Da qualche anno Napoli vive il conflitto tra l’attaccamento alle proprie usanze e l’inevitabile cedimento al gusto dominante del turismo di massa, qui, più che altrove, contrastato.
Napoli è amata visceralmente e altrettanto disprezzata perché è forse l’ultima città italiana in cui resiste un’autentica cultura popolare. Cultura popolare che si è rivelata particolarmente refrattaria alla crescente omologazione, pur cedendo progressivamente quote di sovranità. Lo ha fatto quando la produzione cinematografica derivata dalla canzone, che nei corpi stessi dei protagonisti rivelava l’inconsapevolezza dei canoni estetici dominanti, veniva esportata in versione edulcorata. È il caso della “sceneggiata”, espressione dei sentimenti popolari più viscerali, che è stata depurata dagli aspetti più efferati, per diffonderla sul mercato nazionale.
Scriveva Pasolini ormai più di 40 anni fa: «[…] Anche l’epoca rivoluzionaria del consumismo - che ha stravolto e mutato alle radici i rapporti tra cultura centralistica del potere e culture popolari - non ha fatto che “isolare” ancora di più l’universo popolare dei napoletani.» Un’analisi ancora condivisibile, seppure parzialmente. Una delle radici di questa cultura, descritta minuziosamente dallo stesso Pasolini, nasce dal codice d’onore: il farsi giustizia da sé, la subordinazione della donna, il possesso del territorio, la diffidenza verso le istituzioni che oggi culmina nello sconcertante fenomeno per cui si “spara sulla croce rossa”. Degenerazioni inaccettabili che discendono da antichi umori invano contrastati da un’apprezzabile azione politico-pedagogica il cui abbrivio si è presto esaurito.
La politica urbanistica locale, da molti anni, esprime, a nostro avviso, la convinzione che alla conservazione indiscriminata di tutta la città storica corrisponda la salvezza integrale di un’antropologia e di una cultura. Come sembra un’illusione che attraverso il ripristino di caratteri tipologici e morfologici, di un’edilizia sopraffatta da secoli di manomissioni, si recuperi un’innocenza ormai perduta definitivamente. Un’illusione che può essere equiparata, tornando a Pasolini, alla disperata provocazione dello scrittore di abolire la scuola dell’obbligo per porre un freno all’omologazione.
Si abbattono le Vele, un esperimento architettonico che, oltre le migliori intenzioni, ha contribuito a produrre un ambiente invivibile. Ma si rifiuta l’evidenza che anche le aree del centro urbano aggiungono al loro degrado solo le scorie della modernità, in un ambiente intossicato e violento.
Tralasciando il Centro Antico, troviamo ambiti urbani che, a causa della fatiscenza, hanno un’identità perduta ed impossibile da ricostruire, come il Lavinaio, il Mercato o i Borghi dove recentemente il disagio si è espresso in episodi di guerriglia urbana. Per questi ambiti la normativa vigente del Prg si limita a proporre improbabili trasformazioni puntuali di edifici che non avranno mai la qualità dell’abitare di una città europea, ricostruzioni di ruderi praticamente irrealizzabili ma non la sostituzione di parti urbane secondo un disegno unitario e coerente.
Le città si evolvono da sempre secondo una complessa dialettica tra innovazione e tradizione. Napoli ha una cultura che, per secoli, si è formata attraverso contaminazioni e stratificazioni successive. Dovrà imparare a convivere anche con il contemporaneo se vorrà preservare i caratteri del suo passato, salvare il nucleo irriducibile della sua identità migliore e governare i cambiamenti in una prospettiva di progresso, piuttosto che subirli passivamente.
© Riccardo RosiSegretario InArch Campania