Staiano: «Perché il ddl Calderoli tradisce la Costituzione»

L'accademico avverte: «Contiene profili di illegittimità e compromette la competitività del Paese intero»

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Da un lato l'esperienza giuridica e accademica, dall'altro quella empirico-amministrativa. Sandro Staiano, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza e ordinario di Diritto costituzionale alla Federico II di Napoli, alla Carta fondativa della nostra Repubblica ha dedicato gran parte dei suoi 68 anni. Mentre alle elezioni per le due Regioni più grandi d'Italia, Lazio e Lombardia, si registra l'ennesima e ancora più vistosa emorragia di voti, il fronte del «no» al ddl Calderoli incassa gli anatemi del sindaco di Napoli e del presidente della Campania. E se il primo parla di «disegno di legge che non va nella direzione dell'interesse nazionale», aggiungendo che «c'è troppa frammentazione delle competenze in un momento in cui dobbiamo invece competere su scenari globali sempre più complicati», l'altro taglia corto: «L'ipotesi di autonomia proposta è inaccettabile, è una proposta propagandistica che spacca l'Italia».

Giudizi che Staiano, alla guida tra l'altro dell'Associazione italiana dei costituzionalisti, supporta vivisezionando il progetto di autonomia a trazione leghista con il bisturi della sapienza giuridica.

Professor Staiano, esiste un profilo di costituzionalità rispetto al disegno di legge Calderoli?

«Se vogliamo parlarne in termini di legittimità costituzionale, c'è un vistoso scostamento rispetto allo schema costituzionale, in quanto il ddl Calderoli prefigura un aspetto molto sperequativo. Ma questa è soprattutto una legge confusa nella sua ispirazione, per cui alcune cose andrebbero decriptate. Sarebbe in sostanza una legge di attuazione del terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione. I profili di costituzionalità andrebbero valutati sulla base dei parametri. Nel dibattito corrente si parla di incostituzionalità, ma le incompatibilità con le norme costituzionali sono elementi concreti. In effetti questa legge presenta degli elementi critici dei quali forse si può dubitare. Intanto perché c'è tutta una parte che riguarda il modo in cui dovranno essere approvate queste fonti di differenziazione attraverso un procedimento molto complesso che coinvolge il Parlamento. L'articolo 72 della Costituzione definisce i procedimenti legislativi e quindi le fasi in cui qualsiasi legge si deve sviluppare. Nella parte non definita dalla Costituzione il procedimento legislativo è riservato ai regolamenti parlamentari. La prima domanda da porsi, a questo punto, è: può una legge ordinaria, quale sarebbe questa di cui parliamo, modificare il procedimento di approvazione delle leggi? La risposta è "no". Ci vorrebbe, per stabilire un procedimento diverso, o una modifica dell'articolo 72 della Costituzione o, nella parte in cui l'articolo 72 lo consente, un regolamento parlamentare che riguardi la parte residua alla disciplina di quell'articolo. Certamente la legge ordinaria non può modificare o derogare procedimenti che sono definiti dall'articolo 72. Qui c'è un possibile scostamento, poiché se questo procedimento non dovesse conformarsi a questa articolazione delle norme sulla produzione normativa, la legge, per questa parte, dovrebbe essere considerata illegittima. Quando si parla di emarginazione del Parlamento, si fa una valutazione di ordine politico. Se la traduciamo in termini giuridici, possiamo ravvisare un elemento di scostamento dalla Costituzione che può essere qualificato in termini di legittimità».

Dunque, l'interrogativo sulla legittimità costituzionale non è così peregrino.

«Niente affatto. Tra l'altro, il procedimento previsto è molto articolato, forse addirittura un po' barocco. Questo adombra sempre un sospetto. Ma c'è anche un altro profilo che è pure molto delicato: quello relativo all'articolo 117. Si parla molto dei Livelli essenziali delle prestazioni, i famosi o famigerati Lep. Il punto è: chi li definisce, e quali sono le regole che orientano la loro determinazione? Ebbene, la Costituzione in questo articolo definisce il quadro generale delle competenze legislative delle Regioni. Dopo la revisione costituzionale introdotta nel 2001, abbiamo delle competenze riservate allo Stato, che sono elencate nel secondo comma, mentre il terzo comma si occupa di competenze articolate ripartite tra lo Stato e le Regioni, di modo che lo Stato stabilisce i principi e le Regioni stabiliscono la disciplina di attuazione e di dettaglio. Un quarto comma, una norma di chiusura, ci dice infine che le materie non comprese in nessuno di questi due elenchi spettano alla competenza delle Regioni. Abbiamo dunque un elenco di competenze esclusive dello Stato. Tra queste, alla lettera "m" del secondo comma, si parla dei Lep e si dice che la determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale - il che significa evidentemente che bisogna agire sulle sperequazioni territoriali - spetta alla legge dello Stato. Cioè: i Lep devono essere determinati con legge dello Stato. Questa è una riserva di legge. Ora si tratta di stabilire se questa riserva sia assoluta o relativa. Nel primo caso, la determinazione dei Lep deve essere compiuta interamente con legge dello Stato, cosa che si potrebbe anche sostenere, se si considera che i Lep vengono definiti sulla base di risultanze tecniche in modo molto puntuale, con delle percentuali. Per questo sarebbe ipotizzabile una competenza legislativa assoluta, senza residui. Ma pur ammettendo che questa riserva sia relativa, lo Stato dovrebbe porre i principi fondamentali e nell'ambito di questi provvedere alla fonte subordinata di tipo normativo, che potrebbe essere sempre di livello statale. Invece il ddl Calderoli dispone che i Lep vengano determinati con un Dpcm, un atto amministrativo su deliberazione del Consiglio dei ministri al quale si ricorre in situazioni di estrema urgenza. Questo sarebbe conforme alla riserva di legge statale relativa, ma la legge dovrebbe quanto meno stabilire i principi conformativi. Non però con indicazioni generiche, ma con indicazioni precise. Che in questo disegno di legge non ci sono. Nel ddl Calderoli c'è una semplice attribuzione di competenze con l'individuazione di qualche tratto molto vago in merito alle materie in cui i Lep debbano intervenire. Non è neanche spiegato bene come questi debbano essere definiti. Se invece la riserva di legge la consideriamo assoluta, il Dpcm non si può utilizzare. In quel caso, è la legge stessa che deve stabilire i Lep. Quello che ho appena illustrato è il secondo profilo di violazione della Costituzione, in particolare dell'articolo 117, secondo comma, lettera "m", nel quale si riserva alla legge dello Stato la determinazione dei Lep. Una determinazione che nel disegno di legge sull'autonomia differenziata avviene per mezzo di un atto di rango amministrativo del governo quale è il Dpcm, il quale non trova nel testo presentato da Calderoli un quadro adeguato di determinazione dei principi. Di conseguenza, anche se la riserva fosse relativa, questa sarebbe violata».

Per dirla con un tecnicismo, hanno fatto un papocchio?

«Sì, è una legge molto confusa, fatta di molte cose giustapposte per tentare di aggirare alcuni ostacoli. Ma questa semplice scrittura naturalmente non serve a nulla. Il grande tema è come determini i Lep, con quali garanzie e come li finanzi. Sembra una sorta di quadro estemporaneo e non meditato che poco si cura della praticabilità di questi meccanismi, avendo a cuore unicamente il tema del trasferimento delle competenze ai fini della captazione delle risorse. C'è poco da fare, l'obiettivo è sempre quello».

È una legge che mina la coesione nazionale?

«È in corso un forte conflitto sull'aggravamento della sperequazione tra Nord e Sud e del grande divario che già esiste. Ma io vorrei segnalare una cosa che riguarda tutto il Paese: noi non abbiamo bisogno di un'altra cattiva legge in materia di autonomie, perché ne abbiamo avute già troppe. Leggi poco meditate, confuse, piene di compromessi verbali senza contenuto, difficili da interpretare le abbiamo già avute. Abbiamo avuto perfino una legge di revisione costituzionale che aveva questo segno: la revisione del Titolo V parte seconda, che è una cattiva legge, scritta malissimo. Non furono fatte neanche le norme transitorie per disciplinare il passaggio dal vecchio al nuovo regime. Un testo tecnicamente disastroso. Di questo disastro fa parte anche la cattiva formulazione dell'articolo 116 terzo comma, che è stato introdotto allora e anche quello mal scritto. Se prefiguri una legge di differenziazione mi devi dire attraverso quale procedimento la vuoi porre in essere. Abbiamo avuto tanta legislazione poco meditata, di qualità tecnica molto bassa. Pensiamo all'abolizione delle Province. Dici che per abolirle ci vuole una legge di revisione costituzionale che poi non riuscirai mai a fare. Nel frattempo, volendo di fatto sopprimerle, le privi di risorse, stabilisci un meccanismo di elezione indiretta. Poi non riesci a fare la soppressione perché la legge di revisione costituzionale non passa, e ti trovi con questo Ircocervo, questo mostro. Questo dimostra che fare delle leggi del tutto velleitarie non serve a nessuno».

Il disegno di legge sull'autonomia differenziata nasce dalla riforma del Titolo V?

«C'è una visione strumentale che riprende quella norma confusa. La revisione del Titolo V fa parte delle leggi velleitarie e di scarsa qualità tecnica con la quale si voleva introdurre, senza nominarlo, il federalismo. Una cosa impraticabile in Italia, poiché il nostro Paese è fondato sulle autonomie regionali, che come ci dice l'articolo 5 della Costituzione è uno dei principi fondanti del nostro sistema, ma non ha nulla a che vedere con il federalismo così come storicamente noto, secondo il modello americano, per intenderci, perché quello i costituenti non lo vollero. Se leggiamo gli atti dell'Assemblea costituente, ci rendiamo conto che lo dissero esplicitamente: tutte le forze politiche, a parte qualche formazione minoritaria, lo aborrivano. Per questo viene fuori un principio di autonomia, ma nell'ambito dell'unità della Repubblica, che resta "una e indivisibile". Questa formula solenne non è detta a caso. Quando nel 2001 si volle realizzare un'idea peraltro indistinta di federalismo, si cercò di introdurre cripticamente dei meccanismi che potessero farla passare. Per capirlo, basta leggere l'articolo 117, nel cui quarto comma si dice che tutto ciò che non spetta alle Regioni viene attribuito allo Stato. È il principio della competenza generale residuale dell'ente decentrato, tipico dei sistemi federali. La competenza generale residuale è tipica dei sistemi federali come quello degli Stati americani, dove c'è una lista corta di competenze statali. Per loro "competenza generale residuale" significa molto di più, ma soprattutto da noi ci sono materie come i Lep. Questo significa che noi non potremo mai essere federali, perché c'è una preminenza dello Stato centrale: basti pensare al welfare».

Quella revisione fu promossa anche dal Pd.

«C'era in quella revisione una motivazione politica del governo di centro-sinistra del tempo, che era quella di imbrigliare le istanze leghiste, in modo da dare una risposta a metà, il che è sempre una cosa illusoria: nel momento in cui invece di sostenere le ragioni della Costituzione si insegue l'avversario sul proprio terreno, cercando di edulcorare la carica eversiva, non si arriva da nessuna parte. Oltre alla pessima qualità tecnica c'è questo vizio di carattere politico. Non si mette meno possibile mano alla Costituzione per peggiorarla. E si mette mano meno possibile, perché statisticamente quando lo hanno fatto non hanno mai mancato di peggiorare la situazione, salvo le prime revisioni di razionalizzazione che furono introdotte. Ma modifiche rilevanti di intere parti della Costituzioni come quella dell'intera parte seconda del Titolo V avrebbero meritato maggiore meditazione. È il primo caso nella storia Repubblicana di una legge costituzionale introdotta a maggioranza ristretta: fu approvata infatti con maggioranza assoluta e non con quella dei 2/3. Un'altra anomalia fu che per la prima volta il referendum su quella legge fu chiesto non solo dalle opposizioni, come è normale attendersi, ma anche dalla maggioranza parlamentare del tempo, la quale volle avere dai cittadini una conferma secondo una mentalità plebiscitaria. Una deriva pericolosa alla quale bisogna stare attenti. E lo si è fatto proprio nella materia delicatissima delle autonomie».

C'è stata una lettura strumentale di queste norme?

«Certo, e lo spiego. Noi abbiamo affermato nel nuovo Titolo V il principio di sussidiarietà, che è un principio di razionale articolazione delle competenze secondo cui la competenza deve essere esercitata al livello più vicino possibile alla comunità governata. Dunque, da una parte si va verso il decentramento delle funzioni; ma se il razionale esercizio, cioè quello più conforme all'interesse di quelle comunità, dice che quella competenza non la puoi esercitare in sede decentrata ma la puoi meglio esercitare al centro del sistema, la devi tenere al centro del sistema. Ora, questo articolo della Costituzione prevede questa possibilità. Come lo dobbiamo interpretare? Di quali funzioni si tratta? Secondo me, dovrebbe essere interpretato nel senso che ha a che fare anzitutto con quelle amministrative. In sostanza, si fa una riflessione e si vede quali si possono trasferire dallo Stato alle Regioni per una migliore razionalizzazione di esercizio. Se in alcuni casi è necessario accompagnarle queste competenze amministrative anche con competenze legislative, ove necessario, trasferisci anche quelle».

Secondo quali criteri si decide se e quali competenze trasferire?

«Ecco, non è una valutazione arbitraria. Serve un'analisi di impatto, con uno studio sulle funzioni e una ricostruzione dei livelli economici di gestione migliori, in modo da capire se prevalgono economie di scala o di scopo e decidere così se e quali funzioni decentrare o accentrare (Per capire quali funzioni decentrare???). Ma nel dibattito sull'autonomia molto spesso si parla di trasferimento di materie, non di funzioni. E le materie di cui all'articolo 117 non si possono trasferire. Se vuoi trasferire quelle, devi fare una legge di revisione costituzionale. E nell'ambito delle materie non devi trasferire tante competenze da esaurire di fatto la materia, finendo per svuotarla. Invece la lettura distorsiva e strumentale che si fa di questo articolo, rivolta ad uno scopo, si scrive che è quello di attrarre le risorse, non si dice che si vogliono trasferire le materie per meglio esercitarle sulla scorta di un'analisi delle funzioni e di un'analisi di impatto per vedere se gli apparati amministrativi sono in grado di esercitare quelle funzioni. Le Regioni del Nord che spingono per l'autonomia differenziata dicono arbitrariamente che le vogliono tutte, ma senza rispondere alla domanda fondamentale: perché trasferire? Serve una risposta tecnica, e deve soddisfare dimostrati criteri di maggiore efficienza. Anzi, ci sono ambiti nei quali sarebbe meglio ritrasferire verso il centro. Penso alla sanità, ad esempio. È possibile pensare che le Regioni possano avere delle politiche sanitarie regionali, il che significa che posso avere un sistema sanitario fondato sulla privatizzazione spinta. Posso deciderlo? Oggi sì, tant'è vero che la Lombardia lo ha deciso. Allo stesso modo, una Regione può decidere di sopprimere tutta la sanità territoriale. Abbiamo fatto bene a dare questa autonomia, dal punto di vista della tutela di una posizione costituzionalmente protetta, che è la salute dei cittadini? No, non credo. Anzi, ci sarebbe addirittura da rientrare e riportare al centro quella materia. Poi c'è un altro discorso da fare, oltre questo di tipo economico e di efficienza: ci sono materie che non posso mai trasferire, come l'istruzione, sulla quale si spende l'identità costituzionale di un ordinamento. Si tratta di una decisione politica che si prende sulla base di un'analisi tecnica messa a disposizione del legislatore, che consiste nell'analisi delle funzioni e nella valutazione di impatto. Fatto questo, il legislatore decide cosa trasferire e cosa no. Tutto questo non è stato fatto e questa legge non prevede che lo si faccia. Per cui questa è sicuramente una cattiva legge».

Possiamo affermare con certezza che, se diventerà legge, la riforma Calderoli aggraverà il divario?

«Mi pare del tutto evidente. Per quanto riguarda la determinazione dei Lep, non stabilisce nulla sul modo in cui si reperiscono le riporse. E per molte di queste funzioni se si vuole andare verso una perequazione bisogna moltiplicare la spesa pubblica per quattro in favore del Mezzogiorno. Questa determinazione dei livelli essenziali fatta con Dpcm, cioè in maniera arbitraria, non presenta alcuna garanzia di colmare quel divario che già esiste. Anzi, va verso la cristallizzazione del divario. Inoltre, in questo disegno di legge viene ribadita la clausola di invarianza dei saldi in finanza pubblica. In sostanza, il finanziamento delle funzioni trasferite è alimentato dalla compartecipazione al gettito di uno o più tributi maturato sul territorio regionale. E siamo ad un'altra questione, che è quello del residuo fiscale, perchè è scomparsa la dicitura, ma l'orientamento è quello. Questa compartecipazione al gettito di uno o più tributi verrebbe determinata non in un ammontare fissato per ciascuna funzione in valore assoluto. In realtà la compartecipazione a queste entrate erariali verrebbe fissata in percentuale di Irpef. Vi sarebbe dunque un aumento annuale delle risorse trattenute dalla Regione corrispondente all'aumento della base imponibile dell'Irpef. Introdotta la clausola di invarianza finanziaria, la Regione in cui il Pil cresce di meno riceverebbe minori risorse sia rispetto alle Regioni più forti e più dinamiche sia rispetto a quanto potrebbe ricevere se la spesa storica fosse stata innalzata almeno al livello della crescita nominale media della base imponibile. Che succede? La Regione più forte e dinamica, con una maggiore crescita del Pil e della base imponibile continuerebbe a crescere molto di più di quanto non possa crescere il trasferimento per la Regione più debole. Insomma, questa clausola dell'invarianza è un imbroglio. Con questa modalità, il divario sarebbe destinato ad aumentare».

Ci guadagna solo il Nord?

«Ma no, non ci guadagna il Nord. Se il sistema nel suo complesso perde efficienza, avremo una ridotta capacità competitiva dello stesso tessuto imprenditoriale in quelle aree. Non dobbiamo dimenticare che le regioni del Nord Italia sono il Sud dell'Europa e sono in costante decrescita rispetto agli omologhi enti dell'Europa del Nord. Loro in questo modo pensano di poter salvare il sistema produttivo di queste Regioni, ma perde di competitività e può recuperarla solo se la recupera il sistema produttivo nel suo complesso, quindi superando la frattura Nord-Sud. Nel momento in cui i sistemi produttivi più avvertiti cominciano a pensare di potersi trovare di fronte a questo assetto scombinato, deducono che forse non fa gli interessi di nessuno. Neppure del Nord».

Si va verso un modello del ciascuno per sé, rinunciando allo spirito di solidarietà nazionale?

«Sì, e c'è una cosa che non capisco: perché viene dato tutto questo spazio alla Lega da parte di un partito patriottico, nazionalista? Eppure su impulso della Lega, che oggi è un partito del 5 per cento, si fa un discorso così divisivo e così connotato ideologicamente, supportato da una strumentazione tecnica molto discutibile. Se il tema è quello di introdurre delle innovazioni finalizzato a migliorare l'efficienza dei servizi per i cittadini, qui siamo lontanissimi e siamo invece molto vicini invece ad un'idea dissoluzione del sistema. Se è un pegno politico, è un pagamento suicida: c'è qualcosa di strano».

L'ex senatore di Forza Italia Sergio Quagliariello ha sottolineato la «mancata previsione di «una clausola di supremazia che consenta allo Stato di prevalere di fronte a crisi e situazioni emergenziali».

«Ma guardi, non è questo il problema. Quelle clausole sono già contenute nell'articolo 120. Queste competenze trasversali sono una forma di garanzia. Quando è arrivato il Covid, giustamente si è intervenuti dal centro. Poi il centro ha un po' contrattato con le Regioni gli interventi, ma avrebbe potuto benissimo non farlo. Un buon governo avrebbe accentrato i poteri con lo strumento del decreto legge. Non c'è bisogno di prevedere niente del genere, semmai si tratta di dare attuazione alle clausole di perequazione. Quando lo stesso autore di questo disegno di legge si fece promotore di quello che impropriamente fu definito "federalismo fiscale", legge che prevedeva la determinazione dei Lep e che non è stata mai attuata, c'era la previsione di un formidabile fondo di perequazione senza vincolo di destinazione. Il meccanismo è quello. Allora dico: perché non attuano prima la legge sul federalismo fiscale e poi mettono mano alle funzioni?».

Sarebbe più coerente, più ordinato?

«Certo. Sarebbe molto più ordinato e molto più coerente. Consentirebbe di fare un'analisi delle funzioni e di costituire una legislazione più decente dal punto di vista tecnico. Soprattutto, ci farebbe uscire dall'equivoco e dall'uso strumentale dell'articolo 116 terzo comma della Costituzione, che non serve a riorganizzare il sistema fiscale locale. Per questo ci sono l'articolo 119 e la legge sul federalismo fiscale».

Insomma, in questo modo la truffa verrebbe sventata.

«Sì. Il grande difetto consiste nell'uso del termine "federalismo", ma noi glielo perdoniamo poiché di fatto federalismo non è, e attuiamo l'articolo 119, di modo che il 116 non serva impropriamente a definire il sistema della fiscalità locale, che invece avremo definito nella sede propria».

Il Nord però si libererebbe della zavorra del Sud, appesantita dalla presenza pervasiva della criminalità organizzata (dalle mafie???) e dall'inefficienza della pubblica amministrazione.

«Guardi, il problema dell'inefficienza dell'apparato amministrativo è generale. Se c'è una maggiore inefficienza del Mezzogiorno, bisogna affrontarla potenziando questo apparato, non facendo una politica estrattiva.  Noi forniamo i "quadri" e i laureati al Nord da decenni: questa è una modalità estrattiva che non può funzionare. Sono state prese dal Sud risorse umane, oltre che finanziarie. Questo ha creato un divario tra Nord e Sud che non fa funzionare il Paese nel suo complesso. Quanto alla criminalità organizzata, noi abbiamo nelle regioni del Nord 'ndrangheta di terza generazione che ormai è autonoma. Hanno fatto una politica estrattiva anche in questo senso. È illusorio pensare che in presenza di un'economia globalizzata pensiamo di operare su una dimensione regionale. La Lombardia e il Veneto non sono l'ombelico del mondo. Se non si fa camminare l'Italia come sistema-Paese, noi non competiamo con nessuno. Siamo destinati ad un declino globale come Paese. Credo che questa cosa i ceti produttivi del Nord lo abbiano capito».

Se parliamo ancora di un divario Nord-Sud, significa che nelle politiche per il Sud qualcosa si è sbagliato.

«Certo che sì. Il rischio di questa vicenda è che alla fine maturi un sentimento antiregionale, che periodicamente nasce nel nostro Paese. Si parla ad esempio della inutilità delle Regioni. Di fronte all'insistenza ad acchiappare risorse e ai dati oggettivi sull'esercizio di alcune competenze che non si possono nascondere sotto il tappeto matura un sentimento di questo tipo, anche perché i sistemi regionali sono caratterizzati da un assetto monocratico molto forte che genera una certa diffidenza. È chiaro che sul Sud sono stati fatti degli errori, ma la prima Cassa del Mezzogiorno fu una macchina straordinariamente efficiente. Ci sono stati periodi, come gli anni '60, in cui la crescita del Mezzogiorno è stata superiore a quella del Nord. In quel periodo la Cassa era una struttura tecnica molto agile con una grande velocità di decisione che operava con grandissima efficienza. Poi di questa Cassa si è impadronito il ceto politico e bisogna ammettere che la cassa è fallita. Ha conosciuto una regressione fino allo scioglimento quando ha cominciato a diventare una struttura ipertrofica di cui si sono impadronite direttamente le forze politiche e quando nella sua gestione sono entrate le Regioni. A quel punto c'è stato un grande spreco di risorse, e il grande miracolo della prima Cassa è finito. Tanto che alcuni di noi di fronte all'opportunità del Pnrr e all'inefficienza degli apparati amministrativi meridionali abbiamo detto che nel Mezzogiorno bisognava costituire un'Agenzia unica e centralizzata che gestisse le risorse del Pnrr per il Mezzogiorno. Uno degli indirizzi del Pnrr è il superamento dei divari territoriali, principio con il quale il progetto legislativo sull'autonomia è in contrasto. Invece si sono fatti i bandi perfino sui servizi fondamentali come gli asili nido, lasciando tutto agli apparati amministrativi».

Lei dal 1993 al 1999 è stato sindaco a Pompei: declinata in altre forme, l'autonomia potrebbe aprire spazi per meglio valorizzare le nostre risorse e dimostrare che abbiamo i numeri per cambiare in meglio il nostro destino?

«Certo che si può fare. Io sono un'autonomista, e il mio punto di vista critico sul ddl Calderoli è il punto di vista di un autonomista. Non proporrei mai una legge di revisione costituzionale per annichilire il sistema delle autonomie. Si può fare producendo una grande legislazione, seriamente fondata con analisi di impatto e delle funzioni, la quale consideri nel loro complesso le autonomie, che – guai a dimenticarlo - sono un sistema. Non si può fare una legge che coinvolga solo le Regioni. Noi abbiamo un tessuto delle autonomie che comprende i Comuni, l'ente storicamente più consolidato nel nostro ordinamento, che precedono la Costituzione le cui autonomie non a caso sono state compresse durante l'epoca fascista. Questo tessuto complessivo delle autonomie va messo a sistema e va ridefinito il quadro delle competenze. Una rimeditazione sulle competenze del sistema delle autonomie tra Comuni, Province e Regioni in un quadro di riferimento organico sicuramente può valorizzare le risorse meridionali, che sono enormi. E poi credo che dobbiamo pensare al Mezzogiorno come motore di sviluppo che guardi verso il Mediterraneo. Una possibilità di integrazione economica molto interessante per l'intero sistema-Paese. E naturalmente resta al centro il nodo della Questione meridionale. Fino ad oggi non abbiamo avuto una classe dirigente e politica in grado di affrontarlo efficacemente. C'è poco da fare: fino a quando non sarà risolto quel divario, non avremo reso competitivo il sistema produttivo italiano. La questione non può essere né elusa né cancellata».