Pnrr, quella promessa di illuminare il Sud. Giannola (Svimez): «Ma servono strategie e visione nazionale»

di

Una pioggia di danaro che fa sognare un nuovo mondo. Più giusto, più equo, più unito, più verde. O almeno: una nuova Europa, una nuova Italia, un nuovo Mezzogiorno. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il programma di investimenti che l'Italia e gli altri partner dell'Ue devono consegnare alla Commissione europea per accedere alle risorse del Recovery Fund, porta in dote un bastimento carico di monete sonanti e di aspettative imponenti. Ma anche un ponderoso carico di interrogativi. E mentre promette di ridurre le diseguaglianze, assottigliando quel gap infrastrutturale che separa le due Italie in cui è spaccata l'Italia, rilancia per l'ennesima volta una scommessa fallita troppe volte. Una scommessa che tuttavia Adriano Giannola, marchigiano col cuore che batte a Sud, economista, docente universitario e presidente di Svimez (l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) non si è rassegnato a perdere.

Professor Giannola, che cosa dobbiamo aspettarci noi che viviamo nel Sud Italia da questa pioggia di danaro?

«Stiamo esasperando la questione. Il disastro è l'Italia, basta guardare i dati. Certo, al Nord stanno molto meglio, ma l'Ue è preoccupata per il nostro Paese nel suo complesso. Per questo è necessario un discorso nazionale in cui il Mezzogiorno deve avere quel ruolo che da vent'anni non ha mai avuto. Il Pnrr dev'essere – lo dice il nome stesso - un piano nazionale. E questo vuol dire che deve ripartire il Sud, che è fermo da vent'anni ed ha perso con la crisi il 30 per cento della capacita produttiva, diventando un corpo inerte. Ma in questi anni anche Nord ha perso terreno, in un gioco perverso in cui tutti stanno peggio. La verità è che l'Italia è un Paese in discesa rispetto al resto d'Europa, e l'Unione europea non può permettersi di veder fallire, come è accaduto per la Grecia, 60 milioni di persone».

Come è successo che il Sud è diventato il corpo inerte di cui parla?

«Trent'anni fa, quando l'Italia cresceva, il Sud era assistito, eppure non era la palla al piede di cui tutti si lamentano. Lo è diventato per le politiche che per lunghissimo tempo hanno favorito il Nord, un Nord che ha perso terreno e non è riuscito a mettersi in gara col resto d'Europa. Morale: la parte più debole ha pagato il prezzo più alto. In questi anni, il Sud ha perso il 15 per cento del Pil e il 30 per cento della capacità produttiva. Intanto, però, il Nord non è cresciuto. Anzi, ha perso l'8 per cento del prodotto interno lordo».

Alla luce di questa analisi, che cosa deve fare l'Italia con questi soldi?

«Prima di tutto deve recuperare in Europa quel ruolo che sta perdendo. Un ruolo strategico sul piano geopolitico. La pandemia, la globalizzazione e i flussi migratori stanno imponendo dei cambiamenti sul piano demografico e dei nuovi mercati, con la forza lavoro che verrà sempre di più dall'Africa, e il Mediterraneo diventerà sempre di più un crocevia tra Europa, Usa e Africa, un'unione commerciale che cresce del 4 per cento l'anno. Quando vedi che i cinesi stanno comprando l'Africa, capisci dove stiamo andando. Proprio in virtù di questo ruolo geopolitico fondamentale l'Europa ci riconosce tanti soldi. Invece noi che abbiamo fatto? Ci siamo integrati con i tedeschi attratti dal mito della Mitteleuropa, mentre il Sud resta un deserto. Dovremmo capire che la grande carta che l'Europa ci chiede di giocare è la proiezione nel Mediterraneo, altrimenti nel 2026 arriverà un commissario europeo. Draghi è messo lì per evitare questo epilogo, a salvaguardia di una sovranità nazionale a rischio.

Quali sono i primi passi da fare per assumere questo ruolo di epicentro del Mediterraneo?

«Bisogna attrezzare i porti di tutto il Mezzogiorno, che sono i migliori del Mediterraneo, come quelli del Nord e far funzionare le Zes, che oggi esistono solo sulla carta. Serve la zona doganale interclusa, si devono localizzare nei retroporti le imprese, che lì possono fare la trasformazione dei prodotti agricoli. Ci condannano l'Ignavia, la pigrizia, una grande dose di idiozia e il concetto di essere un retroterra della Baviera piuttosto che un avamposto dell'Europa nel Mediterraneo. Dobbiamo dichiarare entro sei mesi che questo è il nostro progetto per il Paese e, visto che a Napoli non si riesce a mettere in piedi il porto; devono venire ad aiutarci dal Nord, dove di impresa ne sanno molto di più di meridionali. Qui solo per nominare un'autorità ci vogliono tre anni, poi si fa il commissario, quando finalmente si nomina il presidente non piace al governatore, quello che piace al governatore non piace al ministro: una storia infinita. D'altra parte, vent'anni di desertificazione lasciano il segno. È il momento di tornare a fare le cose con una logica nazionale. Non è per il Mezzogiorno, ma per l'Italia».

In questo quadro nazionale, qual è il ruolo delle Zone economiche speciali?

«Le Zes vanno viste come organi extraterritoriali che possono mettere in moto il territorio, ma servono un coordinamento nazionale e una volontà ferrea al livello governativo per fare in modo che compongano un hub logistico compatto. Solo così possiamo essere protagonisti. Le Zone economiche speciali possono essere i caposaldi di un sistema coordinato equivalente a quello che comprende Rotterdam e Amburgo».

Lei è critico anche sul coinvolgimento di Comuni e Regioni.

«In un'ottica nazionale, è assurdo che le risorse vengano distribuite con bandi regionali e comunali. Gli enti locali non sono tecnicamente attrezzati e non hanno una visione strategica, lo hanno dimostrato. Il governo su questo ha una responsabilità enorme. Certo, una parte di quei soldi dovrà servire ai territori, ma il grosso deve gestirle il governo. Oggi il Sud è un'opportunità nazionale enorme e va messa in moto non affidandosi al buon cuore delle Regioni, che manco capiscono di cosa si parla e guardano giustamente ciascuna al proprio territorio. Il ponte sullo Stretto non è una cosa che si fa per la Calabria e la Sicilia, ma serve al Paese intero. Se cresce il Sud, il mercato si rinvigorisce e il Nord recupera quello che ha perso in questi vent'anni a causa di un mercato interno sempre più povero».

Insomma, ci vuole un po' di coraggio.

«Soprattutto, ci vuole il coraggio di dirle, queste cose. Se le cerchi nei documenti del governo, non le trovi. "Se corre Milano, corre l'Italia", dicono. Ma Milano non corre per niente. Abbiamo vissuto per anni nell'illusione che eravamo i migliori al mondo, mentre stavamo scivolando sempre più in basso. Una disperazione ammantata di presunzione».

Intanto, dovremmo cominciare col chiarire che il PNRR non è una generosa elargizione, ma è una sorta di mutuo che dovremo ripagare con gli interessi.

«Esatto. A maggior ragione devi fare con quei soldi qualcosa che metta in moto altre cose. Se, come temo, verranno dati con i famosi bandi si finirà per fare cose che non smuoveranno i nodi di questo Paese. E se pure non dovessimo restituirli, quei soldi li prendiamo dal bilancio europeo, per cui in altre forme li paghiamo comunque tutti noi. Se questa scommessa non avrà un controvalore, torneremo all'austerità espansiva di Monti. Una follia che ha distrutto il Paese».

C'è chi sostiene che questo sia il momento di fare le riforme. È d'accordo?

«È sempre il momento di fare le riforme, tutti i governi ne parlano. Ma non si è mai parlato della perequazione sui servizi fondamentali come scuola, sanità e mobilità. Si tratta di capire che cosa significa fare le riforme. Se non hai le strategie, con le riforme rischi di rovinare le cose. Ma poi c'è poco da fare riforme: sappiamo perfettamente che cosa serve. Prima di tutto, si deve superare il criterio della spesa storica, e questo governo ha tutti i poteri e tutti i mezzi per abolire la spesa storica. L'obiettivo dev'essere una spesa pro capite uguale per tutti. Il Pnrr in questo senso è un'opportunità: non si toglie nulla a chi ha di più, ma si può cominciare a dare di più a chi ha di meno in termini di servizi, ospedali, infrastrutture, realizzando una perequazione produttiva. Esattamente quello che non vuole chi promuove l'autonomia differenziata. Perché chi ha di più vuole blindare il privilegio con la scusa che non sono stati definiti i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni.  Ma è solo un modo disperato per far fronte la loro crisi e per continuare a prendere più risorse a scapito del Mezzogiorno, che è un mercato sempre più povero e quindi viene meno. Intanto, al Sud alcuni diritti le persone si sono pure dimenticate di averli e non li reclamano neanche più. Per dirne una, la Campania è quella che ha di meno nella spesa sanitaria. Qui la salute è meno tutelata rispetto a qualsiasi altra parte d'Italia. Un graduale processo di riavvicinamento con il Pnrr si può fare senza toccare chi è privilegiato».

Uno degli obiettivi del piano di ripresa e resilienza è, appunto, il contrasto alle diseguaglianze

«Quando parlo di coraggio e chiarezza, intendo che il governo doveva dire questo. Mettere in moto quelli meno assistiti serve a tutti. L'Europa sta dicendo che dobbiamo combattete le disuguaglianze e promuovete coesione sociale, cose apparentemente banali, che però nessuno ha il coraggio di dire. Fino all'introduzione dell'euro abbiamo vissuto di illusioni alimentate dalle svalutazioni competitive, ma era tutto un gioco monetario. Non c'era un aggiornamento delle tecnologie, delle infrastrutture. Se adesso saremo in grado di realizzare una grande modernizzazione dei porti e dei retroporti, cambieremo il Paese».

intanto Napoli è in ritardo sulla presentazione dei progetti. C'è da temere anche le solite difficoltà sulla capacità di spesa? De Luca qualche giorno fa ha parlato della «palude burocratica», vaticinando che «non arriveremo a spendere 209 miliardi».

«Questo è un rischio effettivo. Il Pnrr è la replica dell'intervento straordinario negli anni '50, con la differenza che allora i soldi ci venivano dati in prestito dalla Banca Mondiale, mille miliardi in dieci anni. Era un periodo più lungo e si sapeva che cosa dovevamo fare con quello stanziamento. Per fortuna non c'erano le Regioni, altrimenti ci avremmo messo un anno solo per capire da dove cominciare. Uno strumento per decidere cosa fare, per pianificare e realizzare, lo avevamo creato: la Cassa per il Mezzogiorno. E le imprese pubbliche al Sud non erano cattedrali nel deserto, ma un supporto all'industria del Nord fondamentale per poter competere in Europa. Con le sue aziende e con i suoi 3 milioni di emigranti, il Mezzogiorno ha avuto un ruolo decisivo nel Miracolo italiano. Oggi l'Italia è un Paese in stato comatoso che cresce al Nord dello 0,3 per cento mentre il Sud scende dello 0,4 per cento. Abbiamo bisogno di rinascere, dobbiamo dare colpo di reni, ma si parla solo della pandemia. Guai a discutere di strategie, di progetti, di porti, di ferrovie. E dire che siamo al centro del Mediterraneo. Potremmo abbattere la CO2 in due anni attrezzando i porti, usando i traghetti ecologici, mandando le merci via mare e liberando strade e autostrade dai tir. L'Italia è l'unico Paese che può farlo in Europa. Questo significa unire una visione politica a una visione di impresa. Invece non ne parla nessuno, neanche il governo».

Un mese fa il neo sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ha lanciato un allarme: «Sui fondi del Pnrr c'è il rischio di infiltrazioni criminali». Ritiene sia un timore fondato?

«Dove ci sono i soldi, questo timore è sicuramente fondato. Ma i timori si confrontano con la realtà, che deve essere molto rigorosa, attenta e semplice. Per evitare il condizionamento della criminalità, un grande progetto va affidato a grandi attori capaci di agire una capacità di controllo tale da garantire che quelle infiltrazioni siano marginali. In poche parole, bisogna fare in modo che siano le istituzioni a dettare la strategia».

Lei ha detto che il PNRR sarà efficace per il Sud solo se ci sarà un progetto nazionale. Ma questa strategia comune, questa visione di insieme esiste?

«Non se ne è proprio parlato. Non dico che non c'è. Nel retrobottega di un governo che fa i decreti, s'arrabatta in un momento difficile, le idee ci saranno. Ma se l'idea è che fatte le riforme si è risolto tutto, è una grande illusione. Il concetto della riforma si basa sul principio secondo cui il mercato è perfetto, non si può pensare che il Pnrr avrà successo se si faranno le riforme. Oggi Draghi dovrebbe dire chiaramente che cosa intende fare e promettere che lo farà. Con un approccio molto decisionista che parta da una necessità comune. Con il carisma e l'autorità che ha, potrebbe farlo».

L'ambizione è quella di affrontare le debolezze strutturali dell'economia, come i perduranti divari territoriali. C'è il rischio che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza possa finire per scavare un solco ancora più profondo tra il Nord e il Sud dell'Italia?

«Il rischio c'è se seguiamo la linea di minor resistenza. Si devono fare i bandi e dire alle Regioni di parteciparvi, invece di dire loro di indire i bandi che manco sanno fare. Veniamo da trent'anni di localismo che ha svuotato il governo centrale al punto che molti ministeri non hanno più i tecnici. Con un fritto misto, la strategia nazionale va a farsi benedire. Il governo deve dire alle Regioni che devono collegarsi al programma nazionale, deve dettare le linee di indirizzo e quelle sulla programmazione della spesa. Del resto, nel 2009 lo stesso Draghi disse che il problema del Sud è un problema nazionale. Serve una politica nazionale di coesione su sanità, infrastrutture, trasporti. E questo si fa solo saltando le Regioni. La ferrovia da Napoli a Bari, per esempio, non si è ancora fatta. Eppure si tratta di due aree metropolitane importantissime, due zone economiche speciali collegano l'Adriatico col Tirreno. La ferrovia passerebbe per aree interne che si stanno spopolando, l'Irpinia e la Puglia, con 12 stazioni».

Insomma, il futuro potrebbe sorridere al Sud.

«Certo, ma le redini devono essere saldamente in mano a un centro che sappia quello che vuole fare e che lo dica. Il governo si assuma una responsabilità, esca allo scoperto, dichiari gli obiettivi. Non farlo è furbesco. Del resto, senza l'Italia l'Europa è tagliata fuori dalla globalizzazione perché siamo al centro del Mediterraneo. Tant'è vero che i tedeschi hanno capito che devono supportare l'Italia e che il nostro Paese deve essere protagonista. Evitarne il fallimento è utile agli interessi europei. Se siamo tagliati fuori dai rapporti con l'Africa, siamo tagliati fuori dalla forza lavoro e dal mercato del futuro. L'Italia, però, deve essere in grado di realizzare questa strategia. Se cominciamo a dare i soldi ai Comuni e alle Regioni, se non parliamo della perequazione che è la prima cosa che si deve fare, se non parliamo dei porti, delle autostrade del mare, i tedeschi ci manderanno il commissario. Magari avrà un nome italiano, ma arriverà».