Musica, città senza spazi. Vacalebre: «È la nostra prima emergenza culturale»

Il giornalista e musicologo: «Comune e Regione senza assessori alla Cultura, non è un caso»

di

Il rock si è fermato a Eboli, il jazz a Pomigliano. Le coordinate che segnano il confine di un deserto si possono riassumere in questa geolocalizzazione che sposta l'epicentro sonoro dal capoluogo alla periferia. E spiega che Napoli stessa, per effetto di un paradosso che ha dell'incredibile, si è fatta periferia dell'impero musicale italiano, che ha stabilito a Roma e a Milano le proprie capitali, e perfino di quello campano.

Nella città che esporta nel mondo la pizza e la canzone, l'onda dei grandi concerti non arriva quasi mai, e i sismografi delle "good vibrations" che muovono le folle e le istigano, dopo i giorni amari e solitari della pandemia, alla rivoluzione di una socialità fatta di sudore e urla a squarciagola, non registrano che sussulti isolati. Della musica che gira intorno, insomma, arrivano solo echi lontani. «Se manca la capacità di pensare in grande? Credo che manchi proprio la capacità di pensare»: Federico Vacalebre, giornalista e musicologo napoletano, fondatore del Premio Carosone (con lui l'«americano di Napoli» ha firmato la sua biografia ufficiale), alla guida la redazione Cultura e Spettacoli del quotidiano Il Mattino, spiega con argomenti chiari e corsari le ragioni di una marginalità, quella partenopea, sul terreno che pure le sarebbe più congeniale. Una subalternità che da decenni non si riesce a capire. E nemmeno a sovvertire.

La città più musicale d'Italia, conosciuta nel mondo per le sue canzoni, la città di Caruso e Pino Daniele, di Carosone e Sergio Bruni soffre la carenza di spazi in cui suonare. Come si spiega questo paradosso?

«Napoli è una città per vecchi perché narcotizzata da decenni di malpotere soprattutto sul fronte culturale, dove a piccole, piccolissime novità corrispondono antichissimi retaggi. Se da un lato il San Carlo ha accolto Paolo Conte ben prima della Scala e senza polemiche, è anche il teatro che ha detto di no a Bruce Springsteen voce e chitarra, che abbiamo visto poi all'Opera di Roma. Insomma, Napoli è la città che ad una grandissima creatività musicale non solo fa corrispondere una bassissima capacità istituzionale di scommettere su questo fronte, ma anche uno scarso investimento dei privati. Per intenderci: se la filiera del cinema sta interessando insieme pubblico e privato, quella della musica è abbandonata da secoli. Abbiamo più spazi chiusi che aperti, e penso al Palazzetto dello sport di cui restano due totemiche tribune a ricordarci che lì dentro ci abbiamo visto Pino Daniele, James Brown, i Pretenders, Jackson Browne, Fabrizio De Andrè con la PFM e molto altro. Quello spazio, che non esiste più da decenni, è rimasto ignorato come se Napoli, che dice di voler essere una città della musica, potesse permettersi di uscire dal novero delle città in cui portare i concerti. Tant'è che oggi quei tour ai quali non basta l'altezza del Palapartenope molto simbolicamente si fermano a Eboli. Nello stesso tempo, sono morti piccoli locali e jazz club».

Insomma, il rock si è fermato a Eboli.

«La città si è "foodizzata", ci sono friggitorie e "shootinerie" dappertutto, ma non ci sono i luoghi adatti, nelle varie misure, all'accoglienza musicale».

Una città votata al turismo non dovrebbe avere a maggior ragione dei luoghi destinati al tempo libero e alla musica?

«È un problema che ha molte facce. C'è la sala "Napulitanata" in Galleria Principe di Napoli, ma non ci sono luoghi preposti all'ascolto della canzone napoletana, che è assurdo se si pensa al boom turistico degli ultimi anni. Non c'è il museo della canzone napoletana, però abbiamo il museo del radar. Mi dicono che il radar è nato a Napoli, io di solito rispondo che anche la canzone napoletana è nata a Napoli. Abbiamo il museo della plastica, aperto da un privato: a me starebbe benissimo anche un museo della canzone napoletana aperto da un privato. Avevamo il museo dei pupi, ospitato dalla Provincia, mi dicono che è chiuso. Quello della canzone napoletana semplicemente non è stato mai aperto. Nella stessa maniera, la canzone non è un bene tutelato dall'Unesco, mentre lo sono, sia detto con il massimo rispetto, i canti a tenore sardi, i mamuthones sardi, i muretti a secco. È chiaro che questa città, alla quale non a caso mancano un assessore alla Cultura comunale e uno regionale, non ha la capacità di concepire la cultura, e in questo caso la musica dal vivo, come un volano, un motore di sviluppo».

Eppure tra poco più di tre mesi a Fuorigrotta ci saranno i Coldplay.

«Ecco: arrivano i Coldplay, l'evento è stato annunciato in tempo. Forse bisognava annunciare un giugno dei concerti, proponendo a chi veniva da fuori un motivo per restare qui due giorni in più. Insomma, manca una visione, qualcuno che sia capace di domandarsi cosa serve a questa città. Ad esempio, non abbiamo un festival di Opera buffa, ma un festival del genere non si fa con due musicisti, bensì con grandi produzioni. Penso a quelle di Roberto De Simone che abbiamo visto al San Carlo. Ancora, manca un festival di musica elettronica: Red Bull ha creato un festival rap, ma Napoli, città hip hop, deve essere sede di un importante festival rap. Come esiste a Vienna il Concerto di Capodanno dei valzer, c'è bisogno di un Concerto di Capodanno dei mandolini. Una città che si ritrova al centro dell'attenzione per produzione culturale e nello stesso tempo per interesse turistico dovrebbe essere capace di camminare su queste due gambe, scommettendo sulle radici e sulle ali, su Bovio - quest'anno c'è un anniversario importante, ma non mi risulta in programma niente - e magari su Liberato, sui Nu Ghenea o su chi verrà domani».

Se si escludono lo stadio Maradona e piazza Plebiscito, i tour da 20mila o più posti devono fare i conti con un vuoto desolante. Eppure a Est e a Ovest della città lo spazio non manca.

«C'è bisogno di aree per i mega eventi, e per fortuna oggi lo stadio Maradona è più disponibile che in passato. Ma non basta: c'è bisogno di uno spazio per eventi da 10, 20, 30mila persone. Voglio dire che il business musicale legato ai grandi eventi che Milano e Roma vivono può essere replicato in salsa partenopea, magari con prezzi più bassi e scelte musicali più coraggiose. La gioia delle persone che sono andate a vedere Fantastic Negrito in un piccolo teatro, il Bolivar, è la proverbiale rondine che non fa primavera. Abbiamo vissuto il periodo di Cava caput mundi, siamo andati a vedere Battiato al Palasport di Ponticelli, Eric Clapton al Palamaggiò, abbiamo fatto il giro della Campania, ma intanto nulla è cambiato. Ho sentito parlare di "Palacosi" per trenta, quarant'anni e stento a pensare di riuscire a vederli. Al Festival di Sanremo per trovare un secondo palco si sono inventati una nave, a Napoli non c'è il primo palco. Questo è il dato angosciante della questione. Il problema è che noi, tolti il San Carlo, il Maradona, il Palapartenope e l'Arena Flegrea, abbiamo i teatri, i teatrini e i teatrucci».

Manca la capacità di pensare in grande?

«Non vorrei metterla brutalmente, ma direi che manca la capacità di pensare. Bisogna pensare che è una delle nostre emergenze. Certo, meno seria dell'emergenza lavoro e dell'emergenza camorra, ma è la prima emergenza culturale della città. Insieme allo sviluppo sacrosanto della filiera dell'audiovisivo, l'inviluppo della filiera musicale, in presenza di una straordinaria messe creativa, è il primo problema culturale della città. Quello che Red Bull comprende portando il principale evento rap a Napoli, quello che Marracash comprende portando il suo festival a Napoli, non lo comprendiamo noi, che avremmo dovuto farlo qualche anno fa, quando avremmo potuto mettere un'ipoteca anche commerciale sulla guida dell'hip hop in Italia. Cosa che abbiamo naturalmente lasciato a Milano, anche con i nostri artisti».

Eppure sul finire degli anni Novanta c'è stata una stagione, tanto esaltante quanto breve, in cui il Neapolis Rock Festival ci ha consegnato un'illusione.

«Era già successo: dagli anni '70 in poi, ci sono state e piccole fiammate dovute a politici o a privati che hanno creduto di poter avviare un percorso. Ci hanno provato. Poi, però, dobbiamo darci anche le nostre colpe: Vasco Rossi al Neapolis andò malissimo, David Bowie non fece neanche 10mila spettatori. E quando arriva Bruce Springsteen a piazza Plebiscito fa 13mila persone, probabilmente il suo minimo in Italia. Ricordiamocele, queste cose, perché la colpa non è mai soltanto degli altri. Il problema è anche nell'educazione del pubblico».

A proposito di pubblico: ce n'è uno più piccolo, ma affidabile, anche per il jazz.

«Il pubblico c'è anche per la musica classica e per la musica barocca. Il problema è che il pubblico del jazz non cresce perché non vede cose nuove, come il pubblico della musica classica non si rinnova perché tranne il San Carlo non ha spazi di azione e il pubblico della musica elettronica se non viene una star non viene innaffiato. Il punto è innaffiare, portare ad un nuovo pubblico e a quello che già esiste una nuova musica senza far morire la musica che già è stata. Non è il problema di una nicchia, ma di tutte le nicchie. Chi vuol sentire Bobby Solo ha lo stesso diritto di chi vuole ascoltare Bob Dylan. Noi però Bobby Solo nelle feste di piazza riusciamo a sentirlo, mentre Bob Dylan è dal 2000 che ce lo sogniamo perché nessuno ha mai ritenuto che fosse da riportare sulle nostre assi di palcoscenico. È una questione di centralità culturale. Una città che è al centro della cultura ogni 3, 4, 5 anni al massimo deve veder passare un artista della statura di Bob Dylan, fino a quando si mantiene sul palco. A Roma un anno c'è la mostra dei suoi quadri, un anno va a suonare lui. E a Milano succede lo stesso. C'è bisogno di capire che una capitale culturale è un luogo in cui, così come si girano i film, girano i grandi tour. D'altronde, Napoli ha un grande festival di teatro che gode di un importante finanziamento pubblico, ma non ha un grande festival di musica. È chiaro che il grande festival teatrale si rivolge a duemila o tremila spettatori a serata, mentre il grande festival di musica richiamerebbe 20, 40 o 80mila spettatori. Ora, io non voglio dire che chi si rivolge a più persone è più importante di chi si rivolge ad una platea più piccola, ma credo che non si possa neanche dire il contrario. Credo che sia veramente antidemocratico non rendersi conto che se e quando andremo a festeggiare lo faremo con quella cosa che sta antipatica a qualcuno che sono le canzoni. Quelle canzoni hanno diritto di essere messe su palchi importanti tutti i giorni».

Perché, dopo l'ormai lontana chiusura dell'Otto Jazz Club, non c'è stato, o almeno non ha resistito in città un altro jazz club?

«L'Otto Jazz Club era frutto dell'iniziativa di un privato, Enzo Lucci, e della sua ostinazione. Il pubblico del jazz a Napoli non è cresciuto, anzi si è involuto. Feci incontrare Ornette Coleman e Antonio Onorato, il quale si presentò dicendo: "I play the guitar". Coleman rispose: "Sorry, I play the music". Gli ascoltatori di jazz a Napoli spesso ascoltano lo strumento e non la musica. Non mi risultano grandi acquisti di dischi jazz a Napoli e le varie iniziative sono legate a jazzofili di antica militanza. Quando andiamo ai festival jazz non vediamo le legioni di jazzofili che vedevamo negli anni '60 venire dalla Campania. Il motivo è quello: si è creato un circoletto legato più al culto dello strumentista che ai nuovi dischi che escono. Il jazz è da un lato una musica classica, dall'altro è musica viva. È in Fantastic Negrito che hai il futuro. D'altronde, quando è andato Wayne Shorter a Ravello non è che il pubblico della musica jazz sia corso a vederlo. L'educazione culturale si fa suonando e portando musicisti che innovano. È quello che ha fatto Pomigliano, l'unico vero festival jazz che c'è in Campania, perché ha avuto grandi protagonisti ma ha avuto anche il coraggio di proporre di volta in volta musicisti nuovi».

A fronte di un patrimonio inestimabile, manca a Napoli un'industria della musica o una politica culturale per la musica?

«Non voglio fare il cerchiobottista, ma dividerei le responsabilità a metà. Il Pala Mandela a Firenze, il Pala Forum a Milano nascono da iniziative di privati che sono state aiutate da una politica istituzionale saggia o comunque meno cieca della nostra. Io non mi chiedo perché non ci sono case discografiche importanti a Napoli, il che tra l'altro non è neanche vero. Quello che mi importa è che i grandi capitali non reputano interessante investire in musica e le istituzioni non riescono a pungolarli su questo fronte. C'è bisogno di coraggio, di dire che una delle priorità della città, non meno dell'Albergo dei poveri e della Biblioteca nazionale, è la musica. Beninteso: se qualcuno ci crede davvero. Altrimenti basta cancellarla, la parola musica, e dire che non ce ne frega niente. Questo vale per le istituzioni, ma anche per i privati, perché tutti quelli che scommettono in cuoppi fritti, corni e cornicelli si riempiono la bocca della cultura napoletana, ma la cultura napoletana è Pergolesi, è James Senese, è il dj che in questo momento sta facendo la musica che ascolteremo fra sei mesi. Come cantava Guccini, bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà. Potrebbe essere troppo tardi».

Questa penuria di spazi incide anche sulla crescita dei talenti?

«Sì e no, perché in realtà la musica si fa nelle camerette, il live soprattutto agli esordi è raro. Chi ne perde di più è l'ascoltatore. Non amo la retorica della jam session dove arrivano i cosiddetti bravi che scatenano i loro assoletti onanistici, però amerei avere un posto. A Napoli non c'è neanche un Blue Note. In provincia di Napoli esistono piccoli club dove vai a vedere Dirk Hamilton, dove incontri Scarlett Rivera, la violinista di Bob Dylan. A Napoli non succede quasi mai neanche questo. Quello che succede è l'uso di spazi impropri per cui l'Auditorium dei Salesiani per qualche anno e il cortile di un museo per qualche altro anno diventano precariamente spazi per la musica. La musica ha dignità di avere i suoi spazi. È fondamentale ricostruire al posto del Mario Argento una struttura moderna o collocarla in un altro contesto, non ci serve riaprire auditorium di 200 posti a Bagnoli: quelle sono le uniche misure che già abbiamo. Ben venga l'auditorium riaperto, che nei miei sogni non sarebbe mai stato chiuso e sarebbe stato affidato alle attività di quartiere, ma 200 posti non servono a portare qui gli artisti da fuori. Ci sono però tantissimi cantanti e musicisti napoletani che godrebbero di un auditorium dove provare gratuitamente e fare i loro piccoli eventi. Ma penso anche alle compagnie teatrali, alle scuole di ballo. Cioè, distinguerei la crescita di una creatività diffusa, che ha bisogno anche di spazi da 200 posti, con la fame di musica. Il numero di sold out registrati per questa estate dimostra che c'è una gran voglia di andare ai concerti».

Insomma, la musica è la nostra ennesima occasione sprecata?

«A me piacerebbe tanto che si comprendesse quanto è importante culturalmente, economicamente e per l'identità sociale. Se a Napoli dovessimo definirci come tribù, lo scriveva Aldo Masullo nei giorni della morte di Pino Daniele, una delle cose cui ricorreremmo è sicuramente la nostra musica. Allora forse quell'elemento che ci identifica come popolo dovrebbe essere rispettato. E quando parlo di musica io penso a Riccardo Muti, a Peppe Barra e a Roberto Colella, senza fare classifiche. Le musiche sono tante, hanno livelli diversi e bisogni diversi che non vanno confusi. Io vorrei che a Napoli fosse più semplice tanto vedere Riccardo Muti quanto scommettere su Roberto Colella».