Porzio: «Chiusura evitabile, noi figli di un Dio minore. Senza aiuti, pronti a consegnare le chiavi al governo»

Sette giorni di purgatorio per finire, comunque, nel girone dei dannati. A nulla è valso l'ultimatum scandito in diretta dal presidente del Consiglio, Conte, il 18 ottobre scorso: «Una settimana per mettervi in regola». A nulla sono serviti i blitz di Nas e carabinieri, e vano è stato pure il surplus di attenzione da parte dei titolari: il governo ha chiuso fino al 24 novembre i cancelli delle palestre e delle piscine italiane. «Sono sospese le attività di palestre, piscine, centri natatori, centri benessere, centri termali, fatta eccezione per l'erogazione delle prestazioni rientranti nei livelli essenziali di assistenza», si legge nel decreto firmato dal presidente del Consiglio dei Ministri.

Così, nell'autunno del nostro scontento, il Covid-19 condanna anche lo sport. Franco Porzio, ex campione del Posillipo e della Nazionale di pallanuoto - negli anni '90 ha riempito la propria bacheca di trofei -, ha fondato nel 1998 l'Acquachiara, che negli anni si è affermata come una delle società sportive più importanti della Campania. E nel momento della seconda serrata mastica amaro.

Porzio, l'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, ha detto che palestre e piscine potevano non essere chiuse: è d'accordo?

«Beh, non c'era bisogno che lo dicesse lui. Nei giorni scorsi i Nas hanno controllato 200 impianti ed erano tutti in regola. Del resto, il protocollo era talmente stringente che i rischi erano ridotti veramente al minimo: su 100 persone ne entravano 40, osservando una turnazione e con tutte le precauzioni del caso. La verità è che la nostra è ritenuta un'attività non essenziale. Non a caso in Italia li chiamiamo "sport minori". Un'etichetta che ho sempre rifiutato, prima come giocatore e poi come presidente di società, sulla quale però questo ultimo Dpcm mette un sigillo».

Come era cambiata nei mesi scorsi la routine quotidiana all'Acquachiara?

«Dal 28 maggio scorso il mondo dello sport di base era ripartito con un protocollo che prevedeva un restringimento delle presenze contemporanee del 50-60 per cento rispetto a prima. Per prima cosa in acqua bisognava garantire 7 metri quadri per ogni persona, una grande limitazione. In più, prima di entrare in vasca si dovevano igienizzare le mani e controllare la temperatura corporea con i termoscanner. E ancora, la sanificazione degli ambienti, la distanza di un metro e mezzo negli spogliatoi. Condizioni che hanno ridotto del 50 per cento l'utenza degli impianti. Siamo andati avanti fino al 31 luglio a scartamento ridotto, anche perché, mentre gli utenti erano diminuiti notevolmente, i costi di gestione erano aumentati. A fine maggio in pochissimi avevano ripreso l'attività. Poi il 3 settembre abbiamo riaperto i nostri quattro impianti: quello al Frullone, che è la nostra casa, il cuore pulsante del mondo Acquachiara, e quelli di San Sebastiano al Vesuvio, Cava de' Tirreni e Pomigliano d'Arco. Volevamo dare un segnale forte al mondo dello sport, anche a costo di grandi sacrifici economici e organizzativi: era necessario ripartire, soprattutto per i tanti giovani che erano stati chiusi in casa per quasi 3 mesi. E, in tutta coscienza, siamo sicuri di aver fatto tutto il possibile per garantire agli utenti il miglior servizio nel pieno rispetto dei protocolli anticovid vigenti».

Adesso il nuovo Decreto del presidente Conte ha decretato lo stop.

«È una mazzata pesante. Sono disorientato. E sono preoccupato: come imprenditore, come sportivo, come genitore, come uomo. A settembre speravamo che le cose potessero migliorare, invece ci siamo ritrovati in una difficoltà estrema. Nelle ultime settimane la situazione è precipitata, le famiglie erano preoccupate per i figli. Ormai veniva da noi meno del 30 per cento dell'utenza. Gli impianti erano aperti, ma era come se fossero chiusi, o poco ci mancava. La stessa situazione che vivono i ristoratori: non c'è cosa peggiore».

Eppure, con il precedente decreto, il presidente del Consiglio aveva lasciato aperto uno spiraglio.

«Secondo alcune voci che mi erano arrivate, già una settimana fa in Consiglio dei Ministri c'era l'intenzione di chiudere palestre e piscine, ma Conte non ha voluto e ha ripiegato su quell'ultimatum. Che però ha fatto scattare un allarme: la paura ci ha fatto perdere oltre il 70 per cento del pubblico, la gente non andava più negli impianti, attendeva che il governo prendesse una decisione».

Alla fine, quella decisione l'ha presa.

«Purtroppo me l'aspettavo: con l'aumento dei contagi era prevedibile che dovessimo fermarci. Il Dpcm di una settimana fa aveva già ristretto ancora di più l'ambito dell'agonismo, mettendo un veto alle gare e ai campionati: così si perdono le motivazioni, non ha molto senso continuare. I ragazzi che fanno pallanuoto, ad esempio, potevano solo nuotare, senza giocare. E anche la data stata stabilita per l'inizio del campionato di A1, il 7 novembre, era stata congelata. Insomma, un gran caos. Da sportivi vorremmo andare sempre avanti, ma continuare così, sul piano imprenditoriale, sarebbe stata una condanna a morte. A questo punto, meglio fermarci un attimo per fare in modo che la diffusione del virus rallenti: se allarga il contagio, ci vorrà ancora più tempo per riprendere. E una situazione intermedia non serve a nessuno: crea comunque disagi alle attività e ai cittadini senza risolvere il problema. Non capisco, però: perchè ci hanno dato quei sette giorni di tempo se avevano già preso la decisione di chiudere tutto? Mi sembra una presa in giro».

Si aspetta che il governo vari un piano di aiuti per lo sport italiano?

«Sì. E se quegli aiuti non arriveranno per noi uomini di sport ci sarà una sola cosa da fare: prendere le chiavi degli impianti e, tutti insieme, depositarle a terra davanti a Palazzo Chigi. Che ci pensi direttamente il Governo ad andare avanti, se ci riesce».

Come vi regolerete con gli abbonamenti?

«Tutti gli abbonamenti attivi saranno recuperati per l'intera durata di giorni effettivi in cui l'impianto resterà chiuso».

Anche se si guarda avanti, però, la prospettiva non è incoraggiante. Al termine di questa stagione sportiva, già partita con handicap, i comitati sportivi campani si aspettano di perdere trecentomila tesserati, un terzo di quelli attuali.

«I giovani hanno già abbandonato lo sport agonistico, ma la cosa più grave è che dopo i mesi di lockdown alcuni non sono più tornati. Ho notato che tanti di loro, abituati ormai ad una vita sedentaria e avendo scoperto altri interessi, non sono più disposti a sacrificarsi. Sono molto più restii a concentrarsi, ad impegnarsi. Un cambiamento preoccupante: la Campania è la regione con il tasso di obesità giovanile più alto d'Italia. Il nostro lavoro più grande, quando si riaprirà, consisterà nel motivare i giovani. E sarà un lavoro immane. Allora, sul piano sociale, le società sportive, come del resto la scuola, saranno più importanti di prima».

Guardando la crisi che c'è e quella che verrà, si stima che alla fine della pandemia spariranno in Campania 4mila società. Numeri che fanno paura.

«Quella che stiamo vivendo è un'emergenza sociale. La morte di tante associazioni sportive significa anche la perdita di posti di lavoro. Parliamo di un esercito di dirigenti e tecnici che in tutti questi anni hanno avviato progetti con le scuole, sostituendosi alle politiche sociali degli enti locali e sradicando i ragazzi dalla strada. Un'opera portata avanti giorno dopo giorno che viene spazzata via in pochi mesi. Ci sono eccellenze al livello tecnico e associativo che hanno fatto un lavoro capillare di assoluta qualità e che verranno azzerate».

Come andavano le cose per l'Acquachiara prima del Covid?

«Gestivamo in modo oculato le cose, portando avanti un'attività sportiva di base. Siamo partiti da zero ventitré anni fa e siamo arrivati prima in serie A1 e poi a disputare una finale di Coppa delle Coppe. Ma adesso questa situazione non è sostenibile da nessuno. Sport management, una spa che possiede 43 impianti, è gambe all'aria: per tentare di resistere, ha chiuso 13 piscine e sospeso l'attività agonistica».

Al di là del valore sociale, che non può sfuggire, lo sport aiuta anche il benessere psicologico. C'è il rischio che questo virus ci consegni una società più nervosa, più rabbiosa?

«Se normalmente è così, a Napoli questo aspetto si amplifica. Qui i giovani hanno poche opportunità di lavoro e anche le occasioni di socialità scarseggiano. Lo sport, allora, è una valvola di sfogo fondamentale per socializzare in modo sano, senza tradire certi valori. Praticare una disciplina sportiva ti aiuta a crescere, insegnandoti a rispettare delle regole che poi sono quelle della vita. Allo stesso tempo ti distrai, sfoghi le tensioni. Inoltre, certi istruttori e certi educatori, soprattutto nei quartieri più difficili, diventano veri e propri punti di riferimento. Ecco, queste sono cose che vanno preservate».

Uscendo dal recinto nel quale ci ha costretti il virus: l'annosa questione delle strutture sportive, da queste parti, è sempre una piaga aperta? O le Universiadi hanno dato un po' di ossigeno allo sport campano?

«Le Universiadi sono state importanti, io ho collaborato con la Regione e posso testimoniarlo. Abbiamo avuto una grande opportunità per rimettere a posto 70 impianti, ora si tratta di capire come preservare e gestire quegli impianti rimessi a nuovo. Poi, però, ci sono altri impianti, più piccoli, di quartiere, costruiti con la legge 219, che oggi hanno 40 anni e che servono per lo più le periferie, dove c'è maggiore necessità di sport. Su quelle strutture va fatto un grande investimento perché possano essere ristrutturate e messe a disposizione dei giovani. Non abbiamo bisogno di nuovi impianti, dobbiamo manutenere l'esistente».

Intanto, però, non riusciamo a rinunciare allo sport visto dal divano. C'è chi dice che siamo il Paese degli sportivi seduti: una divaricazione singolare.

«Lo dico con serenità: per me, il calcio non è sport. Il calcio è business, e in quanto tale non si può fermare. Ma anche se in questo calcio girano tantissimi soldi, non so fino a che punto potrà andare avanti se la cosa diventerà ingestibile. Vero, purtroppo tanti lo sport lo guardano ma non lo praticano: è il risultato di quello che ci stanno inculcando. Mi dispiace dirlo ma sul piano della cultura sportiva siamo dietro a tante altre nazioni. Ma non siamo i soli ad aver subito un grave torto e un'evidente ingiustizia. Hanno chiuso anche i cinema, i teatri, i luoghi della cultura. Ecco perchè, oltre ad essere disorientato come imprenditore, sono preoccupato come uomo e come genitore. Si sta innescando un meccanismo pericoloso che sta spingendo sempre più i nostri figli verso l'ignoranza, verso le poltrone di casa a smanettare sui cellulari, a guardare in tv il calcio, ancor più signore e padrone unico del panorama sportivo nazionale».

Che cosa pensa di questa ostinazione nel perpetuare quel Grande Gioco Triste che è oggi il pallone, confinato com'è nelle due dimensioni dei nostri schermi piatti? Non è un po' come se il prete celebrasse la messa senza i fedeli?

«È così, ma questo dimostra che il motivo è solo quello: il calcio esiste per la tv e in funzione della tv. Questo anche al di là del Covid. Ma il sistema è così potente che non ci puoi fare niente. Però, lo ripeto: siamo al limite».

Già che ci siamo: da sportivo, che idea s'è fatto dell'atteggiamento della Juventus in occasione della partita mai giocata con il Napoli? Lo ha trovato coerente con il proverbiale "stile Juve"?

«Se fossi stato in Agnelli non avrei perso occasione per fare una bella figura e avrei accettato di rinviare la gara. Sarebbe stato un modo per rispondere nei fatti a tutte le critiche che la Juve si porta dietro da sempre. Invece hanno dimostrato ancora una volta che il risultato per loro è davanti a tutto. Sono talmente abituati a dover vincere che, anche in un momento così particolare, non badano a nient'altro».

Prima che arrivasse il Coronavirus a sconvolgere il mondo, che momento era per lo sport napoletano e campano?

«Vivevamo una situazione di difficoltà organizzative, gestionali ed economiche. Abbiamo perso un po' di anni per capire qual era la direzione da prendere, ma alla fine ci siamo resi conto che dovevamo fermarci. Vale a dire: tagliare le spese per case ed ingaggi e tornare a lavorare sui giovani. Era anche un'esigenza economica. Una volta capito questo si è iniziato a lavorare sui settori giovanili di tutte le discipline, richiamando alcuni maestri e investendo su nuovi istruttori di qualità per dare fondamentali validi per la crescita degli atleti e dello sport campano. È la direzione giusta per crescere, prendersi delle soddisfazioni a livello di club e dare lustro alla nostra regione, portando i nostri atleti alle competizioni internazionali e olimpiche».

Pensa che questo percorso sia stato messo solo in pausa?

«Lo capiremo dopo Natale. Io mi sbilancio e faccio un pronostico: penso che da aprile potremo riprendere. In primavera, come è successo quest'anno, lo sport potrà rinascere».