Napoli c'è, ora bisogna combattere il luddismo urbano

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A Napoli siamo ormai al luddismo urbano. Vuol dire che si distruggono, nel senso che si consumano, non si manutengono, né si riqualificano nei tempi giusti, interi pezzi di città. 

Il quadro è nero, ma renderlo apocalittico sarebbe comunque un errore, perché proprio nella differenza c’è una possibile via di fuga. Per turismo e spopolamento, tanto per dire, Napoli non è Venezia. E per degrado e disservizi, non è Roma. Così, tanto per fissare meglio il contesto. 

Del resto, vorrà pur dire qualcosa se a Napoli, come dice Salman Rushdie, ancora “si respira un’aria di mescolamento, di impasto di culture”, nel senso che passeggiando per i decumani qualche nativo ancora si trova. E se Papa Francesco, parlando prima a Posillipo e subito dopo in una periferia della capitale, nel primo caso ha ricordato “i tanti esempi di santità” in una realtà urbana “che non è solo violenza”, e nel secondo ha evocato invece una città “affamata di amore e di cura”, che soffre “di abbandono e di degrado”. 

Napoli è Napoli, insomma. Cioè una città per molti versi law-free. Ma è. E questo fa la differenza. Napoli resta viva nonostante il kitch dello street food e del fast fashion, nonostante l’incombente minaccia delle “stese” e degli abusi. Allora, se siamo d’accordo sul punto, se vale ancora il “primum vivere deinde philosophari”, non possiamo non ammetterlo: la premessa ora c’è, mentre non era affatto così quando in città l’immondizia arrivava fino ai primi piani, non si vedeva un turista neanche col cannocchiale e di conseguenza a nessuno veniva in mente di investire in bar e B&B. 

Manca però tutto il resto. In una parola: manca il rispetto per la città superstite. E qui, infatti, che rivelatosi di sola carta, crolla tutto il castello di ipotesi urbana costruito dalle ultime amministrazioni. L’idea doveva essere quella di una città “dadaista”, allegra, tutta da vivere e da passeggiare; finalmente uscita dalla lunga penitenza delle emergenze storiche; libera da condizionamenti di classe; con il lungomare liberato dalle auto a simboleggiare l’idea diventata cosa. Tutto questo richiedeva appunto regole, governo, condivisione. E invece ha ragione chi dice che proprio a questo punto della storia, quando l’ipotesi di città avrebbe dovuto consolidarsi in progetto alternativo, l’autonomia rivendicata dalle ultime amministrazione ha preso la forma inconcludente di un’anarchia assoluta. La città law-free si è ripiegata su se stessa. Non a caso si continua a parlare di camorra come di un dato strutturale della città: lo ha detto di recente, proprio a Napoli, il premier Conte, senza per altro essere criticato come un tempo accadde al presidente dell’Antimafia Rosy Bindi. Assuefazione? Forse. Ma la questione è più generale. È mancato, si diceva, il rispetto per la città viva. L’assetto urbano è stato deciso esclusivamente dal mercato, senza alcuna politica capace di organizzare residenze e servizi: e così i quartieri poveri sono diventati sempre più poveri e in quelli ricchi è cresciuta solo la rendita. 

Parallelamente, del turismo si è vista esclusivamente la parte positiva, quella che produce ricchezza nell’immediato, ma si è sottovalutata l’altra, quella che consuma il patrimonio che dovrebbe alimentarlo. Ciò è stato possibile proprio perché la città è stata abbandonata ai nuovi luddisti, ai nuovi consumatori di suolo e di risorse, a chi ne possiede le parti migliori e per non perderne l’uso esclusivo non vuole che altre ne nascono. 

Ma mettere “le mani sulla città” non significa necessariamente fare speculazione edilizia. Vuol dire, semmai, l’esatto contrario: creare più “movimento”, più trasporto, più occasioni per andare da un quartiere all’altro. E vuol dire “produrre’ città, non distruggerla come si faceva un tempo con le fabbriche, lanciando chiavi inglesi tra gli ingranaggi.