul tricolore, noi da quest’altra parte siamo capace di dividerci, avvelenando il più dolce dei calici. Il vizio, insomma, è trasversale e pare irredimibile.

Tomaso Montanari, storico dell’arte, saggista, rettore dell'Università per stranieri di Siena e presidente onorario dell’Istituto italiano per gli Studi filosofici è nato a Firenze ma flirta da tempo col capoluogo campano, che lo ha adottato alcuni anni fa. Questa visione binoculare gli consente di affiancare l’inquadratura ravvicinata a quella panoramica, lo zoom al grandangolo.

Professor Montanari, perché da queste parti piuttosto che veder vincere l'altro si preferisce affondare tutti insieme?

«Non è facilissimo rispondere. Ho imparato, dopo dieci anni di insediamento a Napoli, a parlarne con umiltà. Questa città non la capiscono i napoletani, figuriamoci chi non è nato qui, nonostante tutto l'amore e la frequentazione. La cosa che mi ha sempre colpito di Napoli è che per la sua storia anticipa e enfatizza le caratteristiche delle città del mondo di oggi. In fondo questa è un insieme di tante città che tra di loro non si sono mai fuse, un insieme di città separate: ci sono i ragazzi della Sanità che non hanno mai visto il mare, chi vive al Vomero e non conosce i Quartieri spagnoli, chi passa la vita nei parchi residenziali. È una città per certi versi molto segregata. Questo in una certa fase è stato un fatto rivoluzionario, ma con un rischio estetizzante che consiste nella scelta della borghesia di venire a vivere in luoghi tradizionalmente popolari come la Sanità o ai Quartieri».

È un tratto tipico partenopeo o è un fenomeno comune alle grandi città?

«Questa tendenza è crescente in tutte le città moderne, ma Napoli l'ha anticipata. È una città fatta di tante città che tra loro non comunicano. Questo è un paradosso perché c'è stata invece una fase storica in cui la conformazione architettonica dei palazzi napoletani faceva sì che, per quanto netta divisione tra ricchi e poveri, signori e servi, ci fosse una coabitazione negli stessi palazzi e quindi almeno una conoscenza. Questa cosa dopo l'Unità d'Italia si è progressivamente perduta».

Questa città contiene diverse città che non si conoscono e forse neanche si riconoscono. Gente nata sotto lo stesso cielo che non si incontra, semmai si scontra.

«Sì, è la città dei ricchi e la città dei poveri, ma non è solo questo. È anche una città di lingue diverse, e probabilmente le città non sono solo due. A me dal punto di vista sociale sembra una maionese impazzita. Lo è prima delle altre e più delle altre, ma non è l'unica. D'altra parte, questo è il grande problema della democrazia moderna: la segregazione per classi sociali. E il fatto che non ci si frequenti più dipende anche dalla sparizione dello spazio pubblico. Quando per effetto di una crescente privatizzazione i ricchi vivono soltanto spazi privati, con la sanità privata, la scuola privata, luoghi di socialità privati, mancano i terreni di incontro. Di conseguenza, i poveri scelgono a loro volta i loro luoghi. C'è un'apartheid sociale molo forte. Per questo motivo ho provato a difendere anche a Napoli un'idea di patrimonio culturale che non fosse piegata alla valorizzazione economica. Il rischio, altrimenti, è quello di riprodurre la divisione tra chi può e chi non può, invece la democrazia ha bisogno di luoghi di incontro fra diversi. Per molto tempo c'è stata la scuola, ma non assolve più a questa funzione, poiché ormai i ricchi e i poveri mandano i figli in scuole diverse, ahimè».

Lei ha portato in scena gli scritti di Piero Calamandrei, uno dei nostri padri costituenti. Ritiene che i valori fondanti della nostra Costituzione siano vivi e pienamente declinati in una città come Napoli o pensa piuttosto che siano in qualche modo traditi, compressi?

«Sono compressi e traditi e proprio per questo sono vivi. Non c'è mai stato bisogno dell'articolo 3 come a Napoli oggi: c'è bisogno di investire sul pieno sviluppo della persona umana, sull'eguaglianza sostanziale. Tutti gli articoli della Costituzione sono vivi a Napoli: la scuola è aperta a tutti, l'arte e la scienza sono libere e libero è il loro insegnamento. Forse la verità è che questi articoli sono presenti perché sono urgenti».

Il secondo comma dell'articolo 3 della nostra Costituzione indica che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo comma a Napoli è attuato meno che in altre città? C'è un allarme di questo tipo?

«Sì, c'è un allarme molto forte perché questa idea di essere persone è negata. Prendiamo il Comune di Napoli: il Comune, lo dice la parola, è la casa di tutti i cittadini. Il cosiddetto "Patto per Napoli", che prevede un rientro dal debito è in realtà un patto contro Napoli, poiché costringe la città a spogliarsi di alcuni dei più importanti beni comuni. Il Comune che si spoglia dei beni comuni. Questa spoliazione, naturalmente, non colpirà i ricchi, ma i poveri: coloro che, non avendo beni personali, hanno solo i beni comuni. Qui l'eguaglianza sostanziale e il pieno sviluppo della persona umana sono negati in radice. E sono negati non da un'antica diseguaglianza, da quei mali di cui abbiamo sempre parlato, ma da un provvedimento molto recente che risolve un problema che c'è nel peggiore dei modi possibili».

Quando si dice che manca l'anello di congiunzione tra la Napoli borghese e quella proletaria, per utilizzare categorie del secolo scorso, quanto ci si approssima alla verità?

«Sicuramente c'è una verità storica che prefigura un esito contemporaneo: il ceto medio è un ceto colpito e impoverito che tendenzialmente in tutta Italia si contrae, scivolando verso la povertà o in pochissimi casi risalendo. Il risultato è che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. La polarizzazione sociale, che è una caratteristica di Napoli, oggi diventa sempre di più una caratteristica italiana. Da questo punto di vista, come ho detto, Napoli è un anticipatore e un acceleratore dei processi».

Le responsabilità di questa deriva sono ascrivibili ad una classe dirigente che al livello politico, imprenditoriale, culturale non dirige più?

«Direi proprio di sì, è proprio così. È crudele dirlo, ma purtroppo è vero: uno dei sintomi della decadenza della classe dirigente napoletana e di quella meridionale è il dibattito sull'autonomia differenziata. Incombe sul nostro Paese una riforma drammatica che può decretare la fine dell'unità nazionale, quella che viene chiamata molto a ragione la "secessione dei ricchi", che mira in sostanza allo sganciamento finale del Nord dal Sud. Io, che sono impegnato a combattere questa riforma, osservo che la voce della classe dirigente meridionale, anche quella che è saldamente attestata alla guida del Paese, non si sente. E invece si dovrebbe sentire. Non perché debba essere una battaglia del Sud contro il Nord, ma perché si tratta di una questione cruciale in cui quella classe dirigente meridionale, e segnatamente napoletana, che appartiene a pieno diritto alla guida del Paese ha diritto e dovere di parola, ma è silente».

Mancano una guida, un pensiero di riferimento in ambito industriale, economico, sociale, culturale o i pensatori si fanno i fatti loro?

«Diciamo che è un problema del ceto intellettuale italiano, in gran parte al servizio del potere, anche per come il potere ha occupato le casematte del sapere. Pensiamo alla televisione e a quella che Pasolini definiva la più grande azienda culturale del Paese, la Rai, totalmente lottizzata. D'altra parte i professori universitari potrebbero parlare liberamente, invece tacciono per conformismo e convenienza. C'è una fuga degli intellettuali, ma non riguarda solo Napoli. Accanto a questo c'è stata una scientifica desertificazione dei luoghi della conoscenza. Prendiamo la figura luminosa dell'avvocato Gerardo Marotta, che con le sue idee è stato profetico e ha creato un luogo di formazione, che è la vera rivoluzione. La biblioteca e l'Istituto stesso sono stati messi sotto scacco, definanziati, perseguitati. All'Istituto, del quale sono indegnamente presidente onorario, è stato reso impossibile lavorare, si è fatto di tutto per stroncarlo. Lì il problema non è la figura di Marotta, che ha fatto fino in fondo il suo dovere. Il problema è che le figure non bastano senza strutture e senza un'organizzazione. Le colpe sono della politica: dei presidenti della Regione, dei sindaci di Napoli. Bastava ottenere pochissimi soldi dal governo centrale e dalle stesse istituzioni locali. Si pensi ai soldi che De Luca ha sperperato in sciocchezze turpi. Avrebbe potuto salvare la biblioteca: lo ha promesso di fronte alla bara dell'avvocato Marotta e nulla ha fatto. Questa cosa deve rimanere a perpetua vergogna sua e della classe dirigente».

A proposito: si auspicava tra i principali palazzi del potere una concordia istituzionale che invece è venuta meno anche tra De Luca e Manfredi.

«Conosco bene sia de Magistris che Manfredi, tra l'altro Gaetano è stato mio rettore all'università. Ebbene, non saprei immaginare due persone più diverse tra loro. Il fatto che entrambi abbiano un rapporto analogo con De Luca vuol dire una cosa sola: che la colpa è di De Luca. Io spero che la Schlein faccia quello che ha promesso, facendo piazza pulita dei caudilli».