Non sappiamo mettere a frutto la nostra differenza

Quando si parla di Napoli, le antitesi sono d’obbligo: “miseria e nobiltà”, oppure “paradiso abitato da diavoli”. O magari “le due Napoli” di cui Domenico Rea incominciò a parlare quasi settant’anni fa, affrontando una questione che è praticamente la stessa di cui ancora ci occupiamo avviando questo confronto su immagine e sviluppo della città. Da una parte c’è infatti la Napoli concreta, quella con cui ogni giorno ci misuriamo, e dall’altra ce n’è una – la sua immagine – che è insieme seducente e repulsiva, elusiva e persistente; una specie di figura retorica che può applicarsi tanto alla consolatoria contemplazione di una sfiorita bellezza (come avviene nelle canzoni dell’epoca d’oro), quanto all’apocalittica visione del Male Assoluto (come avviene in “Gomorra-la serie”, ma non solo).

Per quanto mi riguarda, il discorso su Napoli è per l’appunto viziato da un sovraccarico di vana retorica, che il più delle volte serve a nascondere o a ridimensionare i problemi. Che cos’altro, se non una retorica assai imbolsita, fa sì, per esempio, che continuiamo a riferirci ai giovani come alla nostra maggiore risorsa e speranza, mentre il fatto che il loro profitto scolastico è fra i più bassi d’Italia e che, al contrario, l’evasione scolastica è tra le più alte, ci sembrano quasi dettagli irrilevanti?

L’immagine di Napoli – e dentro ci metto pure il vasto corredo oleografico che la caratterizza – è un patrimonio che va senz’altro valorizzato, anche se non sembra che vogliamo coltivarlo come meriterebbe. Per esempio: mi è capitato varie volte di notare che se arriva un turista (e per fortuna ne stanno arrivando tanti, quanti non ne abbiamo mai visti), e per caso vuole andare ad ascoltare le canzoni napoletane, non ha dove andare. Lo stesso se ha voglia di assistere a una commedia di Eduardo. A me sembra uno spreco inaudito che a Napoli non ci sia un auditorium dove ogni sera onesti professionisti replichino, per anni e anni, uno spettacolo di canzoni napoletane classiche, o dove ogni sera sia possibile vedere un testo teatrale di Eduardo (o di Viviani, o di De Simone). Ci accontentiamo di qualche improvvisato piano bar o di qualche amatoriale posteggia: di una “Malafemmena” miagolata alla bell’e meglio, o di qualche trafelato pulcinella che gira strimpellando malamente il mandolino e può al massimo ambire a entrare nei selfie che si scattano i turisti. Ma che cosa facciamo in concreto per fondare sulla nostra grande tradizione, e sull’immagine che ne deriva, un originale percorso di sviluppo? Che facciamo per essere all’altezza della nostra storia?

Non sappiamo sfruttare la nostra “differenza”: il più delle volte, anzi, la subiamo, e questo succede proprio perché abbiamo fatto troppo poco per riuscire a governarla. Così è accaduto che la nostra “differenza” sia tutta o quasi in perdita: disoccupazione, criminalità, disorganizzazione. Mentre cercavamo un improbabile riscatto nei territori più rarefatti della cultura contemporanea, tendevamo a dimenticarci del nostro passato, avvertito anzi come un fastidio, una specie d’insopportabile condanna all’immutabilità. Eppure, in un mondo occidentale perfettamente omologato, poter contare su una città quasi naturalmente refrattaria all’omologazione potrebbe essere un grande vantaggio. Purché, appunto, si sappia governare questa refrattarietà, la si sappia instradare, le si presentino modelli virtuosi, e si smetta di celebrarla al ribasso, esaltando la solita arte di arrangiarsi o beandosi della pretesa “simpatia” e “intelligenza” dei napoletani.

Per me, insomma, sviluppo a Napoli significa soprattutto turismo e cultura. Se sapremo giocare bene le nostre carte, concentrandoci sulla professionalità di cui abbiamo bisogno, un futuro ci sarà. Ma se continueremo ad avere un magnifico lungomare, per giunta “liberato”, ma al malcapitato turista che vi si avventura non si sarà stati capaci nemmeno di servire un gin tonic fatto come si deve, il futuro si farà ancora attendere a lungo.