Villa (reale) comunale

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All’ingresso un sottile ammonimento lo suggerisce un Ercole avvilito dalle troppe fatiche che non si aspettava, si affianca a compagni neoclassici eppure già provati. Uno pare essere andato a riposare in luoghi non noti, se ne sono perse le tracce non potendone del resto lasciare: i suoi piedi sono ancora lì, unico baluardo a ricordare che lui c’era. È l’accoglienza perfetta per ciò che non c’è: “la più aristocratica passeggiata del mondo”, qualcheduno almeno avverta Dumas.

Si apre a piazza Vittoria e finisce a Piazza della Repubblica, evidente presa in giro di un destino invadente, che fa della passeggiata negata una ironica metafora dell’attuale società.

Sono lontani i tempi di ingressi vanvitelliani ed esposizioni internazionali, padiglioni e casini. Resta qualche timido rimpianto: la cassa non più armonica contornata da lanterne rotte, panorama nostrano di desolanti scorci di più americana veduta con le giostre ferme che piangono malinconia di tempi felici.

È ‘villa’ intesa alla francese ovvero città, è ‘reale’ come aggettivo non di ciò che è del regno, ma di ciò che la città è davvero. Un gioco di parole portato alla meglio in scena su un palco d’eccezione. Il decadentismo e il fallimento post repubblicano che si danno appuntamento per consacrarsi insieme scolpendo la statua più bella, il loro più intimo trofeo.

“Il mare non bagna Napoli” diceva l’Ortese riferendosi ai vicoli bui in cui la città nella città reinventava sé stessa e si perdeva nelle proprie negatività, salvandosi però dal peggior male della nostra epoca: il borghesismo.

Qua al contrario il mare arriva, ma non c’è salvezza dalla malattia sociale che dove passa lascia desertica apatia.

L’acqua così travalica campi non di sua pertinenza, mortifica la discutibile scelta di un uomo che ha deciso di avere più spazio per il tramite di una colmata di ego dal dubbio senso. Riconquista la falda, si sostituisce al magma che infuoca il suolo nel resto della città e riscalda gli animi e il cuore di chi si lascia trasportare da quel naturale spirito partenopeo, fervore terribilmente rumoroso, ma vivo.

Qui no. Il fuoco è spento, l’unico condimento di una vita piatta resta il sale di quelle stesse acque, ironia di un destino che di nuovo prova a prenderci in giro.

Le subdole pozzanghere diventano il più velenoso abbeveratoio per gli arbusti secolari ma ingenui, tanto da fidarsi ancora dell’uomo.

Acqua che scorre ovunque meno che nelle fontane mute che nel silenzio del loro immobilismo inquietano il passante sperso e solo. Le rinomate paperelle sono un ricordo di foto in bianco e nero, l’acquario resta un’eccellenza da riconoscere solo fuori patria, rigida educazione.

Fortunato Dohrn a non poter vedere i pedanti risultati dell’ingrata evoluzione suggerita dal suo più intimo collega Darwin.

Neanche più il sole entra, coperto dalle chiome disordinate delle piante stanche, idonea cornice desolante alle statue di chi meritava maggiore dignità. Volti compresi, delusi da una promessa di gloria eterna diventata agonia perpetua. Trapela finanche la speranza di essere imbrattati, perlomeno considerati, moderno “bene o male purché se ne parli” al tempo delle bombolette.

Le cancellate aperte, ogni tanto, con regole non chiare, serrano quei busti ormai non più fieri in un fato già visto dal Papa più buono: chiusi in una “gabbia dorata” senza però alcuna ambizione di santità. La loro non è una metafora, le sbarre dal dubbio gusto, cromatico ed estetico, davvero li hanno separati per sempre dall’esterno, lasciandoli in un inferno terreno del mai ambito girone dell’indifferenza.

Giuristi, ministri, intellettuali, scrittori, artisti, napoletani di nascita e di adozione, stranieri, una sfilata immobile di ciò che è stato. Le vecchie glorie paiono tutte imbronciate, svilite dal contesto.

Uno solo, sotto i baffi, sorride: è l’Avvocato Giuseppe Semmola.

Era cieco, beato lui.