Se Napoli resta in silenzio

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Bisogna immaginare una classe di cento studenti. Chiassosa come tutte le classi sovraffollate. E poi il professore che, secondo le regole di quella scuola, mette ai voti il prossimo capoclasse, colui che avrà il compito di segnalare quel che non funziona e provvedere alle riparazioni, di raccogliere i compiti scritti, di ascoltare i problemi e i desideri dei compagni, di distribuire secondo necessità e merito libri e merendine, eccetera. Quel giorno, dopo settimane di accanite discussioni e furibondi proclami tra i candidati capoclasse, sono rimasti in due a contendersi l’ambito scettro. Chi vota per Mario, chiede alla fine il professore, dopo aver fatto silenzio? Si alzano di scatto venticinque mani. Fischi di giubilo e versacci irripetibili accolgono il responso. Il professore conta e prende nota. E chi vota per Gennaro? Si alzano dodici mani. La classe rumoreggia ancora. Il professore da’ un’occhiata ai suoi numeri. Alza gli occhi sulla classe. Sembra perplesso. E gli altri, borbotta tra se e se? Chi non ha votato per nessuno dei due, chiede? Conta le mani alzate. Sono sessantatre.

È singolare, anche se ampiamente prevista, l’immagine che Napoli ha dato di se in occasione del ballottaggio per il rinnovo della carica di sindaco. La grande maggioranza della sua popolazione adulta, per una somma di motivi non di rado ben comprensibili e comunque tutti legittimi, ha rinunciato a recarsi alle urne. Ha disertato la scelta del capoclasse. Due elettori su tre hanno così attestato di non essere interessati alla cosa, di avere di meglio da fare, di non sapere che pesci pigliare. E comunque di non nutrire una preferenza tale nei confronti di uno dei due candidati oppure un giudizio critico tale nei confronti dell’altro da spingerli a uscire di casa, aprire l’ombrello (a tratti pioveva) e recarsi al proprio seggio.

Durante l’ultimo giorno di campagna elettorale, la città era stata percorsa dai galoppini dell’una e dell’altra parte, al Largo del Mercato e a piazza Dante le opposte tifoserie avevano gridato slogan e avevano ballato al ritmo della musica assordante, folle chiassose erano assiepate ai piedi dei due leader, il cielo notturno si era riempito di sontuosi fuochi d’artificio, sembravano gli apparati di festa di altre e remote epoche. E, dietro la festa, si avvertiva o ci si illudeva di avvertire un sentore di politica, idee forti, certezze irremovibili, passioni che si tagliavano con il coltello.

Ma forse era una distorsione percettiva. Quelle adunate si sarebbero rivelate assai poco oceaniche. La gente comune, il grosso dei napoletani erano rimasti indifferenti. In pochi e sia pure ruggenti si erano buttati a capofitto nella battaglia. Tanto rumore per nulla. Napoli, il lunedì seguente al giorno del ballottaggio, si era svegliata con la strana amara sensazione dell’assenza. Due su tre erano rimasti davanti alla tv, erano andati al cinema, avevano preso una pizza col pomodoro, avevano onorato il tavolino del burraco. “Ma io non ho visto niente, non ho visto un accidente!”, si lamenta il contadino di Enzo Iannacci dopo il miracolo di Prete Liprando. Due su tre non ci avevano neppure provato, a vedere il miracolo.

Ora, naturalmente, non c’è che da fare i complimenti a chi ha vinto con tenacia, irruenza e abilità. E concedere l’onore delle armi ha chi ci ha provato ed è stato sonoramente battuto. Ma quella classe di scolari indifferenti è anche una loro sconfitta. Bisognerebbe fare qualcosa subito. La città del silenzio, quel mutismo annunciato ma sorprendente del 19 giugno non sembra davvero un buon viatico. Un poco almeno della disordinata polifonia che Napoli produce quotidianamente (e che contiene creatività e sopraffazione, civiltà e inciviltà, bellezza e degrado) andrebbe armonizzato e riportato alla politica. La partecipazione, nella vita di una comunità urbana, non è un optional.