Se la forma non insegue l'esibizione

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L’iperbole è la figura retorica che contraddistingue, in genere, la progettazione e la realizzazione degli impianti sportivi. La necessità di affrontare la grande dimensione spinge, talvolta, ad un tour de force strutturale che attribuisce a quest’ultima componente tutte le qualità espressive. Da tempo i grandi complessi sportivi sono i templi dove si celebrano periodicamente rituali agonistici carichi di aspettative come le Olimpiadi e raramente si sottraggono al rischio dell’enfasi retorica e della parata celebrativa.

Eccezioni significative si sono verificate quando i progettisti hanno saputo liberarsi da pesi reali e simbolici raggiungendo, talvolta, risultati eccellenti.

E’ il caso dell’Olympiastadion di Monaco di Baviera, realizzato da Frei Otto e Günther Behnisch, esemplare per forma, collocazione nello scenario naturale e memorabile per le tensostrutture d’inusitata forma e leggerezza.

Un impianto che visse una stagione di gloria tra il 1972 e il 1974, come teatro delle Olimpiadi prima e dei Campionati del Mondo di calcio dopo, in una Germania ancora all’ombra del muro.

Con la scomparsa della divisione in blocchi contrapposti del mondo sulla retorica politico-patriottica ha prevalso quella della globalizzazione e del “grande evento” e lo spettacolo del consumo si è sovrapposto alla competizione agonistica. La tipologia dello stadio non poteva essere esente da conseguenze: gli elementi strutturali non vengono più esibiti in prove di forza “muscolare” ma avvolti in involucri luminosi, cangianti, dalle sorprendenti sollecitazioni visive. Jacques Herzog e Pierre de Meuron sono tra i maggiori interpreti di questa trasformazione, artefici d’insolite “livree”: da quella per lo stadio olimpico di Pechino – il “nido di rondine” nella vulgata – alla fitta struttura di mattoni del Chelsea stadium che allude al tradizionale contesto urbano inglese.

L’Allianz Arena, una sorta di Zeppelin dai colori mutevoli “atterrato” a Monaco di Baviera, ha spodestato proprio l’Olympiastadion diventando l’impianto forse maggiormente emblematico di questa tendenza.

Una singolare eccezione nella recente produzione dei due architetti è lo stadio Matmut Atlantique progettato e realizzato a Bordeaux in occasione della candidatura della Francia ai Campionati Europei di calcio del 2016. L’impianto ha la forma di un catino che contiene il campo da gioco e gli spalti che possono ospitare 42.000 persone. In un soprassalto di sobrietà Herzog & de Meuron hanno affidato l’impatto visivo non a virtuosismi strutturali o suggestivi rivestimenti, ma ad una sorta di foresta metallica di 900 esili colonne che sostengono la copertura a spigoli vivi lasciando completamente libero da elementi strutturali lo spazio delle tribune. Una passerella dalla calibrata sinuosità si snoda all’interno della fitta cadenza delle colonne collegando i diversi ordini di tribune e conducendo ai punti di ristoro e alle terrazze che si affacciano sul campo.

Questa metafisica foresta artificiale smaterializza l’imponenza del manufatto e lo colloca in una dimensione ambigua rispetto allo sfondo naturale: mimetica e puramente astratta al tempo stesso.