Scampia come Bagnoli

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La demolizione, non giusto ma inevitabile epilogo per le Vele di Scampia. Ne resterà una sola, ambiguo emblema d’una generosa utopia urbana negata o dell’ennesima malastoria dell’urbanistica napoletana del secondo Novecento. In ogni caso, un progetto di alta qualità edilizia e innovazione figurativa, forse quello che più di tutti ha espresso un’idea di modernità architettonica qui a Napoli. Un’esistenza travagliata, con errori politici (l’abusivismo tollerato e poi addirittura difeso), progettuali (piano urbanistico sbagliato, varianti tutte peggiorative), gestionali (servizi e attrezzature mai realizzati, 7000 abitanti lasciati senza governo). Un’ iconografia sempre possente, da sfondo avveniristico alla seduttiva falcata di Marina Suma nel film Le occasioni di Rosa del 1981 a spazio interno orrifico di Gomorra. Una letteratura sovrabbondante, dapprima con timbro elogiativo sulle maggiori e più qualificate riviste d’architettura, poi scivolata in ambito politico-sociologico che ha caricato Scampia di tutte le colpe possibili, infine monocorde sul tema delle Vele come male edilizio assoluto.

Un’immancabile (e irritante) drammatizzazione napoletana di analoghe situazioni diffuse in tutt’Italia, cioè le gravi difficoltà presenti nei grandi e medi quartieri popolari : dal Sant’Elia a Cagliari allo Zen 2 di Palermo, dal Librino di Catania al Corviale di Roma, dal Pilastro di Bologna a Forte Guezzi a Genova, al San Polo di Brescia. In nessun caso, si sono avute demolizioni totali ma piani di recupero e interventi mirati. Nel quartiere Artom a Torino nel giro di un paio di anni sono stati demoliti due edifici abitati in modo «problematico», nuove aree verdi al loro posto e famiglie diversamente sistemate. Senza psicodrammi come a Scampia, con ampia condivisione degli abitanti. Per le Vele, disappunto per una storia urbanistica finita male. Preoccupazione per ciò che seguirà.

Scampia come Bagnoli? Non è un interrogativo peregrino. Di certo per ora v’è il capitolo delle demolizioni e relativo finanziamento. Difficile appare il recupero integrale della Vela superstite , soprattutto sul versante della sicurezza sismica. Vaghe le cose che saranno realizzate, per ora c’è solo un semplice elenco di attrezzature. Precisa invece l’ipotesi che affida a risorse prevalentemente private la redenzione socio-urbanistica di un’area che non ha alcuna capacità attrattiva di capitali privati. Quanto basta per confermare la preoccupazione che Scampia si avvii a replicare i tempi biblici e le vaghezze progettuali che hanno segnato l’inconcludente quarto di secolo a Bagnoli.

Aspettiamo il Piano attuativo per giudizi più motivati . Osserviamo, a margine e nel frattempo, che l’attuale progetto di fattibilità ci dice che Scampia da «margine urbano» diverrà il «nuovo centro dell’area metropolitana», cioè il centro di 92 comuni, da Pozzuoli a Massalubrense. Troppa grazia, verrebbe da dire. Saremmo ampiamente soddisfatti se solo diventasse un normale e civile quartiere della città. E’ questo il livello d’azione, la natura degli obiettivi che sono sempre mancati, oggi come in un recente passato, all’urbanistica napoletana vocata all’iperbole anche quando si parte da situazioni disperanti.