Restauro e Cura del Moderno

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"Prendetevi cura solerte dei vostri monumenti e non avrete alcun bisogno di restaurarli […] vigilate su un vecchio edificio con attenzione premurosa, proteggetelo meglio che potete e a ogni costo da ogni accenno di deterioramento […] mettetegli attorno dei sorveglianti come se si trattasse delle porte di una città assediata”. Con queste parole John Ruskin raccontava nel 1849 l’essenza della manutenzione, intesa quale operazione rivolta dalla comunità al proprio patrimonio costruito, quale cura per un elemento identitario, e proprio per questo, da ritenersi “bene comune” per eccellenza; cura che allontana l’intervento straordinario sul manufatto e al contempo, se effettuato a valle di questo, ne allunga la durata. L’aforisma di uno dei maggiori interpreti del restauro inglese si riferiva evidentemente a edifici storici in muratura portante, capaci di resistere anche oltre due millenni alla ‘prova del tempo’, in modo ben diverso rispetto a quelli costruiti con materiali che l’incipiente avvio dell’industria delle costruzioni avrebbe messo in campo di lì a poco, come il cemento armato. A partire dalla fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento “l’Arte del costruire” ci ha regalato opere di Architettura, come il Guggenheim Museum di New York, o di Ingegneria, come stazioni, acquedotti, pensiline e ponti che hanno adottato questo ‘nuovo materiale’ in via sperimentale, spesso ai limiti delle sue potenzialità strutturali, giungendo a sintesi straordinarie di forma architettonica e funzionamento statico. Il “patrimonio della modernità” – che utilizza in modo sperimentale materiali allora innovativi come il cemento armato precompresso, spinto ai limiti della sua resistenza per assicurare perfetta rispondenza tra forma e struttura, come molti ponti italiani della metà del Novecento in Italia, tra cui il viadotto Morandi a Genova – presenta, oggi, problemi di deperibilità e durata; si rivela, a distanza di circa un secolo dalla sua realizzazione, assai fragile di fronte a condizioni ambientali del tutto diverse e più aggressive rispetto a quelle per le quali fu progettato. Gli autori di queste opere del Moderno hanno lavorato ‘per sottrazione di materia’ per raggiungere i requisiti di leggerezza e esilità, fino al punto in cui le volute a rampa del museo newyorkese o gli stralli dei ponti rappresentano al contempo la connotazione architettonica e l’andamento delle forze che caratterizzano l’opera dal punto di vista strutturale. Le Comunità hanno riconosciuto il valore di queste opere, che risiede proprio nell’impiegare al meglio ed in modo innovativo le tecniche e i materiali in uso al tempo della loro costruzione, e le hanno studiate, quali icone della storiografia architettonica, sulle migliori riviste e monografie di architettura. Molte opere del moderno sono così divenute totem identitari di una data civiltà e ciò ha consentito su di esse l’applicazione delle leggi di tutela.

Anche nei casi in cui gli autori di queste opere hanno lavorato per la durata, non solo semantica, ma anche fisica della loro opera, scegliendo con accuratezza la qualità dei cementi, delle armature e dei materiali, alcune opere del ‘moderno’ presentano, per loro stessa natura, dei punti di fragilità, che vanno ben al di là dei problemi, pure cospicui, della conservazione del cemento armato; fragilità piuttosto legate all’impiego sperimentale di elementi che fanno parte dell’opera architettonica, esaltandone i valori figurativi e plastici. Per certi aspetti tale questione avvicina il restauro di molte opere di architettura ‘moderna’ ai temi del restauro dell’arte contemporanea. In questo ultimo campo si ha a che fare con ‘pezzi unici’, la cui originalità e autenticità artistica è sostanzialmente legata ai materiali costitutivi, anche quando questi sono fragili e deperibili, e anche nei casi in cui l’autore ha previsto e teorizzato per il suo lavoro una vita effimera, nonché l’importanza estetica dell’azione del tempo su di esse. Ebbene  in questi casi se l’opera ha ormai acquisito un suo autonomo valore storico o culturale tale da essere riconosciuta come elemento della memoria collettiva, ciò è sufficiente a motivarne il restauro, inteso innanzitutto come operazione tecnica volta a rallentarne il degrado e a preservarne il più a lungo possibile quei valori che la connotano.

In tal senso le “sentinelle” di cui parlava Ruskin alla metà dell’Ottocento, poste in essere su tale fragile patrimonio costruito dalle comunità contemporanee, dovrebbero essere oggi concepite come interventi di restauro e cura preventiva e manutentiva costante nel tempo, monitorata e ciclicamente ripetibile. Operazioni studiate declinando ad hoc, rispetto al caso specifico, con tecniche tradizionali e innovative, una costante attività di diagnostica e monitoraggio che porta ad una visione del restauro come processo continuo.