La storia di Napoli non è mai coincisa con la storia della pianificazione urbanistica vista come l’insieme di linee orientative astratte, bensì è stata scritta essenzialmente da uno spontaneismo nella sua forma e nelle sue funzioni.
Si impone dunque già da tempo un cambio di paradigma nello studio della complessità metropolitana napoletana che si fondi sull’osservazione diretta della quotidianità delle persone vissuta tra negozi, strade e luoghi del lavoro in un intreccio che fa della “diversità” il tratto distintivo anche di un semplice rione cittadino.
Questo metodo fu proposto circa un decennio addietro dall’urbanista Carlos Moreno con la “città del quarto d’ora”, ovvero di quartieri dove a 15 minuti a piedi o in bicicletta dalla propria abitazione si possa raggiungere tutto ciò di cui potrebbe avere bisogno ogni residente nell’arco della giornata, aree in grado di annullare lo stress urbano che sempre più spesso è la causa di forme di depressione esistenziale e di esclusione sociale.
Ma a tale lungimirante ipotesi progettuale si sono sovrapposti tre eventi di portata storica che hanno rimesso in discussione lo stesso concetto di città: la crisi economica del 2017, la “peste del XXI secolo” ed il ritorno di un conflitto bellico in territorio europeo: essi si pongono come uno spartiacque tra un “prima ed un dopo”, ovvero come occasione per riprogettare il futuro delle città. Anche a Napoli, seppure a livello indiziario rispetto ad altre metropoli europee, si possono cogliere i primi segnali di un cambiamento profondo della sua tradizionale immagine: la diffusione territoriale delle funzioni urbane e la pervasività della tecnologia nella vita sociale ed individuale contribuiranno sempre più a costruire un dopo che potremmo definire di tipo post-globalizzazione.
L’ufficio come luogo del lavoro è ormai accompagnato o sostituito dallo smart working, che rimette in discussione l’organizzazione e spesso la dimensione dell’abitazione; al negozio di vicinato si preferisce il quick commerce che rappresenta “il sogno della servitù per tutti”; al rito socializzante del cinema e del teatro si sostituiscono i consumi d’appartamento (Zoom, Netflix). Anche lo shopping di qualità si ritrova ormai nei centri commerciali localizzati nella corona periferica della città. Intanto al centro, tipico il caso di Parigi, si diffondono unità del dark store il più delle volte senza insegne e chiusi al pubblico, riconoscibili dal numero di rider che aspettano con ansia il pacco da consegnare a domicilio entro 15 minuti con le loro biciclette che rappresentano un nuovo simbolo del paesaggio urbano.
Gratificazione soggettiva, pigrizia sociale ed apatia culturale sono solo alcuni segnali forti che alimentano una possibile nuova divisione in classi: da una parte quelli che stanno a casa immersi nel loro benessere soggettivo grazie alla possibilità di accesso alle innovazioni tecnologiche che annullano spazio e tempo ad uso personale; dall’altra, coloro che risultano geolocalizzati nei “buchi” dell’infosfera e quindi spesso esclusi anche dal dall’accesso ai servizi sociali obbligatori (la salute e la formazione).
Questi nuovi elementi della transazione in atto si mescolano in modo tale da rappresentare un vero e proprio nodo gordiano che chiama in causa tutti i responsabili del futuro di Napoli. In particolare l’esperienza finora maturata nel processo di costruzione della Città Metropolitana ci ha insegnato che i vecchi progetti vanno ridisegnati completamente, il che non può certo essere affidato esclusivamente agli amministratori pubblici quanto piuttosto deve coinvolgere tutta la comunità, con adeguate pratiche partecipative così come del resto prevede lo stesso Statuto della Città Metropolitana quando definisce il “Forum Metropolitano” come l’organismo di confronto tra tutte le forme associative delle categorie produttive e sociali.
Con il solo e nobile obiettivo di garantire a tutti quello che Henry Lefebvre nell’ormai lontano 1969 con una fortunata espressione definiva il “diritto alla città”.