De Masi: «Riportare al centro le diversità per rilanciare le aree metropolitane. Il telelavoro grande occasione per un equilibrio tra centro e periferia»

Due anni fa, mentre il Covid spalancava le porte alla rivoluzione inevitabile dello «smart working» e l'Italia iniziava a fare di necessità virtù, la sua prima ricerca sul lavoro a distanza ha compiuto trent'anni. Lui, invece, pochi giorni fa ha tagliato splendidamente il traguardo delle 84 primavere. Domenico De Masi, sociologo di fama internazionale, autore di numerosi saggi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l'Università La Sapienza di Roma, dove è stato preside della facoltà di Scienze della comunicazione, ne è convinto oggi più che mai: «Con le tecnologie, il luogo in cui si lavora perde importanza. Io sto a Ravello per tre mesi all'anno e tutto quello che normalmente faccio da Roma lo posso fare da lì: partecipare a trasmissioni tv, fare riunioni di lavoro anche con persone che stanno dall'altra parte del globo, parlare con i miei clienti e i miei parenti. Le città non sono un posto buono per vivere: hanno prezzi altissimi e inconvenienti enormi». È questo, secondo De Masi, il fulcro intorno al quale ruota il riequilibrio demografico, e dunque sociale ed economico, necessario al rilancio delle aree metropolitane.

Professor De Masi, quello della Città metropolitana è un tema che non appassiona i cittadini, probabilmente perché non li coinvolge. Intanto, da questo snodo passa il futuro delle grandi aree.

«I cittadini secondo me sono rimasti legati al concetto di Provincia. Non a caso, il governo provinciale, pur essendo stato di fatto abolito, ha continuato a funzionare sia nella pratica, in quanto restano i palazzi delle Province e tutto l'apparato impiegatizio che ci lavorava, sia perché le persone per motivi storici sono appassionate all'idea della Provincia. Del resto, quando ci chiedono di dove siamo, subito dopo il paese o la città di nascita, rispondiamo con il nome della provincia. Eravamo addirittura abituati alle targhe che segnavano le province come punto di riferimento geografico e politico: è un concetto al quale siamo legati, c'è poco da fare».

Il disinteresse dei cittadini non deriva anche dal fatto che la metamorfosi non è stata gestita nel modo migliore?

«Sicuramente. Questa trasformazione cozzava con la vita reale della gente ed è stata frutto di propaganda, come tante altre iniziative. Penso all'eliminazione del Ministero dell'Agricoltura e del Ministero del Turismo. Abbiamo votato, anche con dei referendum, cose nelle quali credevamo poco. Dopo le infatuazioni momentanee, però, riemerge sempre il substrato antropologico. Almeno, fino a quando non è intenzionalmente cancellato da un'educazione che asseconda l'innovazione. Nel caso della Città metropolitana tutto questo non è stato fatto».

Secondo lei questo fallimento denuncia la crisi dell'idea stessa di Città metropolitana?

«Il sindaco di Napoli viene chiamato sindaco di Napoli, non della Città metropolitana di Napoli. E quando dico "sindaco di Roma" intendo riferirmi alla città di Roma e non alla sua area metropolitana. Se c'è un Paese in Europa disarticolato e diversificato sul piano geografico, questo è l'Italia: da Lampedusa a Cortina d'Ampezzo, il clima e le abitudini di vita sono molto differenti: mentre in un posto è già notte, nell'altro è giorno; da una parte si fanno i bagni e dall'altra si scia. Dunque, le Regioni dovrebbero funzionare benissimo, poiché i problemi della Sicilia sono diversissimi da quelli della Valle d'Aosta. Invece, soprattutto in questa fase di pandemia, abbiamo visto che non funzionano affatto. È come se la pandemia avesse messo in evidenza il fatto che le Regioni sono state un errore e che l'articolo 5 della Costituzione è da riscrivere completamente. I cittadini hanno ben chiare queste diversità, ma la politica ha inteso il governo della Regione come un modo per esasperare i difetti più che le tipicità e le necessità».

Questo vale anche per le Città metropolitane?

«Sì, anche se bisogna dire che in qualche modo le vecchie Province funzionavano. Io l'ho vissuto da presidente della Fondazione Ravello e prima ancora da assessore del Comune di Ravello. Con la Provincia di Salerno il rapporto era fecondo, forse perchè in quella fase c'era un ottimo presidente come Alfonso Andria».

Come sono cambiati i rapporti di forza tra centro e periferia? La metropoli è ancora il sole intorno al quale gravitano come satelliti i comuni della provincia?

«Gli interessi e i problemi del capoluogo sono diversi da quelli dei centri più piccoli, per cui dire che Napoli equivale alla sua provincia è vero fino a un certo punto. Un po' di forza per l'hinterland poteva derivare da un uso più esteso dello smart working. Fino a quando si svuoteranno nei giorni feriali, poiché la gente si sposta per andare al centro, le periferie non avranno mai una vita. A Roma abbiamo l'Eur, che cento anni fa era una vera periferia ma ora è abbastanza incardinata nel centro di Roma e di giorno brulica di gente, mentre di notte è un deserto. Al contrario, gran parte delle periferie sono quartieri dormitorio che sono vuoti di giorno per ripopolarsi di notte. Così, le vie di accesso alla metropoli di mattina sono intasate nella direzione del centro, mentre di sera il traffico va nella direzione opposta. Flussi in entrata e in uscita dettati dagli abitanti della periferia, i cosiddetti "city user", che dal lunedì al venerdì usano la città per andare al lavoro e a volte ci tornano nel fine settimana per andare al cinema o per fare shopping».

Lei è stato uno dei primi teorici del lavoro a distanza, una pratica che si è diffusa a causa della pandemia. Ritiene che anche nell'era post-Covid le dinamiche sociali ed economiche delle metropoli cambieranno?

«Finché avremo al governo personaggi come Brunetta, sarà difficile. Quando è arrivata la pandemia, l'Osservatorio del Politecnico di Milano diceva che c'erano 570mila telelavoratori; 10 giorni dopo erano 7 milioni. Adesso saranno 3 o 4 milioni. Non sono più i 570mila di partenza, ma neanche 7 milioni. Il settore che poteva utilizzarlo di più è quello della pubblica amministrazione. Durante la pandemia c'era un ministro giovane, donna e digitale come la Dadone, che aveva 35 anni e ha messo immediatamente il 90 per cento dei lavoratori pubblici in smart working. Poi è arrivato Brunetta, che è vecchio, uomo e analogico, e ha riportato tutti in ufficio. Con lui, a differenza di quanto fanno i privati, per i quali lo smart working è intorno al 40 per cento, la pubblica amministrazione è tornata sotto il 15 per cento di lavoro a distanza. Un'idiozia. Stesso discorso vale per la didattica a distanza: l'ex ministro Azzolina, anche lei giovane, donna e digitale, aveva esteso la dad e in questo modo ha salvato la scuola. È vero che la scuola in presenza è meglio della scuola in lontananza, ma la scuola in lontananza è meglio di niente.  Invece il ministro attuale si vanta di riportare tutti a scuola. Che significa? Da città a città, da paese a paese, cambia tutto: il numero di contagi, le attrezzature esistenti. E sulla base di quelle variabili bisogna decidere. Un'organizzazione funziona bene se sa tenere conto delle diversità, se non appiattisce tutto».

Questa modulazione delle decisioni politiche a seconda delle singole situazioni locali dovrebbe regolare e ispirare anche gli interventi del Pnrr?

«Certo, non siamo tutti uguali. La stessa cosa accadrà con le risorse del Recovery plan. In provincia di Brescia hanno già tutti i piani pronti, credo che in Campania non ci sia una cosa che sia stata fatta per prepararsi a questa occasione. Eppure i fondi destinati al Mezzogiorno sono in percentuale maggiori rispetto a quelli per il Nord. Vedrà che il 31 dicembre del 2026 il Sud restituirà un sacco di soldi. E anche nel Sud ci saranno paesi che si saranno attrezzati e altri no. Con la differenza che la Campania da 200 anni ha meno della metà del prodotto interno pro capite della Lombardia. A un presidente della Regione dovremmo chiedere prima di tutto tra cinque anni come sarà il nostro Pil. In questo senso, il rapporto tra il prodotto interno della Campania e quello della Lombardia è uguale a dieci anni fa. Il reddito pro capite della Campania 18.900 euro e quello della Lombardia 38.000, più del doppio. Vent'anni fa il rapporto era più o meno questo. Anzi, leggermente migliore. Se si pensa che la Campania è al centro del Mediterraneo, cioè il mare più importante del mondo, ha un clima che è la fine del mondo, un terreno fertile, storia, monumenti e luoghi unici eppure ha un Pil che è meno della metà di quello della Lombardia, qualche motivo c'è. Evidentemente va ricercato nella variabile antropica».

Alla luce di queste considerazioni, il modello di area metropolitana che conosciamo è ancora valido o è superato?

«Tutto dipende da quanto i potentati locali siano in grado di farlo funzionare».

Intanto, la Città metropolitana di Napoli è di fatto un'incompiuta: manca il piano strategico e non sono state definite le Zone omogenee.

«Quando si introducono delle novità così possenti, queste vanno implementate, altrimenti non si ottiene nulla. E l'implementazione è una cosa estremamente complicata che richiede prima di tutto un convincimento da parte dei leader, che è fondamentale. Quello che viene fatto sull'onda di spinte estemporanee, senza un piano o un punto di riferimento. Ma questo fare cose senza pianificarle è tipico nostro. Non a caso, Longanesi diceva che gli italiani alla manutenzione preferiscono l'inaugurazione».

Come cambiano le grandi città nell'epoca della globalizzazione? Qual è il ruolo delle Città metropolitane nell'economia globale, considerato che la concorrenza tra le economie si gioca soprattutto al livello dei grandi agglomerati urbani?

«La globalizzazione unita alla pandemia non fa che peggiorare la situazione. Quando si alza l'acqua del mare, è vero che si alzano tutte le barche, ma quelle più solide viaggiano più veloci. Di questa valangata di miliardi, sarà il Nord che ne beneficerà. I tempi sono strettissimi, io per fare l'auditorium a Ravello del quale avevamo il progetto già pronto e i fondi europei già stanziati, che dopo otto ricorsi al Tar stavamo per perdere definitivamente, ci ho messo 12 anni. Avevo al mio fianco Bassolino e il presidente della provincia, ma lo scontro tra il sindaco e il vicesindaco ha rischiato di diventare fatale. E dodici anni per la vita di un paese globalizzato sono la fine del mondo, perché mentre prima Ravello sarebbe stata in concorrenza con Sorrento, oggi con la globalizzazione è in concorrenza con Pitangui in Brasile e con Dubai in Medio Oriente, quindi la battaglia si è fatta molto più seria».

Vuol dire che questo Piano nazionale di ripresa e resilienza otterrà risultati uguali e contrari a quelli che sulla carta si prefigge?

«Ah, sono pronto a giurarci. Dovrebbe fallire tutta la sociologia per non aumentare la distanza tra Nord e Sud. D'altra parte, come dice il grande economista Kenneth Galbraith, è bene che di tanto in tanto il denaro si separi dagli imbecilli. E succede puntualmente».

L'esperienza della pandemia ha riscritto le regole della convivenza sociale e della prossemica. Avremo un "mondo nuovo" anche sul piano della progettazione e della fruizione degli spazi? Come cambieranno le aree metropolitane?

«Cambieranno nella misura sapranno essere modernizzatrici. Intanto, i privati sono scattati in avanti, mentre il pubblico è retrocesso. Il primo libro sullo smart working io l'ho scritto nel '93, partendo da una ricerca del '90. La parte pratica era basata su uno studio per l'introduzione del telelavoro al Comune di Napoli, commissionata da Bassolino. In quel momento Napoli era all'avanguardia. Dipende da come ci si muove: a me non risulta che ci siano sperimentazioni serie di smart working in Campania, mentre sarebbe l'ideale per rivitalizzare i borghi. È assurdo che uno da Ravello vada a lavorare a Milano, ma è assurdo anche che vada a lavorare tutte le mattine a Napoli, impiegando un'ora e mezza. Le aree interne ne gioverebbero in quanto si ripopolerebbero, con la conseguenza che tutti gli impiegati, che oggi consumano in città e dunque la fanno più ricca, potrebbero lavorare da casa e consumare nei loro paesi di origine. D'altro canto, le città sarebbero decongestionate e risparmierebbero in termini di manutenzione stradale e di inquinamento».