Napoli - Est: tra il declino ed una ripresa possibile

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A rileggere la storia di Napoli-Est che periodicamente da almeno 50 anni ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica l’urgenza di un suo riassetto funzionale mi torna prepotentemente in mente il paradigma baconiano con il quale il filosofo inglese ammoniva i governanti che “sapere è potere“ ovvero  “…per raggiungere la conoscenza di un fenomeno bisogna prima applicare il metodo distruttivo per  eliminare vecchie convinzioni e solo successivamente far ricorso ad un metodo induttivo che consiste nell’osservazione dei fenomeni spontanei che caratterizzano un territorio”. Il caso di Napoli-Est appare emblematico per l’applicazione dell’esperimento nell’organizzazione del territorio che Francesco Bacone proponeva già all’inizio del Seicento.

Nel 1965 nella valle del Sebeto, dove una volta primeggiavano vigneti, frutteti e floridissimi orti (le “paludi” di Barra) si contavano 364 industrie manifatturiere che davano lavoro a circa 75.000 addetti provenienti per oltre il 50% dai comuni vesuviani. A sud del fascio di binari della ferrovia si localizzavano le grandi fabbriche delle Partecipazioni Statali e di gruppi privati (anche settentrionali) afferenti ai settori della metallurgia, della meccanica, della chimica oltre alla centrale termoelettrica, la raffineria del petrolio ed il gasometro. Nella sezione a nord si concentrava invece una miriade di piccole imprese, in primis dell’abbigliamento e della lavorazione del legno. Questa complessità interna faceva di Napoli-Est quella che oggi definiremo la “Porta Orientale della città”.  Intorno alle alte ciminiere fiorivano anche servizi, residenze popolari ed unità del micro commercio che nel loro insieme disegnavano una comunità incardinata su una forte cultura del lavoro che ne faceva una roccaforte del movimento sindacale e dei partiti della Sinistra costituzionale.

Questo sistema economico e sociale viene rimesso in discussione negli anni ’70 quando la crisi petrolifera del 1973 e quella militare e dei mercati del 1979 “spaccano il Novecento” ed avviano l’eutanasia del modello grande industria - grande città che aveva dominato l’organizzazione degli spazi urbani dal boom economico degli anni ’60.  Alla destrutturazione del sistema produttivo di Napoli-Est (che perde in un decennio il 20% delle unità locali ed il 30% degli addetti) si sostituisce l’approccio monofunzionale del vecchio modo di pianificare i PRT di cui l’esempio emblematico è costituito dalla costruzione negli anni ‘80 e ‘90 del Centro Direzionale, che “nasce male ed invecchia peggio” (Carlo De Luca nel suo Focus).

E qui nasce il grande equivoco della terziarizzazione dell’area orientale di Napoli. Mentre a Milano e Torino alla chiusura delle grandi fabbriche  fa riscontro il rafforzamento di altre attività economiche posizionate sulle nuove frontiere dell’innovazione ed il contemporaneo sviluppo di servizi alla produzione, a Napoli le nuove opportunità di lavoro sono offerte prevalentemente nel comparto della Pubblica Amministrazione, secondo un collaudato schema che aggira le specifiche esigenze professionali ed attribuisce al settore pubblico il ruolo di “ammortizzatore” in risposta alle periodiche tensioni sociali conseguenza diretta della destrutturazione del sistema industriale cittadino. I segni di questa “terziarizzazione stracciona” appaiono ancora inscritti a distanza di trent’anni nel paesaggio metropolitano di Napoli. Basta viaggiare in Circumvesuviana lungo la linea costiera dove i vecchi capannoni delle industrie appaiono abbandonati al degrado o al massimo occupati da attività marginali quali depositi di bibite, sedi di centri di rottamazione auto quando non di attività ai limiti (ed oltre) della legalità.

Al fallimento di qualsiasi forma di pianificazione dell’area di cui si trova traccia nei tanti progetti partoriti in sede accademica ed istituzionale il quadro attuale propone un’area espressione dei grandi processi spontanei che si sovrappongono e concorrono a definire la nuova complessità di tutta intera la sezione orientale della città. Sta di fatto che alla diffusa e preziosa cultura imprenditoriale ed operaia si è sostituita quella del lavoro informale e dell’imprenditoria illegale; ed al fenomeno del tradizionale pendolarismo dai comuni dell’area metropolitana si è sostituita l’immigrazione cinese, con le sue ben note caratteristiche economiche e comportamentali.

Come contrastare l’irreversibile declino di un’area che conserva una seppur appannata vocazione industriale, tale da poter ancora offrire un contributo essenziale allo sviluppo dell’intera Città Metropolitana? Non solo, ma il rilancio e la modernizzazione del settore industriale appare strategico anche a scala regionale dove la sola funzione turistica non è certo in grado di garantire tassi di crescita essenziali per la ripresa economica e l’inclusione sociale.

E qui torniamo alla suggestione del metodo baconiano di cui tracce significative si ritrovano in alcuni “esperimenti” pubblici (in primis il polo universitario di San Giovanni a Teduccio) e privati (nella innovativa progettualità culturale che fa capo all’associazione Est(ra)Moenia attiva ormai da anni sul territorio orientale della città). Siamo dunque ad un punto di svolta? Forse sì, a patto che l’embrione di collaborazione tra imprese (pubbliche e private) ed organizzazioni imprenditoriali e sindacali produca a breve iniziative in grado di garantire una visione sistemica dello sviluppo locale, basata sulla realizzazione delle necessarie infrastrutture (materiali ed immateriali), sull’attrattività di produzioni ad alto valore aggiunto e sulla offerta di servizi per la riproduzione del capitale sociale.