La sociologa Amaturo: «L'incertezza ci logora, i giovani più esposti. Ma resterà anche qualcosa di buono»

Distanziati, inibiti, tamponati, mascherati fino a confondere i connotati. Sospettosi e insieme sospettati. «Come si cambia, per non morire», annotava una canzone. E il virus che tredici mesi fa ha messo in pausa le nostre vite le condizionerà ancora a lungo. Enrica Amaturo, ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali e direttrice del Dipartimento di Scienze sociali dell'Università di Napoli Federico II, spiega che, come tutte le crisi, anche questa ci lascerà un patrimonio passivo, fatto di profonde sofferenze sul piano sanitario, psicologico e sociale, ma anche un'eredità virtuosa.

Professoressa, la pandemia implica una riscrittura dei canoni. Un adattamento funzionale che è già in corso da tempo.

«Quello che pesa di più è il fattore tempo: quando è iniziata l'emergenza sanitaria, nessuno si aspettava che durasse così a lungo. Ci si era preparati ad un sacrificio relativamente breve. Quello che sta disorientando tutti è la constatazione del fatto che dopo oltre un anno il ritorno alla normalità è ancora lontano e che quello che consideravamo normale sarà rivisto. Questo crea insicurezza. Ci sono, però, anche aspetti positivi. Ad esempio, ci siamo tutti abituati al digitale e abbiamo capito l'importanza e l'utilità degli strumenti tecnologici. Sono state vinte alcune resistenze che c'erano in questo senso, si è capito che questa è ormai una parte ineliminabile della nostra vita. La necessità di un'accelerazione sul versante della digitalizzazione ci ha anche fatto capire che c'era bisogno di una trasformazione e di un ammodernamento. Quello che invece è drammatico come esito immediato della pandemia è la produzione di altre disuguaglianze».

Il divario tra chi ha e chi non ha si è allargato?

«Senza dubbio. La pandemia non ha colpito tutti allo stesso modo, di conseguenza ha accentuato quello che stava già avvenendo: un inasprimento delle disuguaglianze. Basti pensare da una parte agli enormi guadagni delle grandi società che operano sul web e dall'altra ai negozi al dettaglio. Su un altro piano, poi, c'è il digital divide, che non si misura soltanto con la capacità di accesso alla banda larga, ma è anche un problema di competenze, saperi, consapevolezza digitale».

Tra tante incognite, una cosa è certa: quando ci sveglieremo da questo incubo ritroveremo un mondo trasfigurato. Secondo lei, in meglio o in peggio?

«In meglio per certe cose e in peggio per altre. Se da una parte, come dicevo, avremo guadagnato delle competenze sul versante digitale, dall'altra sarà difficile recuperare l'abitudine alla socialità. E naturalmente sono inevitabili conseguenze sul piano sociale che sono già visibili. Vero: questa cesura ci ha fatto capire che era necessario un cambiamento e ci ha fatto riflettere. ma nei prossimi mesi ci ritroveremo in una situazione economica drammatica che produrrà una disoccupazione allarmante. Ci sarà bisogno di ricreare al più presto per queste persone espulse dal mercato del lavoro nuove opportunità e nuove condizioni. La cosa che più preoccupa, tuttavia, sono i giovani: non si riesce ancora a capire quale sarà l'impatto di questa situazione su di loro».

Oggi siamo tutti sospettosi e tutti sospettati. Ma domani come vivremo insieme? Quando si vedrà la fine del tunnel, saremo ancora spaventati e diffidenti o avidi di socialità?

«Dipende: ci sono differenze molto forti tra le persone. C'è chi è terrorizzato e sta molto attento, chi invece ha una gran voglia di socialità. Questo cambia a seconda dell'indole, ma soprattutto dell'età. Gli anziani sono in genere più spaventati e più prudenti, mentre tra i giovani c'è una tendenza a sminuire il rischio. Certo, la vaccinazione dovrebbe aiutare, ma anche in quel caso la comunicazione ha creato un gigantesco caos, generando ulteriore smarrimento».

Intanto il telelavoro, le riunioni in due dimensioni, i video aperitivi e le feste di compleanno su Zoom e Meet sono diventati pane quotidiano. C'è il rischio che finiremo per accomodarci in questa dimensione che ci riduce sempre più a delle monadi?

«Credo che questo finirà perché è legato all'emergenza sanitaria, resteranno le cose buone. Ad esempio, con il lavoro a distanza migliorerà la vita nelle città, soprattutto per quanto riguarda il traffico. Anche se, per funzionare, il telelavoro ha bisogno di un cambiamento di mentalità che superi certe resistenze. Inoltre, questa situazione colpisce e svantaggia alcune categorie, in particolare le donne, che oggi non hanno più neanche quella distanza fisica che durante la giornata lavorativa le esonerava dalle incombenze della gestione della casa e della cura dei figli. Tante mamme adesso devono lavorare mentre accudiscono i bambini, con un aggravio del livello di stress che è facile immaginare».

Quando ne usciremo, dovremo stipulare un nuovo contratto sociale, tararci su nuovi equilibri?

«Sicuramente sì. Dovremo avere un atteggiamento più prudente, ma soprattutto dovremo fare un nuovo patto con l'ambiente. La pandemia è un monito che ci suggerisce di ripensare quel mondo che girava sempre più vorticosamente. Due secoli fa un virus non avrebbe avuto questa facilità di diffusione, un mondo fortemente globalizzato è molto più esposto».

Che ruolo giocano i social in questa nuova dinamica?

«Fanno da cassa di risonanza delle paure e di alcuni atteggiamenti negazionisti, ma potrebbero aiutare molto. Penso alla geolocalizzazione di cui dispone Google, che potrebbe essere uno strumento vincente per combattere il contagio e per l'identificazione dei focolai. Purtroppo, però, quei dati restano privati, conservati nei server delle grandi corporations. Prima c'erano le sette sorelle del petrolio, oggi ci sono le big five del digitale, che detengono la ricchezza del Terzo Millennio: i dati».

La pandemia impatta direttamente sulla prossemica, con declinazioni differenti a seconda delle latitudini. In una grande città del Sud come Napoli, dove la conformazione urbanistica e l'imprinting culturale implicano una costante vicinanza tra le persone, sarà più difficile archiviare definitivamente il virus?

«Data la densità abitativa di una città come Napoli, dove mantenere la distanza è più difficile, questo è un problema inevitabile. Ma naturalmente parliamo del centro storico, non delle periferie. In genere, però, qui anche le condizioni abitative sono complicate. Lo vediamo con la didattica a distanza: spesso i ragazzi abitano in case piccole nelle quali vivono molte persone».

Intanto, l'incertezza che domina le nostre vite ci ha fatto scivolare verso uno stato depressivo di massa.

«Purtroppo sì, ed è vero soprattutto per i giovani. Una ricerca dice che dall'inizio della pandemia i suicidi sono la seconda causa di morte tra i 10 e i 25 anni di età. Le conseguenze del disagio provato dai ragazzi in questi lunghi mesi di restrizioni e privazioni, scuole chiuse e vita sociale azzerata sono pesanti. I giovani hanno meno strumenti per fronteggiare questa situazione. Già l'adolescenza è un periodo a rischio, un'adolescenza nella quale sei privato del rapporto con i coetanei aggrava le fragilità che già ci sono».

Come è cambiato il lavoro alla luce dei nuovi canoni imposti dalla pandemia?

«Ha avvantaggiato le persone con livelli di istruzione più alti e i cinquantenni, mentre ha svantaggiato i giovani e le donne. Queste ultime in particolare sono più spesso impiegate in lavori di cura e in quelli per i quali è richiesta una presenza fisica: commesse, cassiere e cose del genere. Inoltre, la pandemia ha scavato un solco tra il lavoro dipendente, garantito, e altri tipi di lavoro, penalizzando in particolare l'economia informale e il lavoro nero».

E come ha inciso l'emergenza sanitaria sui rapporti personali?

«Sul piano delle relazioni affettive e delle amicizie, il Covid si è abbattuto come una mannaia: c'è poco da fare, abbiamo bisogno del contatto fisico per stabilire legami con le persone. Non a caso, appena c'è uno spiraglio, tutti scappano fuori. È preoccupante, sì, ma è anche normale».