Una città alla ricerca dell’identità perduta

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Comprendere la complessità socio–economica della città è un problema "matrioska" che contiene in sé altri problemi, ciascuno dei quali contiene a sua volta altri problemi. Comprendere significa ricercare ed approfondire le interdipendenze e le trasversalità tra i diversi attori che affollano il grande palcoscenico napoletano. L’interrogazione “dal basso” assume dunque una sua “centralità” rispetto al tradizionale modello sociale che ci ricorda nel suo eccellente editoriale Davide Cerbone, ovvero "[...] il conflitto tra un notabilato ripiegato sui propri interessi ed una classe subalterna che stilla rabbia e frustrazione". La novità dei nostri giorni, offerta da una intensa osservazione sul campo, ci propone numerosi indizi di un superamento del dualismo storico tra le due Napoli e la progressiva affermazione di due fenomeni emergenti che evidenziano nuove forme di collaborazione e complicità tra diversi segmenti sociali e tra territori dello spazio urbano.

Il primo, che potremmo definire il “ modello Valerio”, è  offerto da un episodio della ben nota serie televisiva “Gomorra” e simboleggia una preoccupante  trasversalità nei comportamenti sociali. Biondino faccia d’angelo della “Napoli bene”, Valerio vive in un quartiere lontano dalla più triste periferia urbana, studia all’università ma è inesorabilmente attratto dagli esponenti della malavita al punto che con la sua auto sportiva scende dalla collina di Posillipo per sottoscrivere un “patto di sangue” con i suoi coetanei, piccoli boss  delle periferie della città. Percorso inverso invece quello dei tanti esponenti di spicco dei clan locali che risalgono i quartieri collinari della città, acquistano abitazioni di prestigio, iscrivono i loro figli alle scuole dei tanti “Valerio borghesi” e frequentano circoli e luoghi di ritrovo in compagnia di professionisti assoldati come consulenti per le loro attività di investimento più o meno legali. Episodi  di queste ambigue  alleanze  arricchiscono spesso le cronache giornalistiche.

Nel settore economico e produttivo le complicità interclassiste appaiono già consolidate in vari settori manifatturieri, dove non di rado (vedi il segmento della moda) l’imprenditore del circuito legale delega ad operatori del circuito informale fasi della produzione con il vantaggio di risparmiare sul costo del lavoro mentre il “terzista” che opera in totale contrasto con le norme sulla sicurezza ed ambientali appare del tutto sconosciuto al fisco. Anche in questo caso l’evidente promiscuità sociale va oltre i tradizionali comportamenti della borghesia napoletana e della stessa camorra napoletana. Più in generale i processi che hanno a lungo disegnato la geografia economica e sociale della città appaiono sostituiti da nuove e complesse realtà partorite da un’ambigua omologazione dei comportamenti etici e da equivoche alleanze imprenditoriali.

Le esperienze del passato ci hanno insegnato che il progetto di città moderna deve partire dalla “cose” concrete e visibili, vale a dire dai problemi reali e dalla loro dimensione, adeguando ad esse le giuste risposte istituzionali. Ma di fronte ad un paesaggio che nelle sue componenti sociali va definendosi in una ambigua contrapposizione tra “nuovi ricchi” e “lavoratori poveri” questa impostazione sembra una sfida impossibile.

In definitiva l’immagine della città non può essere affidata a patti scellerati emergenti nelle zone d’ombra della società napoletana né tantomeno ai soggetti che Nietzsche definiva “servitori della moda” (vedi a tale proposito le note di Antonio Polito sul Corriere del Mezzogiorno di domenica 24 marzo), quanto piuttosto a quell’ampia parte della comunità locale che si riconosce in una progettualità urbana sulla base di principi costituzionali da tutti condivisi e che ritrovi la coscienza  di combattere tutte le forme di una strisciante tolleranza.