Carillo: «Con Salerno Letteratura, uno dei primi esperimenti di socialità dopo il lockdown». E sulla scuola: «Usiamo le caserme dismesse per fare lezione in sicurezza»

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La risposta è nei fatti. Cioè, nei numeri: 12mila persone per le strade, le piazze e i cortili del centro antico di Salerno, ad appena due mesi dalla fine di un esilio collettivo e necessario che ha esaltato la dimensione del virtuale, consegnandole il monopolio delle relazioni.

Con Salerno Letteratura, il festival del libro giunto all'ottava edizione, è andato in scena uno dei primi esperimenti di riappropriazione dello spazio pubblico così come lo ha definito il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas. Dal 18 al 25 luglio, una settimana all'insegna della cultura che per tanti salernitani ha segnato un ritorno al mondo. Quello di fuori, che alimenta inevitabilmente quello interiore. Finalmente di nuovo in tre dimensioni, di nuovo occhi negli occhi: l'unica parte del viso che le mascherine lasciano scoperta, ma forse la più importante.

«Di più non si poteva fare», assicura Gennaro Carillo, co-direttore dell'edizione 2020 con Matteo Cavezzali e Paolo Di Paolo. Già, perché questo festival "in presenza" ha dovuto fare i conti con un'assenza: quella del suo deus ex machina, Francesco Durante, scrittore, critico letterario, giornalista, docente universitario, musicante e tanto altro ancora. Una mancanza che i nuovi timonieri sono riusciti a convertire in una testimonianza immanente, grazie ad un ricordo insieme sobrio e accorato. E grazie ad un claim capace di racchiudere tutto il senso di un'eredità. Una dedica che salda l'omaggio al fondatore con una promessa di continuità: «PerDurante». Un'intuizione che Carillo, docente di Diritto e letteratura e Storia del pensiero politico all'Università Suor Orsola Benincasa e di Storia delle dottrine politiche all'Università di Napoli Federico II, rivendica. «È stata una mia creazione», tiene a rimarcare.

Raccogliere il testimone di Francesco Durante non era facile, e il Covid ha reso l'impresa ancora più ardua.

«Francesco ci ha lasciato in dote una straordinaria potenza, una grande energia positiva. Ecco perché sono stati otto giorni di risate e di grande gioia. C'era un pesantissimo lutto da elaborare, ma ci siamo riusciti grazie ad un sovraccarico di vitalità e di sovraeccitazione. Senza mai dimenticare il segno e il sogno di Francesco. Ricordarlo con le lacrime, come si fa all'università, non sarebbe stato coerente con il suo sistema di valori. La cosa più bella è che è venuto tutto in modo molto naturale. Francesco, che è stato uno straordinario elemento di sintesi, capace di governare e dividere il lavoro, concepiva un festival articolato in sezioni, io ho sempre curato quella denominata "Non-fiction". Una struttura che, naturalmente, abbiamo rispettato. E, come lui voleva, non abbiamo lasciato che prevalessero i diktat delle case editrici. Poi, certo, c'è sempre chi vuol fare polemica, e allora qualcuno ha puntato il dito contro i tre direttori. Se ci sono stati più direttori non è stato certo per sprecare soldi, anche perché ci è stato riconosciuto poco più di un rimborso spese. Con questo festival non si arricchisce né si impoverisce nessuno. E poi, una figura come quella di Francesco è così insostituibile che per prendere il suo posto ci volevano almeno tre persone».

Il virus implica, tra le altre cose, un nuovo modo di vivere i luoghi della cultura e gli eventi culturali. Voi a Salerno avete sperimentato questo nuovo modo di fare il festival all'indomani della riapertura. Che esperienza è stata?

«Un'esperienza di cui sentivo la nostalgia già il giorno dopo. Più che otto giorni di festival, sono stati otto giorni di festa. Nonostante l'obbligo del distanziamento, c'è stata una dimensione molto gioiosa, con una riappropriazione della città da parte dei suoi abitanti. Salerno non ha visto un evento che surrettiziamente le veniva imposto, al quale prestava i suoi spazi, ma è stato esattamente l'opposto. Ho toccato con mano l'orgoglio di essere salernitani. La città ha capito che un festival del genere, in un momento così difficile, ha messo in moto un'economia. Le persone hanno mangiato a Salerno, hanno comprato a Salerno, hanno scoperto Salerno. Ed è stato molto bello riscontrare negli editori e negli autori la disponibilità a venire. In termini di numeri, lo ripeto, di più non si poteva fare: ogni giorno venti eventi in cinque ore. Iniziavamo alle 19 e finivamo a mezzanotte. Gli unici limiti sono stati il tempo e gli spazi a disposizione. Per il resto, lo scetticismo iniziale è stato vinto subito, e il festival è cresciuto ogni giorno di più: anche gli incontri di nicchia hanno registrato il tutto esaurito. E poi sono nate tante relazioni: questo è molto importante. Il senso di un festival è quello di creare connessioni».

In un momento in cui si fa tutto con Skype, Teams, Zoom e via video chattando, un Festival nel cuore di una città è una sfida alla paura.

«Abbiamo dimostrato che si può fare, organizzando un programma di eventi rigorosamente all'aperto: dall'Atrio del Duomo all'Arena del mare, passando per il Museo diocesano e il Tempio di Pomona».

Tuttavia il Covid ridisegna, per forza di cose, la geografia dell'incontro, le dinamiche sociali ed economiche, i rapporti internazionali, il turismo, i consumi. Siamo di fronte ad una rivoluzione?

«Se sia una rivoluzione è presto per dirlo. Ma di certo ci siamo misurati con due retoriche contrapposte: quella che dice che niente sarà più come prima, che potremmo definire retorica millenarista e che vede nel Covid una rivoluzione guidata dalla natura, per cui si azzera un tempo e ne comincia altro; l'altra retorica, non meno inconcludente, è quella ispirata ad una cinica rassegnazione per cui nulla cambierà e tutto resterà come prima. Sono due estremi che vanno aristotelicamente evitati, due chiavi di lettura del tutto fuorvianti. È chiaro che l'emergenza pandemica ha cambiato i nostri costumi. Gli italiani sono stati il popolo che ha comprato più mascherine: una notizia in contrasto con l'indole gaudente, incline ad un'accidiosa rassegnazione. Sul nostro popolo la paura verso un virus sconosciuto ha avuto un effetto hobbesiano, cioè produttivo di ordine. D'altra parte, la paura è un fattore determinante per l'osservanza delle regole: non ci si può aspettare una adesione kantiana, incondizionata. Il disorientamento della pseudo-scienza e il narcisismo degli scienziati hanno alimentato la paura. Per cui, l'atteggiamento di molti cittadini è stato: seleziono tra i tanti virologi che parlano quello che mi dà la risposta che mi piace di più, la più rassicurante».

Da quando siamo tornati in libertà, però, il virus ha ripreso a diffondersi.

«Nel momento in cui si sono allentate le misure, è subentrata una maggiore rilassatezza. Il lockdown è stato come una pentola a pressione: quando chiudi in casa le persone per due mesi, si sprigionano delle pulsioni collegate al desiderio di riappropriarsi di spazi condivisi. Niente di anomalo. Ci siamo lamentati per anni della asocialità delle nuove generazioni, ci lamentiamo del fatto che i ragazzi si parlano tra di loro mediante i cellulari, dal chiuso delle loro camerette, e se ora vogliono bere, parlare insieme, alitandosi addosso, non ci va bene. Io credo che occorra molto buonsenso».

Intanto, si naviga a vista: da una parte l'incertezza, dall'altra insofferenza alle restrizioni. Tra i due poli opposti, lei che cosa sceglie: un sano distacco o una timorosa cautela?

«Per natura, tendo ad essere ottimista. È chiaro che siamo tutti in trepidante attesa di un vaccino, ma non è che intanto non si deve vivere. Le soluzioni sono rimesse all'istinto di autoconservazione di ciascun individuo: se la paura implica il timore razionale di poter cadere, che mi porta a mettere il casco quando vado in scooter, quella paura è produttiva. Ma se la paura diventa la padrona della nostra vita, c'è qualcosa che non va. C'è una retorica che è passata molto nella fase-1, quella che ancora oggi immagina che dietro tutto questo ci sia un Grande fratello che vuole ridurre le libertà personali. Ogni istante della nostra esistenza è tracciato e profilato, è vero. Quello è, sì, un fatto liberticida. Oggi la libertà consiste nel garantirsi la massima opacità alle sonde: è il grande tema di Philip Dick e di tutta la grande science fiction. Per non parlare degli ultimi approdi come Black Mirror, che rappresenta una vera filologia del contemporaneo, un piccolo trattato di semiotica e sociologia. In particolare, l'episodio "White bear", della seconda stagione, fa capire benissimo il senso del rituale di degradazione messo in scena per l'arrivo di Cesare Battisti dal Brasile. Almeno tre secoli di garantismo sono andati in fumo per il senso dello spettacolo di qualche guitto di governo».

Le fa più paura la crisi sanitaria o quella economico-sociale?

«A me sembrano molto connesse. Anche la crisi sanitaria nasce da una crisi politica e istituzionale. C'è stata qualche falla, questo mi pare evidente. Bisognerà capire che cosa è successo. E poi capire se e quanto siamo attrezzati. Adesso le strutture sanitarie molto più pronte. In fondo, il Paese ha risposto. In piena estate ho visto un certo rilassamento. Ma, d'altro canto, non si poteva ipotizzare un lockdown con 40 gradi all'ombra e un caldo torrido. Stiamo attraversando un momento delicato: da un lato c'è la necessità di non sbracarsi, dall'altra quella riprendere a vivere».

Intanto, in una città come Napoli, che si fonda sulla scaramanzia, gli assembramenti sembrano assumere quasi un valore apotropaico.

«Può darsi, ma gli assembramenti li ho visti anche a Bergamo: sono l'effetto della clausura forzata. Hobbes diceva che la libertà è l'assenza di impedimenti al moto. È evidente che da marzo a maggio siamo stati tutti meno liberi».

I vicoli ombrosi, le piazzette in formato mignon: Napoli sembra disegnata perché le persone stiano una addosso all'altra.

«La tendenza alla fusionalità, alla riduzione della distanza, negli esseri umani è praticamente innata. C'è fame di socialità e, se posso dirlo, è un effetto molto positivo. Alla fine una delle lezioni che possiamo trarre è che le semplificazioni sono aberranti: la vita è fatta di sfumature. Poi, certo, la forma urbis, la configurazione della maglia urbana, fanno il resto».

Il virus ridisegna, si potrebbe dire, la prossemica.

«In parte l'ha già ridisegnata. Abbiamo interiorizzato delle nuove abitudini: ci si abbraccia di meno, ci si stringe poco la mano. Eppure sono gesti spontanei, ai quali eravamo abituati da sempre».

Come cambieranno i rapporti tra le persone? Saremo più diffidenti l'uno rispetto all'altro? Saremo più attenti all'essenziale, concentrandoci sulle vere priorità? Cambierà, insomma, lo "spirito del tempo"?

«Alcune cose sono cambiate. La differenza è latente, ma in questi casi si slatentizza. Nel momento in cui il male può annidarsi in chi è esattamente uguale a me, è inevitabile diventare diffidenti. Anche perché la scorciatoia per cui il virus lo porta il barbaro è fallita miseramente. La diffidenza è una passione triste che è entrata nelle relazioni. Ma mentre una diffidenza a tempo è sostenibile, se tracima oltre il Covid rischia di compromettere quel legame sociale che si basa sulla fiducia».

Oggi, a pochi giorni dall'inizio dell'anno scolastico (e delle elezioni), tiene banco – è il caso di dire – la disputa sulla riapertura delle scuole. Da educatore, che idea si è fatto?

«Questo è un Paese che ha bisogno di manutenzione. Se abbiamo costruito ospedali in tempi cinesi, non vedo perché non si poteva cogliere l'occasione della serrata per rifare scuole ridotte male e strade ridotte in stato pietoso. Allo stesso modo non vedo perché le caserme dismesse, che rubano spazi enormi alle città, non possano essere riattate a scuole per una didattica in presenza e in sicurezza».

A proposito del Covid e dei suoi "effetti collaterali", lei ha scritto per Il Corriere del Mezzogiorno: «Un'altra peste serpeggia. Quella del narcisismo». Ce ne siamo liberati?

«Assolutamente no. Finché non ci saranno intellettuali e filosofi capaci di dettare in maniera socratica le condizioni per stare all'interno di un discorso regole di ingaggio, finché si continuerà ad accettare di esprimere opinioni anche quando non sono meritevoli di essere ascoltate, non ce ne libereremo. Dovremmo guardare tutti al grande gesto di sovversione di "Bartleby lo scrivano", che aveva interiorizzato il senso del no e dell'autosovversione. Come se non bastasse, al narcisismo degli umanisti si è aggiunto quello scienziati, che ha finito di disorientare l'opinione pubblica. Avrebbero fatto meglio a lavorare».

Oltre i virologi, che grazie al virus hanno rimpinguato il loro conto in banca e hanno costruito un'immagine pubblica, chi ci ha guadagnato?

«Sicuramente l'industria farmaceutica. E poi i social, Amazon con il recapito, Netflix. Costringendoci a limitare i contatti con gli altri, la pandemia riconfigura anche la fruizione dello spettacolo».

Chi ci ha perso di più?

«Chi si è trovato come medico, come operatore sanitario o come paziente a gestire tutto questo a mani nude. E poi quella piccola impresa che non godrà di aiuti di Stato. Il Covid è stato come un terremoto: anche mentre il sisma colpiva l'Aquila qualcuno si stava fregando le mani».

E poi ci sono quelli che tirano a campare con un'attività sommersa e saltuaria fatta di piccoli lavoretti e che, non potendo accedere alle misure di sostegno al reddito, rischiano di scivolare ancora più in basso.

«È evidente che la spaccatura è tra garantiti e non garantiti. In un momento del genere, la forbice delle disuguaglianze si è ulteriormente allargata. Siamo di fronte al fallimento della sinistra, che doveva mettere al primo posto il tema delle disuguaglianze. Il lockdown ha fatto emergere in maniera brutale questa disparità: perché un conto è farsi la clausura in 200 metri quadri vista mare e un conto è farsela in 50 metri vista vicolo».

E la classe politica che figura ci ha fatto?

«Ho sentito toni trionfalistici, con aggettivi eccessivi. Io dico che c'è stato un governo che ha tenuto botta, specie se guardiamo l'erba del vicino. Alla fine l'Italietta, con tutti i limiti mostrati anche in questa occasione, primo fra tutti un narcisismo di lotta e di governo e una tendenza alla spettacolarizzazione, non ha fatto una brutta figura. Il sistema-Paese per ora ha retto. La ricostruzione del Ponte Morandi è la prova di questa insospettata capacità di reazione. La crisi sanitaria, come tutte le crisi, ha fatto emergere il meglio e il peggio del Paese. Ma le somme si possono tirare solo alla fine di un periodo più lungo: l'autunno sarà cartina di tornasole».