Carreras (Università di Barcellona): «Tra un centro in crisi e un localismo anti solidale, scelgo la via federale»

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Un non luogo dominato dalla tecnica, con i "malls" - i mastodontici totem di cemento di ispirazione statunitense - a sostituire il commercio al dettaglio e l'e-commerce a fare il resto. Così Carles Carreras, geografo di livello internazionale, titolare della cattedra di Geografia umana all'Università di Barcellona e frequentatore di Napoli, interpellato sulla complessità delle grandi aree metropolitane e sugli scenari futuribili, ci fa immaginare in una proiezione angosciante, ma non del tutto inverosimile, la città futura.

Un'entità che cambia volto fino a trasfigurarsi (o a sfigurarsi?), con le strade che perdono via via il commercio di prossimità e I negozi che ammainano le saracinesche come fossero bandiere nel momento della resa. Fino al lugubre epilogo della sparizione delle botteghe e delle attività cosiddette "brick and mortar", mattoni e malta.

Solo un'ipotesi, al momento. Perché, spiega Carreras, dovendo fare i conti con le nuove variabili del telelavoro e della crisi della mobilità, è difficile fare previsioni. In questa selva di punti interrogativi che pencolano sul futuro, tuttavia, si staglia una certezza: dentro e intorno ai grandi centri urbani tutto sta cambiando, anche per effetto della pandemia. A cominciare dai rapporti di forza tra le metropoli e i comuni dell'hinterland.

Professore, qual è il ruolo delle Città metropolitane nell'economia globale, considerato che la concorrenza tra le economie si gioca soprattutto al livello dei grandi agglomerati urbani?

«Con i tanti cambiamenti che si sono avuti nel mondo, oggi la situazione si è complicata. In passato le Città metropolitane erano i grandi motori dell'economia e della società, ma in un momento del genere è difficile rispondere a questa domanda. La grande ipotesi sulla quale lavoriamo è quello di un'urbanizzazione planetaria. Tutto è urbano, oggi, nel mondo. Ci sono processi di urbanizzazione differenziali, uno di questi riguarda le metropoli. A Barcellona il centro metropolitano ha vissuto una crisi notevole: non sappiamo se sarà strutturale o se passerà. Questo vuol dire che le relazioni tradizionali tra periferia e centro sono completamente cambiate e le dinamiche più attive si sono localizzate in alcune periferie, per cui assistiamo ad una crisi molto profonda del centro tradizionale. Per questo credo che assistiamo ad un processo di ristrutturazione metropolitana che non viene spiegato dalla dialettica centro-periferia. Vigono altre regole, ed è un momento critico per capire dove andranno le Città metropolitane. Da un lato c'è la crisi della mobilità, con lo stop del turismo interno, che ha avuto conseguenze molto gravi. Il telelavoro si è diffuso molto e ha avuto conseguenze pesanti su tutti gli uffici del centro città. Dall'altro c'è quella che gli americani hanno definito "retail apocalypse" (così viene definita la crisi dei negozi fisici, iniziata alla fine della prima decade degli anni 2000, ndr)».

Vuol dire che le nostre città cambieranno volto anche sul piano commerciale?

«Stiamo ipotizzando delle città senza il commercio tradizionale. Il commercio c'era prima dell'agricoltura e prima dell'industria e c'è stato dopo. Ma adesso, per fare un esempio significativo, Corte Inglés, uno dei più grandi distributori commerciali spagnoli, è in una crisi straordinaria. A Barcellona ha chiuso già due grandi stabilimenti: perdono mercato a causa della grande espansione dell'e-commerce. Non solo giganti come Amazon, ma anche aziende più piccole che sono riuscite a trovare un posto in questa nuvola. In più, il telelavoro permette a molti di lasciare le grandi città per andare a vivere in luoghi di campagna o in città di media grandezza. La coincidenza di questi due processi può avere conseguenze molto pesanti sulle strutture delle quali abbiamo parlato fino ad oggi. Sono le ipotesi sulle quali lavoriamo, immaginando non la fine delle città, ma una loro ristrutturazione. A questo proposito, stiamo studiando l'esempio del Corviale a Roma che realizza in pratica l'utopia de Le Corbusier, con i negozi all'interno dell'edificio. Una struttura assolutamente separata da Roma. La strada ha perso una grande parte del proprio ruolo sociale, che il commercio aveva aiutato a mantenere».

In alcune parti del mondo globalizzato è già successo da tempo.

«Sì, in America del Nord, ma anche in quella del Sud: penso a grandi città come San Paolo, e lo stesso vale per le metropoli che hanno costruito i cinesi. Sono luoghi dove si è realizzata una disumanizzazione assoluta dalla quale le nostre grandi città finora si sono salvate grazie al peso della storia».

Il modello di area metropolitana che conosciamo è superato?

«Credo di sì, è un concetto superato. Il ventesimo secolo non è stato capace di spiegare come si sta strutturando il territorio oggi e soprattutto come sarà domani. A Napoli avete buttato giù le Vele: non so se sia una buona idea. Credo che dobbiamo preservare la memoria in ogni caso, lo stesso vale per quella periferia terribile dove hanno vissuto e vivono migliaia di famiglie. Almeno uno di quei palazzi dobbiamo conservarlo come fosse una cattedrale, poiché racconta quello che siamo stati».

La Spagna conta un totale di 70 aree urbane funzionali o aree metropolitane: come sono organizzate e come funzionano? Quali sono le differenze rispetto a quelle italiane?

«Abbiamo un'organizzazione territoriale molto complicata. Il nostro Stato si è organizzato nelle comunità autonome e questa autonomia regionale con la pandemia ha funzionato abbastanza perché la sanità pubblica è nelle mani delle comunità, così non abbiamo avuto una, ma 17 politiche anti Covid. D'altro canto, abbiamo una tradizione municipale come quella della Francia, con una frammentazione territoriale enorme e una grande difficoltà a trovare una relazione tra i municipi e le città. Ma è un'organizzazione che nessuno vuole cambiare. Accanto ad un senso molto forte dell'autonomia locale, con 8mila municipi, viviamo una crisi autentica della pianificazione. Da una parte ci troviamo di fronte a proposte molto localiste che nessuno sa come gestire in modo organico; dall'altra, si dibatte molto della proposta sulla "città dei 15 minuti" (concetto è stato elaborato dall'urbanista franco-colombiano Carlos Moreno, inserito nel 2020 nel programma elettorale della sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, e di recente ripreso anche dal neo sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ndr). L'obiettivo è quello di avere una città dove ciascuno può trovare tutto ciò che gli serve in 15 minuti a piedi. Questo sta accentuando la frammentazione ed è contrario al senso di città. E intanto le aree più piccole, dove si vive bene, non hanno la capacità di diventare insieme qualcosa di collettivo».

A Napoli la grande città oscura i centri dell'hinterland, rendendoli ancora più periferici. Questo è successo anche in Spagna?

«È una cosa più o meno normale. C'è stato un momento in cui sindaco di Barcellona voleva organizzare l'area metropolitana come una federazione municipale, mentre oggi viviamo una crisi del centro. Non c'è più questa prevalenza sulle periferie, anzi: Barcellona ha perso gran parte del proprio ruolo guida dell'area metropolitana e ognuno ha preso la propria strada, lasciando da parte un approccio solidale. Questo ha determinato un cambiamento drammatico nella dialettica centro-periferia, a danno del primo».

Con la tendenza, accelerata dalla pandemia, a lasciare i grandi nuclei urbani, l'hinterland guadagna una nuova rilevanza. Come cambiano i rapporti di forza sul piano politico, economico e sociale tra piccoli e grandi Comuni?

«Si tratta di un processo molto disomogeneo, che non riguarda tutta la periferia. Stiamo cercando un altro equilibrio: ci sono periferie molto funzionali e altre che lo sono meno. L'economista francese Thomas Piketty insiste sulla diseguaglianza della crescita. Non sappiamo se sia tardo-capitalismo, post-capitalismo o se siamo in un altro sistema. Abbiamo bisogno di studiare per capirlo. E in questo momento è molto difficile, poiché tutto si fa virtualmente e abbiamo perduto le forme tradizionali con le quali si diffonde la conoscenza».

Qual è il posizionamento istituzionale della Città metropolitana nel ridisegno del territorio regionale e nel rapporto con lo Stato centrale?

«Si torna sempre alla questione delle autonomie. Mentre a Madrid esiste un'identificazione tra le comunità autonome e la Città metropolitana, a Barcellona questo non avviene, perché la metropoli è troppo grande e sarebbe troppo potente rispetto ad una comunità come quella della Catalogna. I casi più tradizionali sono quelli di città di media grandezza come Valencia, Siviglia e Bilbao. Oggi non c'è questa opposizione tra le aree metropolitane e lo Stato, come è stato nel ventesimo secolo. Sta cambiando tutto e non sappiamo in che direzione. Intanto, però, quello che mi preoccupa è che il piano regolatore a Barcellona è stato approvato nel 1976, un anno dopo la morte del dittatore. Finora non sono riusciti a fare nuovo piano regolatore e tutte le trasformazioni, quelle realizzate in vista dell'Olimpiade del 1992 e quelle post olimpiche sono state fatte secondo quel piano. Questo da un lato denota una grande flessibilità, ma dall'altro ci dice che non abbiamo bisogno di piani regolatori. Una realtà terribile, considerato che dal 1976 ci sono stati tanti cambiamenti».

Secondo lei qual è il modello di sviluppo più efficiente per un'entità complessa come la Città metropolitana: quello monocentrico o quello policentrico? Meglio un centro forte o un decentramento spinto?

«Sono abbastanza convinto del fatto che il modello della federazione sia quello migliore. Sono per un policentrismo federale. Ma è evidente che nelle nostre città mediterranee il centro non è importante in quanto luogo della gestione amministrativa ma come centro storico e simbolico. Il ruolo culturale delle città europee ha bisogno di questo simbolismo».

In quali forme si sviluppa a Barcellona la partecipazione democratica nella costruzione del piano strategico della Città metropolitana?

«In teoria il ruolo dei cittadini è previsto, ma nella pratica il loro coinvolgimento è troppo istituzionalizzato attraverso le Asociaciones de definos, una forma di selezione dei leader locali. Teoricamente, tutto è organizzato in modo trasparente per la partecipazione, ma in pratica, per effetto della frammentazione della quale ho detto, ciascuno è interessato solo a come vive nel proprio posto, non a come si vive altrove. Con il paradosso per cui, soprattutto con i governi di sinistra, si è arrivati a forme più solidali verso l'Africa che con le nostre periferie».

Lei conosce bene Napoli, che condivide con Barcellona un passato industriale. Che scenari futuri si possono immaginare per queste due città?

«Sono città per certi aspetti simili, ho tentato più volte di fare una comparazione. C'era un tempo in cui Barcellona aveva più successo di Napoli, ma poi credo che tutto sia cambiato. Quello che fa la differenza è il ruolo dello Stato: se per Napoli i grandi investimenti hanno sempre origine dal centro, per Barcellona non è così. Ecco perché a Napoli si trovano delle follie come il Centro Direzionale. In Italia il ruolo dell'iniziativa statale è molto importante, e nella correlazione di forze interne credo che Napoli sia vincitrice rispetto alle altre città. Quando ho cominciato a venire nella vostra città, milanesi e torinesi che non erano mai stati a Napoli ne avevano paura. Oggi no: Napoli è riuscita a inserirsi nell'immaginario positivo degli italiani, guadagnando posizioni molto importanti. Probabilmente non è mai riuscita a diventare la capitale del Sud, ma è riuscita in parecchi aspetti a sviluppare una dinamica economica molto significativa».

Quale contributo potrà portare il Pnrr allo sviluppo e al compimento del progetto delle aree metropolitane e a che punto siete nei progetti?

«Anche in Spagna questo piano di ripresa è molto frammentato. Da un lato la politicizzazione eccessiva non aiuta: la destra si scontra con la sinistra, e all'interno di questa dialettica è molto difficile avanzare. Poi qui i progetti sono stati lavorati in maniera molto locale. Il risultato finale sarà che i luoghi più dinamici riusciranno a portare avanti i progetti e quelli che hanno maggiori difficoltà no. Così, la disuguaglianza tra le aree aumenterà».

Insomma, secondo lei il Pnrr in Spagna finirà per scavare un solco ancora più profondo tra le aree più forti e quelle più deboli?

«Con l'idea dell'Europa per cui il Next Generation Eu è un premio per le iniziative locali, questo epilogo era inevitabile».