Pica Ciamarra: «Decentramento, etica e visione integrata per realizzare il sogno di Napoli Città metropolitana»

di

La rivoluzione di carta, intrappolata da otto anni tra le pagine della Gazzetta Ufficiale, rischia di andare in fumo tra le inerzie della politica e le sabbie mobili di una burocrazia che toglie il respiro anche alle migliori idee. Se la legge numero 56 del 7 aprile 2014, entrata in vigore il successivo 19 agosto, fosse evasa dai confini del dettato normativo per inverarsi nel mondo vivente, oggi le nostre vite sarebbero probabilmente diverse. Invece quella che fu annunciata come una metamorfosi epocale è rimasta finora un'utopia. E l'area metropolitana di Napoli, con i suoi 92 comuni addossati senza soluzione di continuità fin sotto le pendici del Vesuvio, è rimasta una marmellata indistinta di bisogni e di iniziative.

Animato dall'esigenza di portare un contributo ad una trasformazione concreta, ordinata e sostenibile, Massimo Pica Ciamarra, urbanista, progettista di molte e rilevanti opere, già professore di Progettazione architettonica alla Federico II, a marzo del 2021 ha curato con Patrizia Bottaro il volume "Verso Napoli Città metropolitana". Ottanta pagine liberamente scaricabili dal web che tratteggiano la città futura e futuribile, teorizzando la necessità di riformarne l'assetto istituzionale e di imboccare senza esitazioni la strada della sostenibilità sociale e ambientale. Le uniche scelte possibili, secondo Pica Ciamarra, per garantire un nuovo destino all'area urbana di Napoli e ai suoi 3 milioni di abitanti.

Che cosa deve accadere perché "Napoli diventi realmente una città metropolitana", con uno sviluppo armonico e interconnesso e una programmazione unitaria, come lei ha auspicato?

«Io credo per prima cosa si debbano determinare le condizioni che secondo la Legge e lo Statuto consentano di pensare a organismi di scala superiore ai singoli Comuni. La vecchia legge degli anni '90 puntava alla "fusione" tra i Comuni: un unico organismo con un unico consiglio, unica gestione e unico sindaco. Nella legge del 2014 questa facoltà è rimasta: ma si prevede una "unione" di Comuni, magari per favorire un passaggio meno traumatico. Il vero problema, però, è gestire un organismo che possa diventare un soggetto non solo di rilievo nazionale, ma anche internazionale. Occorre un

organismo anche rapido nelle politiche e nelle decisioni».

Dal vostro studio, però, si deduce che questo non è l'unico problema.

«Infatti, ne abbiamo individuato anche un altro: la legge parla di "aree omogenee" e attualmente ne sono state individuate cinque, una delle quali è l'intero Comune di Napoli. È evidente che non sono aree omogenee. Se si riuscirà a fare in modo che un cittadino di Caivano si senta cittadino di Napoli, si sarà realizzata non la "Città Metropolitana di Napoli", ma "Napoli Città Metropolitana". Per ottenere questo risultato occorre un riassetto istituzionale. Le aree omogenee dovrebbero avere l'ordine di grandezza dei centomila abitanti, non del milione. Nel nostro volume ne ipotizziamo una ventina. Soprattutto il Comune di Napoli va disaggregato. La legge dice che i Comuni capoluogo deliberano di attribuire a parti del loro territorio - che per semplicità potrebbero coincidere con le dieci Municipalità - autonomia amministrativa. A questo punto sarebbero le prime "zone omogenee". Oggi le Municipalità hanno autonomia funzionale e gestionale, ma non amministrativa. E se prendi una mappa di Napoli, trovi una babele di servizi distribuiti sul territorio senza una logica organica. Questo inibisce la partecipazione democratica. Abbiamo bisogno di cambiare passo, dando vita a "enti di prossimità" di dimensione conforme, dotati di autonomia amministrativa, con al loro intero tutti i servizi territoriali, dai distretti sanitari a quelli scolastici. Questa visione integrata consente la partecipazione dei cittadini».

Evidentemente, lei immagina uno sviluppo policentrico.

«Non c'è dubbio. La Città metropolitana è un sistema; tutto deve partire da un atto concreto: una delibera del consiglio comunale del Comune capoluogo che attribuisca autonomia amministrativa a parti del proprio territorio, siano queste le Municipalità o loro aggregazioni. Nel momento in cui questo succede, la macchina si mette in moto. Una legge per farlo c'è dal 2014, ma guarda caso nessuna delle tre città che debbono farlo, Roma, Milano e Napoli, quelle con più di 3 milioni di abitanti, lo ha ancora fatto».

Ritiene auspicabile anche un'elezione diretta di primo livello del sindaco metropolitano?

«Sì, certo. La legge del 2014 dice che quando i Comuni capoluogo hanno deliberato di attribuire autonomia amministrativa a loro parti il sindaco della Città metropolitana sia eletto da tutti i cittadini. L'area va ripensata in termini complessivi. Napoli negli ultimi decenni ha espulso tre o quattrocentomila persone, passando da 1,3 milioni di abitanti a 900mila. Li ha espulsi in termini economici: è più facile comprare casa nei comuni limitrofi che in città. Così, molti si sono spostati in quella che Nitti definiva "corona di spine"; non votano per il loro sindaco. Le Città metropolitane in Italia sono 14, tante quanto negli altri Paesi europei. Quelle oltre 3 milioni di abitanti sono solo Roma, Milano e Napoli. Una forte aggregazione e con una sapiente strategia Napoli può acquistare un peso nel sistema nazionale e soprattutto nel Mediterraneo. Perché questo accada, però, i 3 milioni della Città metropolitana di Napoli dovrebbero sentirsi tutti napoletani. Prendiamo l'esempio di Bagnoli: in ottica urbana si parla di un grande parco, ma in un ragionamento di scala metropolitana, i parchi occorrono a Caivano, a Nola e così via, mentre Bagnoli potrebbe diventare un parco agricolo produttivo. Finché i nostri temi saranno il Molo San Vincenzo, la Galleria Vittoria e Bagnoli, resteremo chiusi in un'ottica provinciale. È soprattutto una questione di mentalità, quindi di scala: è interesse nazionale che Napoli Città metropolitana diventi un soggetto significativo, così come è interesse nazionale che si realizzi il ponte sullo Stretto di Messina, previso dal Corridoio 1 che collega Berlino a Palermo. I processi non riguardano mai piccole aree».

Insomma, si tratta di allargare il campo visivo.

«Esatto. Spesso ricordo due città: Oslo, che ha un reddito pro capite di 90mila euro, e Medellin dove il reddito pro-capite di circa 9mila dollari l'anno. Con un decimo della ricchezza di Oslo, il sindaco di Medellin è riuscito a determinare virtuosi processi di sviluppo. Non è quindi questione di danaro, ma soprattutto di visione e di capacità».

Com'è cambiato negli ultimi cinquant'anni il disegno di Napoli e della sua cinta urbana? E quanto la città reale somiglia alla città sperata, immaginata?

«Non le somiglia per niente. La città che viviamo oggi è quella pensata trent'anni fa. Oggi abbiamo bisogno di pensare a Napoli Città Metropolitana almeno tra venti o trent'anni. Se non la progettiamo adesso, tra trent'anni non sarà vera. Il tempo è sembra lungo, ma bisogna cominciare e pensare in termini trans-generazionali. La città egoista, quella che i greci antichi definivano "idiota", quella che si isola, non ha futuro. E noi abbiamo gli edifici che sono idioti, in quanto non stabiliscono relazioni tra loro. Invece la città è relazione, è stare insieme».

Il motivo del fallimento nella realizzazione delle aree metropolitane è da ricercare anche in questa inerzia?

«C'è anche un altro aspetto: la città metropolitana solo per semplicità e banalità si è fatta coincidere con la vecchia Provincia. Ci sono parti significative della nostra Città metropolitana, come l'Aversano, che ne sono escluse, anche se la legge consente che possano aderire».

Intanto, manca il Piano Territoriale di Coordinamento, strumento centrale nella pianificazione: quella di Napoli è l'unica provincia campana che ne è sprovvista. Secondo lei, perché?

«So che Napoli ha avviato questo procedimento, ci lavora il professor Domenico Moccia. Il fatto è che oggi manca ancora una visione a lungo termine. L'attuale piano strategico della città metropolitana di Napoli si chiama "piano strategico 2020-2021": mentre Francoforte, Parigi, Londra sono proiettate al 2050 e al 2070. Altrove si lavora in prospettiva. La Casa delle città - oggi c'è il progetto per Palazzo Penne_ dovrebbe essere il luogo dove i cittadini vedono progetti e alternative, discutono del loro futuro. Negli anni '90 abbiamo ragionato su questi temi con altri architetti e urbanisti, sociologi e storici, arrivando a proposte concrete frenate perché spostavano i cosiddetti bacini elettorali. Con la legge del 2014 c'è stato un tentativo di sbloccare un processo fermo da vent'anni con una semplificazione: la Città metropolitana si sostituisce alla Provincia. Non si è centrato pienamente il problema, ma almeno ha consentito di avviare un processo. Oggi si avverte la necessità di uno scatto in avanti».

La Città metropolitana di Napoli sconta anche un'anomalia: quella di una densità demografica difficile da sopportare. Con una simile sproporzione tra suolo disponibile e presenza antropica, e con un territorio molto urbanizzato e in molti casi devastato da anni di abusivismo selvaggio, non è difficile fare progetti?

«Certamente questo è un problema, un problema complesso. Ma la densità, come la complessità, prima considerata un elemento negativo, è un valore se si ragiona in termini di integrazione. Basti pensare a Edgar Morin. La città si è andata sviluppando dando risposte singole a singoli problemi, ingombrando i territori, costruendo case, chiese e scuole isolate. Indispensabile una visione sistemica. La densità è un disvalore se le risposte sono antiquate o tradizionali. La cultura della separazione ha fatto in modo che la somma di tante soluzioni singole abbia determinato invivibilità e caos. La visione integrata, invece, apre al futuro. L'abusivismo selvaggio è stato prodotto anche da un sistema normativo rigido e improprio, paralizzante. Le leggi dovrebbero aiutare e indirizzare la gente a lavorare al di là dei singoli egoismi. Se in una città occorrono anni per avere un permesso a costruire, è chiaro che si incentiva l'abusivismo. Servono meccanismi normativi che facilitino i processi di trasformazione: a Parigi o a Londra, è tutto rapido. Se hai bisogno di un permesso, vai su internet e sai esattamente che cosa puoi fare e dove. La burocrazia ha tempi ragionevolmente brevi. Noi viviamo in un territorio dove l'abusivismo raggiunge il 20 per cento. Una quota elevatissima. Il Piano Regolatore di Napoli del 2004, che prende avvio nel '94, l'ha paralizzata. Ha determinato una speculazione impropria, ha fatto aumentare i valori di chi possiede nella città ed emarginato le fasce più deboli. Se non si lavora per ridurre le disuguaglianze, sulle pari opportunità, non c'è futuro. Dovremmo privilegiare le questioni ambientali, non martoriare i paesaggi. In questo senso, l'enciclica "Laudato si'" di Papa Francesco è una vera lezione di urbanistica».

Intende dire che c'è un'etica dell'urbanistica?

«Sì, un'etica che va contro gli egoismi. Napoli potrebbe fare da apripista in questo senso. Potremmo adottare bus a idrogeno - oggi si può produrre con sole e acqua di mare, elementi che dalle nostre parti certo non mancano. La cosa strana, invece, è che Bolzano ha bus a idrogeno mentre a Napoli si continua a usare il gasolio inquinante. La qualità della vita è anche questa. Non è nelle belle architetture, ma nelle relazioni immateriali fra le parti. La città è comunità, è stare insieme, è favorire la partecipazione: da decenni c'è un territorio disseminato di edifici che non sono in relazione tra loro».

Uno sviluppo urbano eticamente sostenibile migliorerebbe anche la qualità della vita?

«Senza dubbio. La qualità degli ambienti di vita porta benessere, economia, sicurezza, socialità, felicità. Se lo capissimo, investiremmo di più sul futuro delle nostre città. Condizione fondamentale anche per lo sviluppo economico».

Serve un riequilibrio tra centro e periferia? La grande città cannibalizza ancora i centri dell'hinterland?

«Certo, li soffoca e soffoca sé stessa con il traffico. Il sabato tante persone dai comuni limitrofi si riversano a Napoli, nei luoghi del tempo libero, la città diventa invivibile. Abbiamo un territorio costiero soffocato e un interno povero. Se avessimo la forza di ridare identità a questi pezzi di territorio, spostando funzioni nelle cosiddette aree periferiche, invertiremmo la prospettiva e questo gioverebbe a tutti. Definisco le periferie "disagi da colmare" Tutto sta nell'annullare il senso della periferia. Si parla molto di "città dei cinque minuti": da quando Madame Hidalgo (Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ndr) ha lanciato questa idea, è diventata di moda, ma a Napoli avevamo cominciato a parlarne negli anni '70, con il Piano Quadro delle Attrezzature. Il PUC di Caserta è basato sulla "città dei cinque minuti", individua luoghi di incontro e di socializzazione da raggiungere con facilità. Per Caserta abbiamo previsto anche una serie di navette, appunto a idrogeno, che percorrono un paio di chilometri. Distanze che, unite ai percorsi pedonali, diventano sostenibili».

Il Pnrr può dare una spinta a questi processi?

«Me lo auguro, ma credo che la fretta dei processi tenderà a favorire solo le infrastrutture. Gli investimenti principali cammineranno in altre direzioni, più che in quella della trasformazione delle città. Tempi così rapidi non sono compatibili con le nostre norme. Forse Milano, che pure ha un modello di sviluppo che non entusiasma, è l'unica città italiana che negli ultimi vent'anni ha determinato trasformazioni significative. Ma in generale siamo lenti nella testa».

Ci condanna questa lentezza, uno dei vizi endemici che ci portiamo dietro (o forse dovremmo dire dentro) da sempre?

«Sì. Più che una legge contro il consumo di suolo, farei una legge contro il consumo di tempo. Ho progettato il Policlinico a Caserta: ebbene, 26 anni dopo è ancora in costruzione. Perché in altri posti per fare un'opera simile ci vogliono tre anni mentre da noi trenta non bastano? Io la velocità non la considero efficienza, la considero etica. Significa processi controllabili. Quando passa tanto tempo, si perdono le responsabilità, si perdono tensione e attenzione. E la montagna di soggetti che intervengono è tale da bloccare tutto».

Forse dopo trent'anni si perde anche il senso.

«È evidente. Siamo ostaggio di un meccanismo farraginoso: il vero problema è che le carte stiano a posto. Tuttavia, ho sempre molta fiducia nel futuro. E ho fiducia nella nuova amministrazione napoletana. Confido in un cambio di passo, anche se non la vedo ancora molto impegnata sul tema della Città metropolitana, questione importante a scala nazionale, è nell'interesse del Paese. Tutto sta nel desiderare realmente una cosa. C'è una bellissima frase di Saint-Exupéry: "Se vuoi costruire una nave, più che radunare e dare ordini, risveglia negli uomini il desiderio del mare». Ecco, la chiave di tutto è lì».

Che cosa deve accadere perché "Napoli diventi realmente una città metropolitana", con uno sviluppo armonico e interconnesso e una programmazione unitaria, come lei ha auspicato?

«Io credo per prima cosa si debbano determinare le condizioni che secondo la Legge e lo Statuto consentano di pensare a organismi di scala superiore ai singoli Comuni. La vecchia legge degli anni '90 puntava alla "fusione" tra i Comuni: un unico organismo con un unico consiglio, unica gestione e unico sindaco. Nella legge del 2014 questa facoltà è rimasta: ma si prevede una "unione" di Comuni, magari per favorire un passaggio meno traumatico. Il vero problema, però, è gestire un organismo che possa diventare un soggetto non solo di rilievo nazionale, ma anche internazionale. Occorre un

organismo anche rapido nelle politiche e nelle decisioni».

Dal vostro studio, però, si deduce che questo non è l'unico problema.

«Infatti, ne abbiamo individuato anche un altro: la legge parla di "aree omogenee" e attualmente ne sono state individuate cinque, una delle quali è l'intero Comune di Napoli. È evidente che non sono aree omogenee. Se si riuscirà a fare in modo che un cittadino di Caivano si senta cittadino di Napoli, si sarà realizzata non la "Città Metropolitana di Napoli", ma "Napoli Città Metropolitana". Per ottenere questo risultato occorre un riassetto istituzionale. Le aree omogenee dovrebbero avere l'ordine di grandezza dei centomila abitanti, non del milione. Nel nostro volume ne ipotizziamo una ventina. Soprattutto il Comune di Napoli va disaggregato. La legge dice che i Comuni capoluogo deliberano di attribuire a parti del loro territorio - che per semplicità potrebbero coincidere con le dieci Municipalità - autonomia amministrativa. A questo punto sarebbero le prime "zone omogenee". Oggi le Municipalità hanno autonomia funzionale e gestionale, ma non amministrativa. E se prendi una mappa di Napoli, trovi una babele di servizi distribuiti sul territorio senza una logica organica. Questo inibisce la partecipazione democratica. Abbiamo bisogno di cambiare passo, dando vita a "enti di prossimità" di dimensione conforme, dotati di autonomia amministrativa, con al loro intero tutti i servizi territoriali, dai distretti sanitari a quelli scolastici. Questa visione integrata consente la partecipazione dei cittadini».

Evidentemente, lei immagina uno sviluppo policentrico.

«Non c'è dubbio. La Città metropolitana è un sistema; tutto deve partire da un atto concreto: una delibera del consiglio comunale del Comune capoluogo che attribuisca autonomia amministrativa a parti del proprio territorio, siano queste le Municipalità o loro aggregazioni. Nel momento in cui questo succede, la macchina si mette in moto. Una legge per farlo c'è dal 2014, ma guarda caso nessuna delle tre città che debbono farlo, Roma, Milano e Napoli, quelle con più di 3 milioni di abitanti, lo ha ancora fatto».

Ritiene auspicabile anche un'elezione diretta di primo livello del sindaco metropolitano?

«Sì, certo. La legge del 2014 dice che quando i Comuni capoluogo hanno deliberato di attribuire autonomia amministrativa a loro parti il sindaco della Città metropolitana sia eletto da tutti i cittadini. L'area va ripensata in termini complessivi. Napoli negli ultimi decenni ha espulso tre o quattrocentomila persone, passando da 1,3 milioni di abitanti a 900mila. Li ha espulsi in termini economici: è più facile comprare casa nei comuni limitrofi che in città. Così, molti si sono spostati in quella che Nitti definiva "corona di spine"; non votano per il loro sindaco. Le Città metropolitane in Italia sono 14, tante quanto negli altri Paesi europei. Quelle oltre 3 milioni di abitanti sono solo Roma, Milano e Napoli. Una forte aggregazione e con una sapiente strategia Napoli può acquistare un peso nel sistema nazionale e soprattutto nel Mediterraneo. Perché questo accada, però, i 3 milioni della Città metropolitana di Napoli dovrebbero sentirsi tutti napoletani. Prendiamo l'esempio di Bagnoli: in ottica urbana si parla di un grande parco, ma in un ragionamento di scala metropolitana, i parchi occorrono a Caivano, a Nola e così via, mentre Bagnoli potrebbe diventare un parco agricolo produttivo. Finché i nostri temi saranno il Molo San Vincenzo, la Galleria Vittoria e Bagnoli, resteremo chiusi in un'ottica provinciale. È soprattutto una questione di mentalità, quindi di scala: è interesse nazionale che Napoli Città metropolitana diventi un soggetto significativo, così come è interesse nazionale che si realizzi il ponte sullo Stretto di Messina, previso dal Corridoio 1 che collega Berlino a Palermo. I processi non riguardano mai piccole aree».

Insomma, si tratta di allargare il campo visivo.

«Esatto. Spesso ricordo due città: Oslo, che ha un reddito pro capite di 90mila euro, e Medellin dove il reddito pro-capite di circa 9mila dollari l'anno. Con un decimo della ricchezza di Oslo, il sindaco di Medellin è riuscito a determinare virtuosi processi di sviluppo. Non è quindi questione di danaro, ma soprattutto di visione e di capacità».

Com'è cambiato negli ultimi cinquant'anni il disegno di Napoli e della sua cinta urbana? E quanto la città reale somiglia alla città sperata, immaginata?

«Non le somiglia per niente. La città che viviamo oggi è quella pensata trent'anni fa. Oggi abbiamo bisogno di pensare a Napoli Città Metropolitana almeno tra venti o trent'anni. Se non la progettiamo adesso, tra trent'anni non sarà vera. Il tempo è sembra lungo, ma bisogna cominciare e pensare in termini trans-generazionali. La città egoista, quella che i greci antichi definivano "idiota", quella che si isola, non ha futuro. E noi abbiamo gli edifici che sono idioti, in quanto non stabiliscono relazioni tra loro. Invece la città è relazione, è stare insieme».

Il motivo del fallimento nella realizzazione delle aree metropolitane è da ricercare anche in questa inerzia?

«C'è anche un altro aspetto: la città metropolitana solo per semplicità e banalità si è fatta coincidere con la vecchia Provincia. Ci sono parti significative della nostra Città metropolitana, come l'Aversano, che ne sono escluse, anche se la legge consente che possano aderire».

Intanto, manca il Piano Territoriale di Coordinamento, strumento centrale nella pianificazione: quella di Napoli è l'unica provincia campana che ne è sprovvista. Secondo lei, perché?

«So che Napoli ha avviato questo procedimento, ci lavora il professor Domenico Moccia. Il fatto è che oggi manca ancora una visione a lungo termine. L'attuale piano strategico della città metropolitana di Napoli si chiama "piano strategico 2020-2021": mentre Francoforte, Parigi, Londra sono proiettate al 2050 e al 2070. Altrove si lavora in prospettiva. La Casa delle città - oggi c'è il progetto per Palazzo Penne_ dovrebbe essere il luogo dove i cittadini vedono progetti e alternative, discutono del loro futuro. Negli anni '90 abbiamo ragionato su questi temi con altri architetti e urbanisti, sociologi e storici, arrivando a proposte concrete frenate perché spostavano i cosiddetti bacini elettorali. Con la legge del 2014 c'è stato un tentativo di sbloccare un processo fermo da vent'anni con una semplificazione: la Città metropolitana si sostituisce alla Provincia. Non si è centrato pienamente il problema, ma almeno ha consentito di avviare un processo. Oggi si avverte la necessità di uno scatto in avanti».

La Città metropolitana di Napoli sconta anche un'anomalia: quella di una densità demografica difficile da sopportare. Con una simile sproporzione tra suolo disponibile e presenza antropica, e con un territorio molto urbanizzato e in molti casi devastato da anni di abusivismo selvaggio, non è difficile fare progetti?

«Certamente questo è un problema, un problema complesso. Ma la densità, come la complessità, prima considerata un elemento negativo, è un valore se si ragiona in termini di integrazione. Basti pensare a Edgar Morin. La città si è andata sviluppando dando risposte singole a singoli problemi, ingombrando i territori, costruendo case, chiese e scuole isolate. Indispensabile una visione sistemica. La densità è un disvalore se le risposte sono antiquate o tradizionali. La cultura della separazione ha fatto in modo che la somma di tante soluzioni singole abbia determinato invivibilità e caos. La visione integrata, invece, apre al futuro. L'abusivismo selvaggio è stato prodotto anche da un sistema normativo rigido e improprio, paralizzante. Le leggi dovrebbero aiutare e indirizzare la gente a lavorare al di là dei singoli egoismi. Se in una città occorrono anni per avere un permesso a costruire, è chiaro che si incentiva l'abusivismo. Servono meccanismi normativi che facilitino i processi di trasformazione: a Parigi o a Londra, è tutto rapido. Se hai bisogno di un permesso, vai su internet e sai esattamente che cosa puoi fare e dove. La burocrazia ha tempi ragionevolmente brevi. Noi viviamo in un territorio dove l'abusivismo raggiunge il 20 per cento. Una quota elevatissima. Il Piano Regolatore di Napoli del 2004, che prende avvio nel '94, l'ha paralizzata. Ha determinato una speculazione impropria, ha fatto aumentare i valori di chi possiede nella città ed emarginato le fasce più deboli. Se non si lavora per ridurre le disuguaglianze, sulle pari opportunità, non c'è futuro. Dovremmo privilegiare le questioni ambientali, non martoriare i paesaggi. In questo senso, l'enciclica "Laudato si'" di Papa Francesco è una vera lezione di urbanistica».

Intende dire che c'è un'etica dell'urbanistica?

«Sì, un'etica che va contro gli egoismi. Napoli potrebbe fare da apripista in questo senso. Potremmo adottare bus a idrogeno - oggi si può produrre con sole e acqua di mare, elementi che dalle nostre parti certo non mancano. La cosa strana, invece, è che Bolzano ha bus a idrogeno mentre a Napoli si continua a usare il gasolio inquinante. La qualità della vita è anche questa. Non è nelle belle architetture, ma nelle relazioni immateriali fra le parti. La città è comunità, è stare insieme, è favorire la partecipazione: da decenni c'è un territorio disseminato di edifici che non sono in relazione tra loro».

Uno sviluppo urbano eticamente sostenibile migliorerebbe anche la qualità della vita?

«Senza dubbio. La qualità degli ambienti di vita porta benessere, economia, sicurezza, socialità, felicità. Se lo capissimo, investiremmo di più sul futuro delle nostre città. Condizione fondamentale anche per lo sviluppo economico».

Serve un riequilibrio tra centro e periferia? La grande città cannibalizza ancora i centri dell'hinterland?

«Certo, li soffoca e soffoca sé stessa con il traffico. Il sabato tante persone dai comuni limitrofi si riversano a Napoli, nei luoghi del tempo libero, la città diventa invivibile. Abbiamo un territorio costiero soffocato e un interno povero. Se avessimo la forza di ridare identità a questi pezzi di territorio, spostando funzioni nelle cosiddette aree periferiche, invertiremmo la prospettiva e questo gioverebbe a tutti. Definisco le periferie "disagi da colmare" Tutto sta nell'annullare il senso della periferia. Si parla molto di "città dei cinque minuti": da quando Madame Hidalgo (Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ndr) ha lanciato questa idea, è diventata di moda, ma a Napoli avevamo cominciato a parlarne negli anni '70, con il Piano Quadro delle Attrezzature. Il PUC di Caserta è basato sulla "città dei cinque minuti", individua luoghi di incontro e di socializzazione da raggiungere con facilità. Per Caserta abbiamo previsto anche una serie di navette, appunto a idrogeno, che percorrono un paio di chilometri. Distanze che, unite ai percorsi pedonali, diventano sostenibili».

Il Pnrr può dare una spinta a questi processi?

«Me lo auguro, ma credo che la fretta dei processi tenderà a favorire solo le infrastrutture. Gli investimenti principali cammineranno in altre direzioni, più che in quella della trasformazione delle città. Tempi così rapidi non sono compatibili con le nostre norme. Forse Milano, che pure ha un modello di sviluppo che non entusiasma, è l'unica città italiana che negli ultimi vent'anni ha determinato trasformazioni significative. Ma in generale siamo lenti nella testa».

Ci condanna questa lentezza, uno dei vizi endemici che ci portiamo dietro (o forse dovremmo dire dentro) da sempre?

«Sì. Più che una legge contro il consumo di suolo, farei una legge contro il consumo di tempo. Ho progettato il Policlinico a Caserta: ebbene, 26 anni dopo è ancora in costruzione. Perché in altri posti per fare un'opera simile ci vogliono tre anni mentre da noi trenta non bastano? Io la velocità non la considero efficienza, la considero etica. Significa processi controllabili. Quando passa tanto tempo, si perdono le responsabilità, si perdono tensione e attenzione. E la montagna di soggetti che intervengono è tale da bloccare tutto».

Forse dopo trent'anni si perde anche il senso.

«È evidente. Siamo ostaggio di un meccanismo farraginoso: il vero problema è che le carte stiano a posto. Tuttavia, ho sempre molta fiducia nel futuro. E ho fiducia nella nuova amministrazione napoletana. Confido in un cambio di passo, anche se non la vedo ancora molto impegnata sul tema della Città metropolitana, questione importante a scala nazionale, è nell'interesse del Paese. Tutto sta nel desiderare realmente una cosa. C'è una bellissima frase di Saint-Exupéry: "Se vuoi costruire una nave, più che radunare e dare ordini, risveglia negli uomini il desiderio del mare». Ecco, la chiave di tutto è lì».

Che cosa deve accadere perché "Napoli diventi realmente una città metropolitana", uno sviluppo armonico e interconnesso, una programmazione unitaria, come lei ha auspicato?

«Io credo per prima cosa si debbano determinare le condizioni che secondo la legge e lo statuto consentano di pensare a organismi di scala superiore ai singoli Comuni. La vecchia legge degli anni '90 puntava alla fusione tra i Comuni in un unico organismo con un unico consiglio, un'unica gestione e un unico sindaco. Nella legge del 2014 questa facoltà è rimasta, ma si è pensato ad un'unione di Comuni per garantire un passaggio meno traumatico. Il vero problema, però, è gestire un organismo che possa diventare un soggetto non solo di rilievo nazionale, ma anche internazionale. Un organismo rapido nelle politiche e nelle decisioni è un obiettivo da raggiungere».

Dal vostro studio, però, si deduce che questo non è l'unico problema.

«Infatti, ne abbiamo individuato anche un altro: la legge parla di aree omogenee, ne sono state individuate cinque, una delle quali è l'intero Comune di Napoli. È evidente che quelle non sono aree omogenee. Se riusciremo a fare in modo che un cittadino di Caivano si senta cittadino di Napoli, avremo realizzato quella che noi chiamiamo "Napoli città metropolitana". Per ottenere questo risultato c'è da fare un riassetto istituzionale. Le aree omogenee dovrebbero essere concepite nell'ordine dei centomila abitanti, non di un milione. Nel nostro volume ne ipotizziamo una ventina. E diciamo che il Comune di Napoli non deve sfuggire alla logica della disgregazione. La legge dice che i Comuni capoluogo deliberano di attribuire a parti del loro territorio, che per semplicità facciamo coincidere con le dieci Municipalità, autonomia amministrativa. Solo a questo punto le zone diventerebbero veramente omogenee. Oggi le Municipalità hanno autonomia funzionale e gestionale, ma non amministrativa. E se prendi una mappa di Napoli, trovi una babele di servizi distribuiti sul territorio senza una logica organica. Questo inibisce la partecipazione democratica. Abbiamo bisogno di cambiare passo, dando vita a enti di prossimità dotati di autonomia amministrativa che abbiano al loro intero tutti i servizi territoriali, dai distretti sanitari a quelli scolastici. Questa visione integrata consente la partecipazione dei cittadini».

Evidentemente, lei immagina uno sviluppo policentrico.

«Non c'è dubbio. La Città metropolitana è è un sistema, e tutto deve partire da un atto concreto: una delibera del consiglio comunale della città capoluogo che attribuisca autonomia amministrativa a parti del proprio territorio, siano queste Municipalità o aggregazioni di Municipalità. Nel momento in cui questo succede, la macchina si mette in moto. Una legge per farlo c'è dal 2014, ma guarda caso nessuna delle tre città che possono farlo, Roma, Milano e Napoli, quelle con più di 3 milioni di abitanti, lo ha ancora fatto».

Ritiene auspicabile anche un'elezione diretta di primo livello del sindaco metropolitano?

«Sì, certo. La legge del 2014 dice che quando i Comuni hanno deliberato di attribuire autonomia amministrativa a delle loro parti il sindaco della Città metropolitana deve essere eletto da tutti i cittadini. Ma l'area urbana va ripensata in termini complessivi. Napoli negli ultimi anni ha espulso tre o quattrocentomila persone, passando da una popolazione di 1,3 milioni di abitanti a 900mila. Li ha espulsi in termini economici, perché è più facile comprare casa nei comuni limitrofi che in città. Così, molti si sono spostati in quella che Nitti chiamava "corona di spine", e non votano per il loro sindaco. Le Città metropolitane in Italia sono 14. Con simili aggregazioni e con una strategia si può acquistare un peso nel sistema nazionale e soprattutto nel Mediterraneo. Perché questo accada, però, i 3 milioni della Città metropolitana di Napoli dovrebbero sentirsi tutti napoletani. Prendiamo l'esempio di Bagnoli: in un'ottica urbana, parliamo di un grande parco, ma se facciamo un ragionamento di scala metropolitana dobbiamo pensare che i parchi occorrono a Caivano e a Nola e che forse quell'area potrebbe diventare un parco agricolo produttivo. Finché i nostri temi saranno il Molo San Vincenzo, la Galleria Vittoria e Bagnoli, resteremo chiusi in un'ottica provinciale. È soprattutto una questione di mentalità, quindi di scala: è interesse nazionale che la Città metropolitana di Napoli diventi un soggetto significativo così come è interesse nazionale che si realizzi il ponte sullo Stretto di Messina, previso dal Corridoio 1 che collega Berlino a Palermo. I processi non riguardano mai piccole aree».

Insomma, si tratta di allargare il campo visivo.

«Esatto. Mettiamo a paragone due città: Oslo, che ha un reddito pro capite di 90mila euro, e Medellin, dove in media ogni abitante guadagna circa 9mila dollari l'anno. Con un decimo della ricchezza di Oslo, il sindaco di Medellin è riuscito a determinare grandi processi di sviluppo urbano. Questo significa che non è una questione di danaro, ma di capacità».

Com'è cambiato negli ultimi cinquant'anni il disegno di Napoli e della sua cinta urbana? E quanto la città reale somiglia alla città sperata, immaginata?

«Non le somiglia per niente. Purtroppo la città che viviamo oggi è quella che è stata pensata trent'anni fa. Oggi abbiamo bisogno di pensare alla città tra venti o trent'anni. Se non la progettiamo adesso, tra trent'anni non sarà vera. Il tempo è lungo, ma bisogna cominciare e pensare in termini transnazionali. La città egoista, quella che i greci antichi definivano "idiota", quella che si isola, non ha futuro. E noi abbiamo gli edifici che sono idioti, in quanto non stabiliscono relazioni tra loro. Invece la città è relazione, è stare insieme».

Il motivo del fallimento nella realizzazione delle aree metropolitane è da ricercare anche in questa inerzia?

«C'è anche un altro aspetto: le relazioni tra i territori non sono coincidenti con la suddivisione della vecchia Provincia. Ci sono parti significative della nostra Città metropolitana, come l'Aversano, che ne sono escluse, anche se la legge consente che possano aderire».

Intanto, manca il Piano Territoriale di Coordinamento, strumento centrale nella pianificazione: quella di Napoli è l'unica provincia campana che ne è sprovvista. Secondo lei, perché?

«So che Napoli ha avviato questo procedimento e che se ne occupava il professor Domenico Moccia. Il fatto è che manca una visione che abbia tempi lunghi. Il piano strategico della città metropolitana di Napoli si chiama "piano strategico 2020-2021", mentre Francoforte, Parigi, Londra sono proiettate al 2050 e al 2070. Altrove si lavora con una prospettiva. La Casa delle città, che qui si vuole fare a Palazzo Penne, è un luogo dove i cittadini vedono i progetti, discutono del loro futuro. Negli anni '90 abbiamo ragionato su questi temi con altri architetti e urbanisti, sociologi e storici, arrivando a proposte concrete che però non riuscivano a passare perché queste cose spostano i cosiddetti bacini elettorali. Con la legge del 2014 c'è stato un tentativo di sbloccare un processo fermo da vent'anni con una semplificazione per cui la Città metropolitana sostituiva la Provincia. Un tentativo che non ha centrato pienamente il problema, ma almeno ha consentito di avviarlo. La politica ci rallenta eppure oggi si avverte questa necessità di uno scatto in avanti».

La Città metropolitana di Napoli sconta anche un'anomalia: quella di una densità demografica difficile da sopportare. Con una simile sproporzione tra suolo disponibile e presenza antropica, e con un territorio molto urbanizzato e in molti casi devastato da anni di abusivismo selvaggio, non è difficile fare progetti?

«Certamente questo è un problema, ed è un problema complesso. Ma la densità, come la complessità, che prima era considerata un elemento negativo, oggi è un valore, se si ragiona in termini di integrazione. Basti pensare a Edgar Morin. La città che si è andata sviluppando ha dato risposte singole a singoli problemi, ingombrando i territori costruendo chiese e scuole. La soluzione è pensare al sistema. La densità è un disvalore se diamo risposte antiquate, tradizionali. La cultura della separazione fa in modo che la somma di tante soluzioni singole determini il caos. La visione integrata, invece, è la visione del futuro. Quanto all'abusivismo selvaggio, è stato prodotto anche da un sistema normativo rigido e improprio, che ci paralizza. Le leggi dovrebbero aiutare e indirizzare la gente a lavorare al di là dei singoli egoismi. Se in una città per avere un permesso a costruire ci metto dai tre ai cinque anni, è chiaro che si incentiva un sistema di abusivismo. Servono meccanismi normativi che facilitino i processi di trasformazione: a Parigi o a Londra, è tutto molto rapido. Se hai bisogno di un permesso, vai su internet e sai esattamente che cosa puoi fare e dove. La burocrazia ha tempi ragionevolmente brevi. Noi viviamo in un territorio che ha il 20 per cento di abusivismo sul costruito totale. Una quota elevatissima. Ma ritengo che il piano regolatore di questa città del 2004, che nasce nel '94, l'ha paralizzata. Ha determinato una speculazione impropria, facendo aumentare i valori di chi possiede nella città e emarginando le fasce più deboli. Se non lavoriamo sulla riduzione delle disuguaglianze e sulle pari opportunità per tutti, non abbiamo fatto niente. E poi non abbiamo la capacità di pensare in termini ambientali, mentre i nostri paesaggi sono martoriati. In questo senso, l'enciclica "Laudato si'" del Papa è stata una lezione di urbanistica».

Intende dire che c'è un'etica dell'urbanistica?

«Sì, un'etica che va contro gli egoismi. Napoli potrebbe fare da apripista in questo senso, adottando bus a idrogeno, una sostanza che oggi si può produrre con sole e acqua di mare, due elementi che dalle nostre parti certo non mancano. La cosa strana, invece, è che Bolzano ha bus a idrogeno mentre a Napoli continuiamo a usare il gasolio inquinante. La qualità della vita è questa. Non nelle belle architetture, ma nelle relazioni immateriali fra le parti. La città è comunità, è stare insieme, è favorire la partecipazione, mentre noi abbiamo un sistema urbano disseminati di edifici che non sono in relazione tra loro».

Uno sviluppo urbano eticamente sostenibile migliorerebbe anche la qualità della vita?

«Senza dubbio. La qualità degli ambienti di vita porta benessere, economia, sicurezza, felicità. Se lo capissimo, investiremmo di più sul futuro delle nostre città. Condizioni fondamentali anche per lo sviluppo economico».

Serve un riequilibrio tra centro e periferia? La grande città cannibalizza ancora i centri dell'hinterland?

«Certo, li soffoca e soffoca sé stessa con il traffico. Il sabato tante persone dai comuni limitrofi si riversano a Napoli, nei luoghi del tempo libero, e la città diventa invivibile. Abbiamo una costa soffocata e un interno più povero. Se avessimo la forza di ridare identità a questi pezzi di territorio, spostando funzioni nelle aree periferiche, invertiremmo la prospettiva e questo gioverebbe a tutti. Io definisco le periferie dei disagi da colmare. Tutto sta nell'annullare il senso della periferia. Si parla molto di Città dei cinque minuti: da quando madame Hidalgo (Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ndr) ha lanciato questa idea, è diventata una grande moda, ma a Napoli avevamo cominciato a parlarne negli anni '70. Il Puc per Caserta che abbiamo realizzato è basato sulla città dei cinque minuti, che consiste nel decentramento del quale parlavamo prima: significa creare luoghi di incontro e di socializzazione da raggiungere con facilità. Per Caserta abbiamo previsto anche una serie di navette, appunto a idrogeno, che percorrono un paio di chilometri. Distanze che, unite ai percorsi pedonali, diventano sostenibili».

Il Pnrr può dare una spinta a questi processi?

«Me lo auguro, ma credo che la fretta dei processi tenderà a favorire le infrastrutture. Gli investimenti principali cammineranno in altre direzioni, più che in quella della trasformazione delle città. Tempi così rapidi non sono compatibili con le nostre norme. Forse Milano, che pure ha un modello di sviluppo che non entusiasma, è l'unica città italiana che negli ultimi vent'anni ha determinato una trasformazione significativa. Ma in generale siamo lenti nella testa».

Ci condanna questa lentezza, uno dei vizi endemici che ci portiamo dietro (o forse dovremmo dire dentro) da sempre?

«Sì. Più che una legge contro il consumo di suolo, farei una legge contro il consumo di tempo. Io sono il progettista del Policlinico di Caserta: ebbene, 26 anni dopo è ancora in costruzione. Perché in altri posti per fare un'opera simile ci vogliono tre anni e da noi trenta non bastano? Io la velocità non la considero efficienza, la considero etica. Significa che i processi sono controllabili. Quando passa tanto tempo, si perdono le responsabilità, si perdono la tensione e l'attenzione. E la montagna di soggetti che intervengono è tale da bloccare tutto».

Forse dopo trent'anni si perde anche il senso.

«È evidente. Siamo ostaggio di un meccanismo farraginoso, per cui il vero problema è che le carte stiano a posto. Tuttavia, io ho sempre molta fiducia nel futuro. E ho fiducia nella nuova amministrazione napoletana. Confido in un cambio di passo, anche se non la vedo ancora impegnata sul tema della Città metropolitana, che è importante nell'interesse del Paese. Tutto sta nel desiderare realmente una cosa. C'è una bellissima frase di Saint-Exupéry che dice: "Se vuoi costruire una nave, risveglia negli uomini il desiderio del mare». Ecco, la chiave di tutto è lì».