Moro: «Svolta vicina, lo scudetto insegna che si vince tutti insieme»

L'antropologa: «Napoli sta cambiando, oggi sa fare squadra anche fuori dal campo»

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L'inversione di rotta è dietro la porta. Una porta di calcio, s'intende. Di quelle che Victor Osimhen ha buttato giù alimentando la propria gloria e quella della sua squadra. La svolta, insomma, gravita intorno ad un pallone. E lo scudetto è il sole che promette di illuminare il pianeta Napoli con tutto il firmamento celeste. Anzi, azzurro. Elisabetta Moro, ordinaria di Antropologia culturale al Suor Orsola Benincasa nata a Vicenza ma adottata dal capoluogo campano trent'anni fa, ne è convinta: «Forse davvero il Napoli è Napoli, e viceversa», azzarda. E aggiunge che, in forza di questa identificazione, il successo sportivo «può diventare la metafora per spiegare il percorso che la città stessa può fare». Una cosa è certa: il trionfo in campionato sembra dare nuovo slancio al lungo processo di uscita da una condizione di marginalità durata decenni. Ai napoletani, ciascuno nel proprio ambito, ciascuno per la propria parte, tocca adesso la responsabilità di far durare questa spinta. Se possibile, di rinvigorirla e perpetuarla per ricacciare la minaccia dell'effimero. Di dimostrare, insomma, che un'altra Napoli è possibile. Non diversa, ma migliore. Una Napoli che sappia custodire il proprio passato senza rinunciare ad essere moderna. Una comunità capace di lavorare ad una revisione dei propri canoni tradizionali in sintonia con la contemporaneità.

Professoressa Moro, il corpo sociale di questa città si compatta soltanto intorno ad un pallone?

«No, non solo. Però è chiaro che questa è un'occasione storica, importante. Io, più che un pallone, vedo una boa: mi sa che finalmente stiamo svoltando».

Questo processo era già iniziato prima dello scudetto?

«Sì, penso che sia l'effetto di quello che è iniziato negli anni '90 e che con qualche piccola oscillazione, con qualche alto e basso, con qualche incertezza è andato avanti finora. Oggi come allora, la città è ripartita, si è riappropriata degli spazi, ha ricominciato ad avere speranza, voglia, desiderio di essere una città speciale qual è. Ora si cominciano finalmente a vedere le cose andare a sistema. Forse non funziona ancora tutto alla perfezione, ma sono i primi veri frutti di quanto è stato avviato trent'anni fa».

Ha parlato di «città speciale», e in effetti Napoli, anche per effetto di un racconto piuttosto adagiato sui cliché, viene spesso descritta come un'entità a sé stante. Non di rado, però, con un'accezione negativa.

«Napoli viene spesso definita una città anomala, mentre è una città speciale, con una fortissima identità, un profondo radicamento nella propria cultura. Ecco perché riesce ad essere globale e diversa allo stesso tempo. In questo senso è speciale».

Vuol dire che Napoli sa accogliere i grandi flussi turistici senza farsi vampirizzare l'anima?

«Esatto. Naturalmente, queste sono le prime prove generali di un turismo veramente di massa. Però, essendo una città forte e anche più popolosa di Firenze o Venezia, Napoli ha più possibilità di non snaturarsi, di non fare il gioco dei turisti. Anzi, continua ad attrarli perché rimane sé stessa».

I turisti qui cercano sicuramente musei, monumenti, chiese, paesaggi, ma sono molto attratti anche da un'identità carismatica e controversa.

«Non c'è dubbio, e credo che ci sia anche un effetto sorpresa. Proprio perché gode di cattiva stampa a causa dei fatti criminali e per il successo di certe serie tv che ne mostrano solo il lato noir, per chi viene qui c'è un effetto sorpresa che diventa entusiasmante e produce un passaparola quasi estasiato che smentisce gli stereotipi e ha una ricaduta pubblicitaria notevole».

Questo effetto virale è stato amplificato dal fenomeno scudetto. C'è chi dice che la festa di popolo per la vittoria sportiva sia stata la più grande operazione di marketing turistico di cui abbia beneficiato Napoli. Un'operazione a costo zero per la città.

«Sicuramente lo scudetto ha avuto un effetto positivo che ricade come una pioggia benefica su tutti gli ambiti cittadini. Vale anche per noi professori universitari: lavorare e fare ricerca a Napoli una volta era considerata cosa marginale, adesso ha assunto una centralità inedita. Penso che questo successo sia un vantaggio per tutti».

Da osservatrice nata in un'altra Italia, anche se ormai calata con tutti e due i piedi nelle dinamiche partenopee, nota, calcio a parte, una certa incapacità di fare squadra?

«Fino ad ora era così, ma i trentenni che stanno prendendo in mano le redini anche economiche della città la pensano diversamente. Ho l'impressione che finalmente si possa fare squadra, anche le istituzioni lo dimostrano: tutta la rete delle università è proiettata a lavorare per il Pnrr, le aziende più importanti hanno a capo persone che non remano le une contro le altre, ma sanno che l'unione fa la forza. Mi sembra che il clima sia molto diverso rispetto a trent'anni fa, quando sono arrivata. Allora c'era una città elitaria che guardava con sospetto la città proletaria. Ora mi pare che si sia capito che creare sinergie sia un vantaggio per tutti».

Dunque, non vede una tendenza a preferire la sconfitta di tutti al successo di qualcuno?

«Mi sembra che questa tendenza non ci sia più. Si è capita una delle regole più importanti dell'economia: sono i distretti economici a vincere, non i singoli. Ce n'è per tutti, in questo momento si vede benissimo. Quindi non c'è più questa idea per cui le sventure altrui siano la fortuna propria. Anzi, quello che io noto è l'impegno di ciascuno a remare nella stessa direzione. Questo è forse il vero cambiamento che sta avvenendo: si è capito che stiamo tutti nella stessa barca. La barca è partita, ora tocca remare. Tutti insieme».

Questa città contiene diverse città che non si conoscono e spesso neanche si riconosconoCi sono una città di sopra e una città di sotto, una Napoli alta e una Napoli bassa che spesso non si parlano, e se si parlano non si capiscono. Ritiene che questa distanza sia stata colmata, o persiste una certa rabbia sociale ad inquinare i rapporti tra i ceti?

«Mi sembra che questa oggi non sia più la vera chiave di lettura della città. Mentre prima c'era un sottile disprezzo degli uni verso gli altri, come se si fosse di due nature diverse, come diceva Anna Maria Ortese, che parlava di due nature entrambi un po' feroci l'una verso l'altra, oggi l'entusiasmo per lo scudetto coinvolge veramente tutti. E in questo momento c'è un vantaggio in particolare per la città più popolare, grazie alla quale sta vincendo la città nel suo complesso. Sono i quartieri in primo piano, quelli che più piacciono, che hanno conservato la cucina che più interessa, che hanno gioito in modo più plateale, ma anche in modo corretto. C'è stata la voglia di appropriarsi dell'urbanità, di trasformare i propri quartieri, di farli diventare belli, gioiosi, pieni di festoni e di bandiere. E poi sono andata in giro e ho visto che non c'è stata neanche una speculazione sul turista che vuole comprare una maglietta, un gadget. Io frequento spesso Venezia, dove si ha spesso l'impressione di essere derubati. Qui c'è un commercio onesto che non approfitta della situazione. C'è un desiderio della città di piacere a chi arriva, di persuadere il visitatore che c'è una parte sana, che lavora, che fa le cose per bene, che ama la propria squadra e sa fare festa, in un'Italia che è sempre più tristanzuola, sempre meno capace di gioire».

Insomma, quell'orgoglio napoletano che ha trovato posto anche sugli striscioni e nei cori da stadio.

«Sì, ed è lo stesso per tutti. L'orgoglio è interclassista».

La Napoli più autentica, quella che attrae i forestieri, confina però con uno stereotipo che ha come epicentro una rappresentazione folkloristica, sopra le righe.

«Intanto il folklore non lo denigrerei. Non è una parte inautentica, è semplicemente la parte più formalizzata, la narrazione più comune e condivisa, che si chiama folklore perché è facilmente identificabile con un ceto sociale che si mostra in un certo modo. Il folklore non è una falsa cultura, non nasce per compiacere il turista. Casomai, il turista lo sceglie perché lo riconosce subito e gli piace, essendo un modo di essere ad alta definizione. Tra l'altro Napoli è sempre stata celeberrima per questa sua caratteristica, che viene spesso chiamata folklore. Non bisogna averne paura: è un grande motore energetico della città. Anche chi pensava che pizza e mandolino sono la parte peggiore di Napoli è stato smentito, perché pizza e mandolino stanno producendo una grande economia anche estetica, gustativa, culturale. E stanno conquistando un pubblico immenso. Ora, poi, con la consacrazione dell'Unesco l'arte della pizza è uscita dal cuneo del prodotto alimentare e ha guadagnato un blasone che alimenta un'economia positiva per chi opera nel settore: si alzano gli stipendi, migliorano le condizioni di lavoro di tante persone che meritano di essere pagate il giusto. Dall'altra parte, qui ci sono musicisti e cantanti straordinari. Per fortuna tutto questo è stato conservato e non è stato gettato in nome di chissà quale modernizzazione, perché perdere una tradizione immensa come l'arte del mandolino o della canzone napoletana sarebbe veramente assurdo. Appiattire tutte queste grandi competenze artistiche e artigianali nel termine folklore, come hanno provato a fare anche illustri intellettuali, non avrebbe senso».

Quando si dice che manca l'anello di congiunzione tra la Napoli borghese e quella proletaria, quanto ci si approssima alla verità?

«Forse la classe media napoletana sta crescendo adesso: man mano che l'economia si distribuisce meglio e consente un po' di crescita sociale, questo gap si riduce. Purtroppo l'ascensore sociale si è bloccato in Italia ormai da decenni, e ovviamente in una città dove i dislivelli sociali erano già forti tutto si è rallentato. Ma credo che anche questo pian piano si stia modificando».

Lo scudetto può essere la scintilla per la costruzione di una identità più allargata, più condivisa?

«Penso che il calcio sia sempre stato trasversale rispetto ai ceti: forse davvero il Napoli è Napoli, e viceversa. In questo momento c'è un'identificazione forte e positiva tra le due cose. Mi sembra che la squadra sia un grande patrimonio di tutti, non a caso c'è anche un investimento simbolico fortissimo della collettività su quello che il Calcio Napoli significa. È come una ripartenza felice, e questo entusiasmo un po' tutti lo raccontano come un'opportunità per fare ancora meglio. Il calcio, dunque, diventa la metafora per spiegare il percorso che la città stessa può fare».

Si parla spesso di una classe dirigente che al livello politico, imprenditoriale, culturale abdica alla sua funzione, si fa i fatti suoi, non dirige. Che ne pensa?

«Non è il mio settore, ma mi sembra che in questo momento la città sia ben rappresentata e che ci siano buone prospettive. Ci vuole solo un po' di pazienza. Ovviamente si auspica una grande collaborazione tra le istituzioni».

Eppure tra i principali palazzi del potere locale la concordia istituzionale pare smarrita. Non sappiamo fare squadra neanche al livello istituzionale?

«Questo non mi preoccupa: credo che molte esternazioni siano politiche, estemporanee. Mi sembra che chi governa Regione e Comune abbia a cuore le sorti della comunità, anche se a volte sulle singole questioni ci sono vedute un po' diverse. Alla fine chi ha il senso delle istituzioni collabora sempre. Ho fiducia nel fatto che l'istituzione pensa e agisce comunque come un'istituzione, al di là di quello che si legge sui giornali perché fa discutere e fa scalpore. Credo che si possa convergere, e sicuramente accadrà».