Undici piani di irriverenza

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Si chiamasse “Palazzo brutto”, “Palazzo bianco”, meglio “bianco sporco”, invece no, gli ha forse fatto un dispetto la Napoli che non ha memoria a volerlo ricordare, a consacrarlo nel nome, paradosso di un deficit di attenzione patologico che attanaglia la città e sfocia in Alzheimer, quando c’è da difendere la storia, e in vivido ricordo, quando ci sarebbe da abolirla.

È il caso di 'via Toledo' che per secoli ha portato il suo – sensato – nome eppure molti continuano a chiamarla 'via Roma' solo per il gusto di stracciare il passato e buttarlo a terra ammappuciato, insieme alle carte patinate e oleose degli street food che la invadono; è il caso delle vie, piazze e luoghi intitolati distrattamente ad occupatori sanguinari, situazioni che poi sfociano nell’ancor più odiosa, stupidamente attuale, moda della cancel culture, in cui quelle stesse statue e targhe vengono eliminate, così da impedirci di non avere neanche più memoria del non aver avuto memoria. È affascinante come il rispetto e il suo contrario coincidano spesso nei comportamenti finali, ma non nel pensiero che ha portato a compierli.

Tra i casi, dunque, emblematici della storia che tradisce l’oblio a cui l’abbiamo abituata e ostenta nomi da dimenticare, c’è lui: imponente nel suo fallimento sociale ed estetico, Palazzo Ottieri. È il più evidente manifesto di quanto già detto da Rosi nel suo “mani sulla città”. Le mura urlano il laurismo più acuto, trascendono il dietro che non sappiamo e che forse è ancora meglio non dire. C’è Gava e la Prima Repubblica, c’è la democrazia, intesa come innovativo modo per eliminare i vecchi privilegi stantii e intoccabili e crearne di nuovi: al dinamismo dell’ascensore sociale avremmo preferito, ancora una volta, le statiche scale delle classi, ma stavolta sarebbe stato più chic non chiamarle tali.

All’ingresso del PAN, Palazzo Carafa di Roccella, la più bella installazione permanente che si può ammirare – velata polemica sulla media degli allestimenti, ultimamente però migliorati – c’è una targa che racconta come in una notte il palazzo fu saccheggiato dei suoi stucchi, così da poter pian piano avviare l’operazione di smembramento e abbattimento che l’avrebbe visto cedere spazio alle nuove costruzioni. Per fortuna dei posteri il disegno non fu compiuto. La targa è molto cortese e non dà colpe né nomi, io lo sono meno e leggo senza possibilità di fraintendimenti, in quel non scritto, la firma di Ottieri. Anzi, forse, la targa è saggia, piena degli anni della famiglia di cui il palazzo porta il nome, e preferisce l’indifferenza alla lapidaria incisione che indirettamente avrebbe lasciato nel tempo il ricordo dello speculatore, lasciando la gloria del futuro solo a Gaetano Macchiaroli, colui che del palazzo ne fu salvatore. Strategia sottile, sfuggita alla invece terribilmente moderna costruzione di piazza Mercato.

In pochi anni di attività, Ottieri costruì ciò di cui Napoli quotidianamente si pente, spazi di cui al di là del gusto, oggi, in tempi di emorragia sociale e poche nascite, non si avverte il bisogno. Modificò lo skyline partenopeo, costruì la “muraglia cinese”, così fu chiamata la schiera di palazzi per cui la neo piccola – di mentalità e di portafoglio – borghesia cedeva la dignità dell’estetica in cambio di piccoli giacigli di panorama su via Aniello Falcone. Di tutti gli scempi, però, Palazzo Ottieri resta l’esempio più emblematico della speculazione pura, perché mentre negli altri contesti l’olezzo di posizionarsi socialmente si traveste di vezzo e dunque vi è qualche decoro, qualche modesto tentativo di un irraggiungibile lusso, qui il cemento è puro, ma ahinoi non più brutalista. Non siamo nemmeno a cospetto di un, più o meno capito, progetto del ben più visionario Franz Di Salvo con le Vele, che avrebbero terribilmente tradito il suo ben più alto ideale, aspettative di comunità irrimediabilmente deluse. A Palazzo Ottieri è il degrado che prende forma in undici piani di irriverenza, nati per essere semplicemente ciò che sono.

In tempi di agevolazioni per l’edilizia, del PNRR, della ripartenza post Covid, della Napoli che offre opportunità dettate dalla sua necessità di rimettersi in sesto, sarebbe il caso di ergere questo palazzo a simbolo in grado di distruggere quell’intoccabile aria di perversa musealizzazione petulante di tutto, solo per il principio che il passato è meglio. Un segnale attraverso cui annunciare che non è più tempo di vivere un’epoca che non produrrà storia, l’occasione per decretare che Napoli entra nella mentalità dell’abbattimento e della ricostruzione, della rigenerazione urbana. Ex Catasto di via De Gasperi docet, bravi coloro ci hanno creduto!

Basta prenderci in giro, criticare il brutto in salotti che affacciano ben lontano da quel meschino panorama. Quel mostro indefinito di Palazzo Ottieri non abbattiamolo e basta, ipotesi poco credibile e realizzabile per un Comune senza soldi e famiglie – tante, troppe – che lo abitano disordinatamente. Quel Palazzo ormai c’è. Allora modifichiamolo, diamo spazio alle menti più brillanti, anche a quelle meno, ma diamo spazio a chi ha qualcosa da dire, a chi crede nella città e al suo futuro, che ne faccia un esempio di inclusione ed estetica, allora sì che sarà un monito di ciò che c’è stato e ciò che avrebbe dovuto essere.

La quarta parete del teatro che è stato Piazza Mercato è stata ormai chiusa irrimediabilmente e sarebbe inutile e forzato volerla restituire. La commedia che si recitava in quegli spazi, in cui si confondevano in un unico palco urla angioine e borboniche hanno trovato nel 1958 la loro più meschina fine, tappate per sempre da quell’Ottieri che sarebbe ora di superare.

Che paradosso che in quella stessa piazza per secoli venivano condannati gli ideali: lì ha scorso il sangue dei dissidenti, quello di Corradino di Svevia, quello degli intellettuali, troppo moderni, della Repubblica Napoletana del 1799 decapitati senza pietà, di loro invece memoria non c’è; in quello spazio di fervido brulicare Masaniello aveva già trovato l’energia per la sua rivolta, e così è stato sin dalla sua fondazione, ma, poi, le bombe dell’ultima guerra decisero la fine di quello spirito, fecero posto ad Ottieri e nulla fu più.

Il mercato non fu più mercato, o meglio lo fu fino all’intuizione geniale di un troppo ambizioso e non sempre ben assecondato Cavalier Punzo che negli anni ’80 fondò il CIS, un’avventura che avrebbe potuto fare scuola.

Un’altra occasione persa di scriverla la storia invece che raccontarla male o, peggio, dimenticarla.